martedì 27 marzo 2012

LACUNA COIL - Dark Adrenaline


DARK ADRENALINE
 
Etichetta: Century Media
Data di uscita: 23 Gennaio 2012
Genere: Alternative Metal

Introduzione:

Prosegue la scalata delle classifiche dei nostrani Lacuna Coil, la band milanese capitanata da Andrea Ferro e simboleggiata dalla bella Cristina Scabbia. Ancora non si sono spenti gli echi del buon “Shallow Life”, uscito ormai 3 anni fa, ma la amata/odiata band italiana si ripresenta sul mercato con un altro capitolo dalla qualità indiscutibile; una godibile uscita discografica che, come al solito, non sarà esente dalle solite critiche da parte di un pubblico italiano spesso troppo ermetico nei confronti di un metal estremamente attuale e moderno. “Dark Adrenaline” si assesta infatti su un suono fortemente influenzato dal mainstream americano, così come già era successo nel disco precedente, pertanto lo pseudo-gothic dei primi dischi viene ancora abbandonato in maniera piuttosto massiccia, virando sempre verso un metal alternativo, fortemente patinato di nu-metal sfacciatamente modernista. Ad essere sinceri, di gothic questa band ne ha visto davvero poco, anche se non si può evitare di scorgerne qualche sottile intrusione in album come “Unleashed Memories” (2001) o il fortunato “Comalies” (2002). La smaccata vena ruffiana ed ammiccante proposta dal suono dei Lacuna Coil non sembra essere un problema, poiché “Dark Adrenaline”, nonostante la sua estrema orecchiabilità, possiede vari brani interessanti e dotati del giusto piglio melodico, rendendo l’ascolto scorrevole ed estremamente fluido. Nonostante, obiettivamente, questo nuovo lavoro sia un altro buon esempio di alternative metal ben fatto e quasi mai banale, sono convinto che la schiera di metallari italiani medi rimarrà sempre indifferente nei confronti di questa solida realtà musicale, un piccolo grande orgoglio “made in Italy” che tanta fortuna ha fatto e sta facendo all’estero, negli States soprattutto. Chi è invece dotato della giusta apertura musicale, saprà apprezzare in buona parte, se non tutto, anche questo nuovo corposo lavoro, queste sonorità così  catchy, commerciali e moderne ma anche dannatamente accattivanti.  


Track by Track:

L’adrenalina oscura pervade il nuovo album già a partire dalla prima traccia “Trip The Darkness”, classico brano alla Lacuna Coil, pervaso da atmosfere cupe e blande ritmiche alternative, con un ritornello emotivo e carico di pathos, dove splende la prova vocale di Cristina, su alte tonalità. I ritmi si accendono maggiormente con la splendida “Against You”, brano dotato di riff su ritmiche veloci nella strofa e di un bellissimo refrain melodico ed accattivante. Questa volta, la voce di Andrea diventa protagonista, anche se è da sottolineare come le sue linee vocali spesso non presentino grandi sviluppi. Da notare, invece, un inusuale assolo di chitarra nella parte intermedia del brano, riuscito e perfettamente integrato nel contesto. Le lievi orchestrazioni e gli intrecci vocali aiutano a far decollare quest’ottimo brano. Il singolo apripista dell’album è la seguente “Kill The Light” che, non a caso, è uno dei brani più radiofonici ed immediati dell’intero lavoro, in modo particolare nel semplice ma efficace refrain. Nonostante la sua attitudine prettamente mainstream e radiofonica, il brano, maggiormente legato alla produzione più recente del gruppo, scorre liscio e deciso nel suo proseguimento, accompagnato da lievi ed azzeccate partiture elettroniche. Nulla di più, nulla di meno: “Kill The Light” non è un capolavoro, ma è un buon singolo, perfetto ed istintivo, melodico e piacevole quanto basta per entrare nelle grazie dei fan di tutto il mondo. Spicca maggiormente la successiva “Give Me Something More”, forte di notevoli intrecci vocali tra i due singers e di una strofa particolarmente accesa e graffiante, su riff semplici ma potenti. La struttura e l’arrangiamento del brano lo rendono davvero molto gradevole e coinvolgente, privo di momenti vuoti o a sé stanti. Un plauso va ai due cantanti e soprattutto ad Andrea, particolarmente ispirato dalla carica emozionale di quest’altra buonissima canzone. Il nu-metal più sordido sembra spadroneggiare fin dall’introduzione di “Upsidedown”, ma, dopo i primi secondi, è notevole come i nostri riescano a trasformare un brano nu-metal in un qualcosa di più personale e grandioso. L’arrangiamento oscuro e sinistro è un vero punto di forza da sempre per la band e non fa eccezione questa song, esempio di un rock moderno egregiamente eseguito. Da segnalare ancora una volta l’ottimo apporto vocale dei due cantanti: due voci estremamente complementari e quasi sempre ben ragionate nelle linee vocali. “End Of Time” si presenta come una ballad moderna e potente, dove l’aspetto emotivo della band non stenta a presentarsi, attraverso un arrangiamento delicato di chitarre pulite e tastiere atmosferiche, fino al possente ritornello distorto, cantato da Andrea. Un brano molto melodico e radiofonico che, in varie occasioni, ricorda le ultime prove degli olandesi Within Temptation. La song in questione non brilla certo per estrema originalità o idee sovraumane ma è adeguata al contesto e, senza nemmeno rendercene conto, fluisce grazie alla sua semplicità. Fin dalle prime note notiamo una certa oscurità di fondo in “I Don’t Believe In Tomorrow”, il brano più potente del lotto, dal punto di vista del sound, e anche la song dotata del refrain più plumbeo dell’intero album. Sebbene le premesse siano buone, in realtà “I Don’t Believe In Tomorrow” risulta anche la creazione più monotona all’interno dell’album, pervasa da un solito gusto sfacciato per il modernismo metallico che questa volta, però, non riesce a spiccare in alcuna occasione sul resto. Dimentichiamo questo mezzo passo falso con la successiva e più intrigante “Intoxicated”, dove le solite ritmiche alternative sono condite da ottime prove vocali e da arrangiamenti corposi e dinamici. Evocativo il pur semplice ritornello, sorretto da lievi ma essenziali tastiere. Un brano semplice, breve ed estremamente lineare, ma accattivante quanto basta per apprezzarlo. Ancora un richiamo ai Within Temptation più recenti con “The Army Inside” (il ritornello non ricorda anche a voi la nota “What You Have Done”?), dove comunque si può godere di un buon refrain e di un perfetto arrangiamento. Il brano, come molti altri, è breve e scarno nella struttura e non è memorabile per chissà quali doti tra le righe, ma è semplice e d’effetto, come da classica tradizione della band. C’è spazio anche per un altro bell’assolo ad opera di Cristiano, sicuramente un surplus tutt’altro che sgradevole da sentire in un disco come questo. I Lacuna Coil già ci avevano proposto una breve e gradita capatina nelle cover storiche con l’ottima interpretazione di “Enjoy The Silence” dei Depeche Mode, nell’album “Karmacode” (2006) e ripropongono l’esperimento con un altro pezzo forte dei primi anni ’90, ovvero la bellissima “Losing My Religion” dei R.E.M., scioltisi in tempi recenti. La prova offerta dai Lacuna stravolge, in parte, l’anima delicata della canzone, inserendo, ovviamente, i consueti chitarroni pesanti nel refrain, ma c’è da dire che la band, nel ri-arrangiare secondo il proprio stile un brano estremamente lontano dai suoi canoni, è in grado comunque di mantenere abbastanza intatta l’emotività dello stesso, il quale risulta così una versione gradevole anche se, in fin dei conti, non eccellente (insomma, è prevedibile che l’originale rimanga indubbiamente la versione migliore). Dopo questo coraggioso esperimento, la band torna a propinare il sound alternative rock/metal tanto caro ai sei musicisti con “Fire”, una brevissima canzone immediata e potente, dotata di un ritornello estremamente diretto e chatchy. Proprio per questa sua estrema immediatezza, il brano è sufficientemente gradevole ma, allo stesso tempo, non c’è un solo particolare che osi rimanere in testa per essere ricordato con piacere. Arriviamo al finale dell’album, ed in effetti non poteva protendersi oltre, considerato che certe soluzioni sonore, dopo una dozzina di canzoni, iniziano a stancare e ad essere abbastanza ripetitive. Congetture a parte, “My Spirit” è una sorta di lenta ballad, nella concezione moderna del termine. E’ lodevole ed originale l’idea di inserire un’atmosferica narrazione in lingua italiana a metà brano, ma, al contempo, la song ha un incedere ed un refrain poco convincenti ed abbastanza piatti, che si trascinano per quasi sei minuti senza un barlume di energia all’orizzonte. Non è stato quindi il modo migliore per concludere un album comunque discreto, dotato anche di qualche ottimo picco compositivo.   


Considerazioni Conclusive:

Un album 100% Lacuna Coil, ecco come semplificare l’operato svolto dai sei milanesi per questo “Dark Adrenaline”. L’impatto commerciale del precedente “Shallow Life” viene ripreso e codificato in una chiave leggermente più pesante, con un occhio rivolto verso i lavori meno recenti del gruppo, dando vita ad un album indubbiamente valido, onesto e sufficientemente corposo. Gli arrangiamenti, eleganti e di classe, donano, come sempre, una marcia in più al lavoro svolto dal combo e, per tal scopo, aiuta senza dubbio anche la sfarzosa produzione (ad opera di Don Gilmore), potente e nitidissima. In primo piano, spiccano i lavori vocali della coppia Andrea Ferro-Cristina Scabbia, il primo esente da particolari capacità tecniche e dedito ad una pura carica energica, mentre Cristina ha dalla sua una voce abbastanza versatile, precisa e dinamica, pur rimanendo in un ambito canoro totalmente moderno. Restano, invece, semplici ma di impatto i lavori dei restanti fedeli musicisti Chris e Maus (chitarre), Criz (batteria) e Marco Zelati (bassista ed autore, tra l’altro, di quasi tutti i pezzi della discografia del gruppo), protagonisti di prove precise ed efficienti. Proprio in questo consiste la forza della band: pezzi semplici ed immediati, potenti, malinconici, ricchi di carica, di emotività…di una “oscura adrenalina”; un titolo decisamente azzeccato a pensarci bene: l’“adrenalina” c’è, si percepisce in ogni solco, in ogni nota, e l’“oscurità” pervade palesemente l’intero lavoro grazie ai soffici e raffinati arrangiamenti. Non scrivono e non hanno mai scritto dei veri capolavori, tutti lo riconosciamo, e “Dark Adrenaline” non fa certo eccezione, ma invito comunque tutti i metalheads a dare una chance ai Lacuna Coil, una band di cui dobbiamo andare fieri, un caposaldo del metal moderno. Una musica alla portata di tutti e sicuramente un ottimo diversivo di qualità per chi vuole avvicinarsi al concetto più moderno del tanto bistrattato metal contemporaneo.


Tracklist:

01. Trip The Darkness
02. Against You
03. Kill The Light
04. Give Me Something More
05. Upsidedown
06. End Of Time
07. I Don’t Believe In Tomorrow
08. Intoxicated
09. The Army Inside
10. Losing My Religion
11. Fire
12. My Spirit


Voto: 7,5/10

mercoledì 21 marzo 2012

METALLICA - Beyond Magnetic


BEYOND MAGNETIC (EP)

Etichetta:  Warner Bros
Data di uscita: 30 Gennaio 2012
Genere: Thrash Metal

Introduzione:

Non c’è band al mondo di cui qualcuno non abbia mai sentito una nota nella propria vita come i Metallica. Questo si sa; sappiamo tutto, ogni singola sfumatura dell’arcinota band di Los Angeles. Per chi non naviga nel metal, i Metallica sono un po’ l’icona di una musica fatta di rabbia e ribellione sonora; ma chi sta invece in questo mondo, sa bene che il metal ormai ha dei rappresentanti ben diversi. I Four Horsemen non sono sul mercato discografico ormai dal 2008 (non consideriamo il bistrattato “Lulu”), anno in cui uscì il controverso “Death Magnetic”, un album che, da una parte, scontentò nuovamente i detrattori, dando loro modo di sfogarsi sulla scarna batteria di Ulrich, sulla prestazione solistica deludente di Hammet, sul mai troppo accettato stile di Trujillo e su una produzione sin troppo scadente per un colosso come i Metallica. Se da una parte queste reazioni erano decisamente prevedibili, dall’altra c’è da dire che “Death Magnetic” ha riproposto dei Metallica più freschi e più aggressivi di quanto ci si potesse attendere, riportando in auge (con i dovuti distinguo) quel vecchio thrash di cui furono i portabandiera negli ’80. Insomma, da tempo non si sentivano i Metallica impazzare sui loro strumenti con un po’ di vigore e decisione (per il bene di tutti, tralasciamo quel disgustoso inciampo a nome “St. Anger”). Per non lasciare troppi vuoti di mercato, in mezzo a tante strane e folli strategie di marketing di cui si sono resi protagonisti (leggi: braccialetti, film ecc…), la band decide di mettere a disposizione anche su supporto CD, quattro brani inizialmente rilasciati solo per il mercato digitale. Ebbene, si tratta di quattro inediti provenienti dalle sessioni di scarto del recente “Death Magnetic”; quattro brani presentati per la prima volta dal vivo in occasione dei trent’anni di attività della band, in quattro sere diverse (uno per ogni sera) e solo successivamente resi noti al grande pubblico nelle loro vesti da studio. Si tratta, com’è ovvio, di un prodotto destinato ai soli fan più sfegatati: le canzoni, come prevedibile, hanno una qualità di composizione che rientra nella media di “Death Magnetic”, presentando alcuni picchi piuttosto trascurabili assieme ad altri vari spunti addirittura più interessanti del precedente full-lenght. Insomma, è bene considerare questo EP non come un’anticipazione di quello che potrà essere il nuovo prossimo album dei Metallica (da tal punto di vista, ci si può aspettare di tutto), ma come una continuazione di quanto già creato nel 2008. “Beyond Magnetic” è questo, semplicemente un regalo ai fan, un qualcosa “in più” obiettivamente trascurabile. 


Track by Track:

“Hate Train” fin dai convincenti riff iniziali, ci fa subito capire che la musica proposta in questo nuovo EP va, inevitabilmente, a continuare quel discorso intrapreso con “Death Magnetic”. Il riff principale potrebbe essere visto come il riff velocizzato della famosa “Fuel”, tanta è la somiglianza con il pezzo in questione. Ci troviamo di fronte ad un brano comunque sufficientemente fresco, per quanto possibile, ed accattivante soprattutto nei break melodici, perfettamente inseriti nel contesto di un brano ruvido e dinamico. L’assolo centrale di Kirk non farà gridare al miracolo, ma restituisce un chitarrista degno di tal appellativo (comparate gli assoli disastrosi di “Death Magnetic” per capire ciò che intendo). Il brano si muove su delle coordinate decisamente orientate verso il thrash metal, con una buona prestazione di James al microfono. Nonostante la sua lunghezza, “Hate Train” rappresenta un gradito e stuzzicante regalo per tutti gli ascoltatori. Non si può certo dire lo stesso di “Just A Bullet Away”, brano che esprime genuinamente il concetto di “filler” e giustifica in pieno il fatto di essere stata esclusa da una tracklist di un full-lenght. Insomma, senza essere troppo categorico, alcuni riff sono carini e possiedono il giusto groove, ma come spesso accade ultimamente in casa Metallica, sono infilati in mezzo ad una struttura poco studiata e forzatamente estesa. Ne è un palese esempio l’intermezzo acustico, insipido e senza alcun filo logico con il resto del brano (in altre parole, sembra “buttato lì”). Il ritornello, infine, è piuttosto sgradevole, privo di melodia e per nulla accattivante. Insomma, per un brano che sembra essere solo un’accozzaglia di riff senza molta tessitura, 7 minuti risultano davvero pesanti da digerire. Il ritmo marziale di “Hell And Back” sembra quasi uscito dalle sessions di un “Reload” leggermente più ispirato e riporta in auge un minimo di fervore in più, grazie ad un classico riff “alla Metallica”, intervallato da una strofa più cupa e pulita. A metà minutaggio, il brano acquista una maggiore aggressività, in una sequenza musicale che azzecca qualche buon riff, alternato alle solite idee stagnanti. Purtroppo Kirk si fa notare nel peggiore dei modi, a causa di uno dei suoi solos tremendamente freddi ed imprecisi, rasentando quanto fatto in “Death Magnetic”. La saggia ripresa della prima parte della song porta a concludere questo terzo brano; una canzone decente e solo sufficiente ma che non offre nulla di veramente esaltante o stuzzicante. Dopo due brani che non lasciano il segno, “Rebel Of Babylon” torna a farci sentire dei Metallica in ottima forma; premettendo che il brano non è nulla di trascendentale in sé, è comunque in grado di regalarci otto minuti di buona musica, coadiuvando riffoni thrash metal con una notevole carica di adrenalina ed un ritornello corrosivo. L’assolo di Kirk si muove sempre lungo i binari del proprio affermato stile, questa volta senza perdersi in inutili sviolinate di note a caso suonate alla velocità della luce, ma puntando invece su partiture più sobrie e, quindi, più riuscite. Nonostante l’elevato minutaggio, le varie parti si sposano e si susseguono con una certa logica, pertanto il brano assume un senso compiuto e scorre liscio come l’olio. In conclusione di questa buona song, viene spontaneo domandarsi come mai “Rebel Of Babylon” o “Hate Train” non siano finite su “Death Magnetic”, magari al posto, per esempio, di un brano anonimo come “Suicide & Redemption”.


Considerazioni Conclusive:

In conclusione, rimane in mano un dischetto flebile e, francamente, è difficile riuscire a giustificare l’acquisto di questo EP. Ribadisco, personalmente, che la prima e la quarta traccia sono delle buone canzoni che non disdegnano di mostrare timidamente qualche idea davvero interessante, ma altrettanto non si può dire delle restanti due tracce, troppo lunghe, scontate e decisamente sbiadite. Non aiutano di certo gli aspetti tecnici della band, visto e considerato che Kirk Hammet e Lars Ulrich rappresentano un buon 50% di tutto ciò che non funziona nella musica del combo: il primo ha ormai fatto il suo tempo e sono lontani i solos di “Ride The Lightning” o  “…And Justice For All”, sfociando spesso in partiture sbrigative o sempliciotte e prive di gusto, mentre il secondo si è ormai assestato su uno stile impersonale ed estremamente elementare (non che sia mai stato un gigante della batteria, ma, almeno, negli anni ’80 suonava con un tocco più spinto ed adrenalinico), privando di spessore i bei riff della band. Convincente è invece il settore ritmico di Kirk e James Hetfield, dove quest’ultimo appoggia le sue linee vocali; la prestazione di James, nonostante l’età che avanza ed i numerosi problemi avuti nell’ultimo decennio, sprigiona ancora vigore, permettendo di animare da sempre i brani della band. Anonima, come sempre la prestazione di Robert Trujillo, un ottimo bassista però mai entrato pienamente nel cuore dei fans, né tantomeno nell’economia musicale del gruppo. Il suo strumento, anche in questo caso, rimane in sordina limitandosi ad aggiungere frequenze basse. Forse non c’era nemmeno bisogno di aggiungere tutto questo, perché sono tutte cose di cui ogni metallaro è a conoscenza. Aggiungiamo una copertina tanto semplice quanto tragicomica ed il quadretto è completo: se non siete fan sfegatati della band o bimbiminkia ancora convinti del fatto che i Metallica siano l’emblema del thrash o del metal in generale, evitate di fare vostro questo trascurabile “Beyond Magnetic”. Datemi retta, andate su youtube e riascoltatevi due o tre volte “Hate Train” e “Rebel Of Babylon”: questo può bastare.


Tracklist:

01. Hate Train
02. Just A Bullet Away
03. Hell And Back
04. Rebel Of Babylon


Voto: 6,5/10

venerdì 16 marzo 2012

RAGE - 21

21
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 24 Febbraio 2012
Genere: Thrash/Power Metal

Introduzione:

Con ben 20 album alle spalle, tornano i teutonici Rage, una delle più rispettate realtà nel mondo del metal melodico. Lo fanno con il loro ventunesimo album in quasi trent’anni di carriera, intitolato semplicemente “21”; ma dietro questo misterioso numero non si cela solo l’invidiabile quantità di ottime releases partorite dal gruppo, ma anche il riferimento al famoso gioco del “Ventuno” o “Blackjack”, come ravvisabile anche in copertina o leggendo il testo della title-track. Al di là di questo gioco a cui i Rage ci hanno sottoposti, “21” è la nuova granitica testimonianza di come il mitico trio sia in grado di proporre dell’ottimo metal sempre accattivante e mai banale, ricco di curiose sfaccettature varianti dal power sinfonico al thrash più incattivito. Dopo il buonissimo “Strings To a Web” del 2010, Peavy e soci tornano sul mercato con un disco decisamente valido e ancora una volta pregno di buona musica, ma, per questa uscita, i ragazzi alzano il tiro: viene abbandonato ogni tipo di sontuosità sinfonica e le parti melodiche sono controbilanciate saggiamente con una tendenza decisamente thrash metal, verso cui l’album verte con maggiore propensione. In altre parole, “21” è un disco più cattivo, con meno aperture power rispetto al precedente lavoro, con più potenza nelle strutture, ma sempre con gran gusto, classe e maturità, senza dimenticare la melodia. E’ un mistero come il trio abbia saputo sfornare delle releases con così poco tempo di distanza tra un disco e l’altro nella loro lunga carriera, mantenendo sempre un certo livello di costanza qualitativa (i cali d’ispirazione sono effettivamente pochi): non ci è dato sapere. Sappiamo solamente che, anche questa volta, hanno fatto decisamente centro con un album che non è un capolavoro, ma è sicuramente all’altezza del nome Rage. Non c’è da stupirsi se gruppi come loro o i Blind Guardian siano amati e rispettati, in ogni parte del globo.  


Track by Track:

Atmosfera oscura, voci, rumori di sottofondo: “House Wins” è il perfetto intro dell’album, che ci trasporta in uno scenario da gioco d’azzardo, in compagnia di un giocatore intento a perdere i propri risparmi al gioco del black-jack. La lieve melodia ci introduce alla poderosa title-track “Twenty One”, dove si intuisce sin dai primi riff quale potrà essere il tiro dell’album: le sfuriate di chitarra e di batteria sembrano quasi uscite dalla penna dei Testament più recenti, compreso il roco ed incazzato timbro vocale del singer-leader Peavy. I riff si susseguono con una pesantezza esaltante, intervallati da un ritornello melodico tutt’altro che banale, giocato su una linea melodica drammatica e dal tocco lievemente malinconico. Stupendo l’intricato assolo ad opera di un Victor Smolski sugli scudi, capace di riportare alla mente certi sfarzi virtuosistici del noto John Petrucci. Quest’ottimo brano potrà essere apprezzato nelle sue varie sfumature con più di un solo ascolto. Victor è la star assoluta della seguente “Forever Dead”, probabilmente il pezzo migliore di tutto l’album. La chitarra sfuria in fraseggi velocissimi, per poi traboccare in una strofa puramente thrash-groove metal, accompagnata da un bridge più hard rock-oriented e da un refrain perfetto ed accattivante nella sua memorizzabile melodia. Compaiono qua e là i growls di un ottimo Peavy, a sottolineare una decisa aggressività che pervade tutto il disco. Un altro stupendo assolo di Victor suggella un brano potentissimo, estremamente dinamico e variegato. “Feel My Pain” è introdotta da quello che sembrerebbe essere un inconsueto mix di chitarre pulite, tastiere e basso. Dopo questo dinamico ed originale incipit, il brano si staglia su riff più indirizzati verso un power-heavy metal di ottima fattura, incasellati in una ritmica marziale e ficcante. Rappresenta, probabilmente, uno degli episodi più melodici ed immediati, ma si fa apprezzare senza remore, risultando un altro dei brani più riusciti dell’intero lavoro. Bellissimo l’intermezzo prima del solito assolo memorabile, che vede protagonista il drummer André, con una ricercata ritmica di batteria dalle sfumature prog-metal. La testimonianza dei Rage più incazzati si intitola “Serial Killer”, dove sorprendentemente Peavy si impossessa del microfono con linee vocali in growl per tutta la strofa, sotto un tappeto di thrash metal pesantissimo e feroce. Tutto ciò si risvolta poi in un bridge e in un refrain molto più melodici e meno furiosi, ma ugualmente pungenti. Solita menzione per l’ottimo lavoro chitarristico del guitar-hero Victor e per degli arrangiamenti realmente in grado di catalizzare l’ascoltatore. Un riffone heavy-southern in perfetto stile Zakk Wylde apre un altro azzeccato brano, tale “Psycho Terror”, dotato di ritmiche lente e sincopate nella strofa e di un bridge accattivante quanto basta per introdurre il buon refrain, melodico e roccioso. L’effettistica di Victor si fa sentire nell’assolo centrale (sicuramente valido, anche se leggermente sotto tono rispetto alle tracce precedenti) e nell’accelerazione sul lungo finale. Il brano in questione non è trascendentale in termini di originalità, ma è sicuramente dotato del giusto tiro in mezzo ad una già corposa tracklist. I ritmi si riaccendono con una favolosa speed-track intitolata “Destiny”: partenza al fulmicotone con un riff su ritmiche thrash-core, per un’apertura davvero esaltante. Con un saggio rallentamento, la song si tramuta in un lento e melodico chorus, ben arrangiato,  dall’impatto garantito e memorizzabile sin dal primo ascolto. Esaltanti sono anche i momenti musicali partoriti nella parte mediana, per un altro brano meritevole di lode. Se fin qui i nostri hanno dato prova di un’invidiabile capacità nel songrwriting, anche la seguente “Death Romantic” non è da meno, ma tende a rallentare un po’ la presa in un refrain meno esaltante rispetto ai precedenti, forse meno immediato e più sperimentale nell’arrangiamento, con le sue strane dissonanze. Nonostante ciò, i singoli riff godono di un ottimo impatto e di un’incalzante adrenalina metallica. “Black And White” mette in risalto le ottime doti del drummer André fin dai giri iniziali. Si tratta di un brano originale nella sua struttura, giocato sulla sperimentazione negli arrangiamenti, dove spiccano alcune chitarre pulite nella strofa, una furiosa e melodica cattiveria del bridge, fino ad un bel ritornello, gradevole ed armonioso. A mio parere, è un brano indubbiamente valido, ma un gradino sotto ai precedenti e più convincenti episodi. Torna il thrash-power marchiato Rage con la superba “Concrete Wall”, a tutti gli effetti il brano più thrash metal di tutto l’album, dove anche il ritornello non gode della solita parentesi melodica ma si presta a dei riff serrati e potentissimi, supportati dalla spettacolare ed aggressiva prova canora di Peavy. Davvero notevole l’intermezzo strumentale, come al solito con mr. Smolski a fare da grande protagonista su uno strato di variegate linee di basso di Peavy. Un riff lento e roccioso introduce “Eternally”: nel giro di venti secondi tutto cambia e ci accorgiamo di come quell’introduzione, così metallica, sia solo un orpello per aprire le porte ad una convincente semi-ballad dai toni ariosi e corali. La struggente strofa si staglia su ritmiche lente e su clean-guitars evocative e ben arrangiate, fino ad esplodere in un ritornello originale e convincente, dopo vari ascolti. Dopo un immancabile assolo, breve, ma molto sentito e corposo, un ultimo refrain ci porta alla conclusione di un disco decisamente efficace e meritevole di ascolto.    

Considerazioni Conclusive:

Nulla da dire, ancora una volta i Rage hanno saputo sfornare un album di ottima fattura e di musica davvero buona, priva di grossi cali e sempre pronta ad attizzare l’orecchio dell’ascoltatore. “21” è un album da avere, consigliato per chiunque voglia ascoltare del metal di qualità sopra le righe e da possedere obbligatoriamente per i fan della band. Potente fin dalla produzione stellare e dalla vivida immagine di copertina, il suo telaio di thrash metal imbastito su venature power dona, senza dubbio, un taglio aggressivo alla proposta della band, ma non viene mai meno quel gusto melodico e quella saggezza negli arrangiamenti che tanti punti fanno guadagnare al trio tedesco. Peter “Peavy” Wagner ruggisce dietro al microfono con una delle voci più personali e riconoscibili all’interno della scena power metal europea: il suo timbro roco sfocia spesso nelle growl vocals, pur  mantenendo comunque una forte vena melodica ed interpretativa, donando corposità ed anima a tutti i pezzi. Buone le sue capacità al basso e notevoli le sue capacità di songwriter, che fanno il paio con il virtuosismo sfrenato del vero protagonista del disco, ovvero Victor Smolski, un chitarrista dalla tecnica e dal gusto eccellenti. Le invidiabili capacità del guitar-hero, di origine bielorussa, lo portano a sfoderare l’ascia in riff potenti e in assoli veloci e precisi nella loro complessa esecuzione, molto variegati ed interessanti nel loro approccio “moderno” e “progressivo”, fatto di suoni ed effetti molto particolari. Cosa dire invece di André Hilgers, un batterista capace di non far rimpiangere il mastodontico e arcinoto Mike Terrana (nei Rage dal 1999 al 2006). Hilgers è dotato di gran classe e tecnica, con un gusto acceso nel saper trovare quel giro perfetto per far esaltare la batteria oltre il semplice ruolo di metronomo. Con un trio così, è difficile non rimanere piacevolmente stupiti di fronte a questo piccolo nuovo capolavoro. Anche questa volta dobbiamo riconoscere che i Rage sono una garanzia.    


Tracklist:

01. House Wins
02. Twenty One
03. Forever Dead
04. Feel My Pain
05. Serial Killer
06. Psycho Terror
07. Destiny
08. Death Romantic
09. Black And White
10. Concrete Wall
11. Eternally


Voto: 8,5/10

lunedì 12 marzo 2012

XANDRIA - Neverworld's End

NEVERWORLD’S END
Etichetta: Napalm Records
Data di uscita: 24 Febbraio 2012
Genere: Symphonic Metal

Introduzione:

Prendete i Nightwish di fine anni ’90-primi 2000. Rimettete Tarja alla voce: eccovi gli Xandria. Si, lo so…è un modo un po’ atipico di aprire una recensione; ma la realtà di fronte ai nostri occhi e alle nostre orecchie è proprio questa. Siamo infatti dinnanzi ad una sorta di pseudo-clone dei finnici maestri del symphonic metal. Voce lirica, orchestrazioni pompose, mid-tempo melodici: c’è tutto quello che ha contribuito a rendere grande una realtà come i Nightwish. Gli Xandria nascono in Germania nel 1997, e dal 2003 ad oggi sono stati autori di cinque album, dei quali questo “Neverworld’s End” è il primo ad essere inciso con la bella Manuela Kraller alla voce, in seguito ad un susseguirsi di variazioni del ruolo di singer negli ultimi anni. Sarò sincero, non conosco molto bene il resto della discografia di questa band; gli ascolti dei loro vecchi dischi sono stati pochi e sporadici, tali da non potermi mettere nelle condizioni di fare confronti con il passato. Pertanto, mi baserò obiettivamente su quello che esce dallo stereo facendo girare questo nuovo capitolo della band tedesca: l’impressione ad inizio disco è ottima, un perfetto preludio per un disco che sembra essere evocativo e coinvolgente, ma, a lungo andare, ci si accorge di come dei dodici brani presenti, solo una manciata siano realmente validi, mentre altri cerchino semplicemente di seguire uno stile già ormai consolidato da anni da band come, appunto, i Nightwish o gli olandesi Epica (tralasciando la loro più recente e riuscita inclinazione verso il sympho-death). Gli Xandria hanno perizia da vendere; si presentano perfetti nei contorni, ovvero nei suoni, nell’immagine e anche nella musica stessa (non è certo brutta musica quella contenuta in “Neverworld’s End”), ma a volte manca quel piglio, quella scintilla e (spesso) quel minimo di originalità in più che permetta all’album di spiccare il volo ed essere consacrato come capolavoro. Tralasciando quindi i loro capitoli precedenti di cui non ho voce in capitolo, il nuovo lavoro tende spesso a ricalcare in maniera non convincente le orme di un symphonic metal decisamente già troppo sentito, con le classiche spruzzate di power e le venature gotico-liriche. L’ascolto della maggior parte di “Neverworld’s End” non riesce ad ammaliare quanto gli occhi azzurri di Manuela...    


Track by Track:

Partenza col botto: la maestosa epicità dell’opener “A Prophecy Of Worlds To Fall” riesce fin da subito a catturare l’attenzione, grazie al suo arrangiamento apocalittico, super-sinfonico ed estremamente energico. Nonostante si facciano già sentire i riferimenti al sound dei Nightwish (la voce ricorda molto quella della rimpianta Tarja), sembra che gli Xandria abbiano una marcia in più, ravvisabile in un approccio più aggressivo, più incisivo e graffiante rispetto ai colleghi finlandesi. Gli Xandria guadagnano un ulteriore punto in più, grazie ad una maggior propensione ad assoli di chitarra ricercati e linee di basso più in vista rispetto al sound di Tuomas e compagni. Il power sinfonico di “Valentine” (di cui è stato girato anche un videoclip) si impossessa dei nostri stereo, per una song che alterna dei momenti riusciti (come il cadenzato ritornello o il pre-assolo) ad una struttura quasi stancante e piuttosto abusata. Da notare le possenti e ben fatte orchestrazioni ed i cori a supporto della voce lirica di Manuela. Canzone decisamente prevedibile, ma tutto sommato sufficientemente energica. Un giro di pianoforte e voce, blando ma toccante, apre la melodica “Forevermore”. Lo stile tipicamente “nightwishiano” diventa sempre più preponderante e palese, strofe e refrain si susseguono su strutture ultra-melodiche altamente prevedibili, la linea vocale fa fatica a spiccare il volo, le orchestrazioni sembrano piuttosto smorte. Insomma, già a partire da un titolo tutt’altro che fantasioso, il brano è privo di mordente e del giusto dinamismo: uno sterile esercizio di stile, ma nulla di più. La partita si risolleva parzialmente con “Euphoria”, brano dal ritornello facile facile, di quelli che ti si piantano dritti in testa grazie ad una linea vocale azzeccata; ma a far la differenza è il ritorno, nelle varie strofe, di quella vena artigliante intravista nella prima traccia, in grado di regalare un tocco di emozione e di adrenalina ad un brano riuscito. “Blood On My Hands” prosegue il filone catchy-sinfonico tanto in voga mostrato finora, senza presentare troppe diversità stilistiche e senza essere in grado di farsi notare a dovere. Il semplice ritornello, più che altro, viene a mettersi in mostra grazie alla potente voce di Manuela, dimostrandosi più accattivante nelle ripetizioni finali, ma per il resto siamo davanti ad un classico brano con le solite pompose sfuriate sinfoniche in bell’evidenza. “Soulcrusher”, brano meno immediato e più articolato, gode di un’ottima partenza, aggressiva ed in grado di mettere in evidenza la corposità della band tedesca. Le orchestrazioni ed i cori sono estremamente potenti ed articolati, ma spesso è il succo del brano che non regge, soprattutto a causa di un refrain poco incisivo e di un finale troppo confusionario ed ossessivamente ripetitivo. Da plauso invece la lunga parte centrale ed il già menzionato lavoro di arrangiamento orchestrale. Non potevano mancare le toccanti ballad sinfoniche ed ecco la cullante calma del lento “The Dream Is Still Alive”, con voce e pianoforte in primo piano. I riferimenti ai vari classici dei Nightwish come “Sleeping Sun” o al calderone sympho-metal di Epica, Evanescence o Within Temptation non stentano a fare capolino. Del resto, questo tipo di tracce vengono scritte esclusivamente per emozionare, senza necessità di dover per forza inventare qualcosa di nuovo. Non fa eccezione la song in questione, dotata di un perfetto refrain dolce e carico di pathos orchestrale e corale, scorrevole ed estremamente piacevole. Quel qualcosa in più che manca ai Nightwish odierni, lo troverete invece in “The Lost Elysion”: la veloce doppia cassa ci pone di fronte ad un pezzo dai connotati tipicamente symphonic-power, in grado di dare una bella sterzata al sound spesso stantio di “Neverworld’s End”. Il brano è infatti pungente ed aggressivo, pomposo e potentissimo nelle sue orchestrazioni, in un connubio emotivo che esplode nel crescendo centrale (con tanto di bell’assolo di chitarra) e soprattutto nell’affascinante refrain, godente della perfetta ed energica performance di Manuela. Davvero un brano ottimo e sorprendente, tanto che è quasi un peccato passare alla linearità della seguente “Call Of The Wind”, brano orientato a sonorità più classiche con tanto di incursioni di violino. Sempre perfetta, manco a dirlo, la performance orchestrale ed il comparto atmosferico, ma a soffrire maggiormente sono la struttura della canzone e le linee vocali. Anche questo brano gode di una certa carica che lo rende gradevole, ma in fin dei conti non essenziale. Secondo lento con “A Thousand Letters” dove ad accompagnare la suadente voce lirica della singer mora ci pensa una delicata chitarra acustica che, in un crescendo, sfocia in un classico refrain potente ed orchestrale. Contrariamente alla sua precedente collega, questa ulteriore ballad non riesce a raggiungerne gli stessi picchi emotivi, assestandosi su delle dinamiche abusate e sicure, senza aggiungere nulla di troppo rilevante all’economia del disco. E’ il momento di “Cursed”, già sorprendente per dei riff cupi e pesanti: una sorta di southern metal travestito con preziosi ornamenti sinfonici. Ciò sicuramente dona un volto più poliedrico e curioso alla band tedesca, distaccandosi dalla produzione simil-nightwish finora mostrata, tuttavia il brano in sé non è particolarmente convincente e non riesce mai a spiccare il volo e ad esplodere a dovere. Chiude l’album la lunga “The Nomad’s Crown”, introdotta da un sithar e da suoni orientali-cinematografici. Dopo una bella introduzione, la song si dipana per nove minuti di durata tra alcuni momenti intensi e riusciti ed altri più ruffiani e stanchi. Anche in questo caso, il brano fatica a detonare e tende a stufare durante il suo lungo ascolto, riuscendo a sorprendere solo nella bella parte finale, epica e tuonante nei suoi fastosi cori. Alla fine dell’ascolto di “Neverworld’s End” rimangono sentimenti altalenanti, per aver trascorso un’ora di musica buona e ben confezionata, che però solo in parte è riuscita davvero ad elevarsi e a trasmettere la giusta carica d’emozione e di adrenalina.


Considerazioni Conclusive:

L’album degli Xandria può essere suddiviso in due parti tra loro differenti: da un lato abbiamo una band che tende a riprendere in maniera impersonale ed abbastanza palese un sound già affermato ed inflazionato da Nightwish e compagnia bella, dall’altra abbiamo una band che ha acquisito molto bene la lezione impartita dai Nightwish stessi, riprendendola però in modo personale ed aggiungendoci quel tocco di dinamismo e quel graffio in più che spesso manca nelle releases del combo finlandese, confermando di essere una band dal grande potenziale. In “Neverworld’s End” questo potenziale non viene sfruttato ai massimi livelli. Infatti, nonostante alcune song siano davvero meritevoli in tal senso, dall’altra lo stampo dei maestri del symphonic è forse troppo marcato, portando ad una pecca non indifferente di impersonalità. Nulla da dire sugli arrangiamenti d’orchestra e coro (stupendi e profondi), sull’ottima prestazione lirica della new entry Manuela Kraller, senza dimenticare le aggressive chitarre di Marco Heubaum e Philip Restemeier, ma tutto ciò non ha fruttato a dovere, a causa di un songwriting spesso stanco e statico. Menzione per la sezione ritmica di Nils Middelhauve (basso) e Gerit Lamm (batteria), in grado di spaziare adeguatamente con la fantasia, cosa non comune in un gruppo sympho-metal. Nonostante tutto, il disco è un piacevole e melodico sottofondo anche se probabilmente non si farà riascoltare più di 3 o 4 volte. Curatissima la produzione e anche l’artwork, anche se i suoi colori ed immagini di copertina, nemmeno a farlo apposta, ci fanno balzare alla mente di striscio proprio i tanto citati Nightwish…ma questa è solo una sottigliezza, dettata dall’ascolto di un disco molto influenzato da loro; un disco di una band che in futuro, se giocherà meglio le sue carte, potrà portare ad enormi soddisfazioni anche nell’inflazionata scena sinfonica. Attendiamo. 


Tracklist:

01. A Prophecy Of Worlds To Fall
02. Valentine
03. Forevermore
04. Euphoria
05. Blood On My Hands
06. Soulcrusher
07. The Dream Is Still Alive
08. The Lost Elysion
09. Call Of The Wind
10. A Thousand Letters
11. Cursed
12. The Nomad’s Crown


Voto: 6,5/10

martedì 6 marzo 2012

FREEDOM CALL - Land Of The Crimson Dawn

LAND OF THE CRIMSON DAWN

Etichetta: SPV
Data di uscita: 24 Febbraio 2012
Genere: Power Metal













Introduzione:

Orfani del batterista e co-fondatore Dan Zimmermann (ora militante esclusivamente nei Gamma Ray), negli ultimi due anni i tedeschi Freedom Call, portabandiera di un happy power metal goliardico ed estremamente diretto, hanno girato l’Europa in tour con una formazione rodata e con il nuovo drummer Klaus Sperling, dando vita ad un bellissimo live DVD, tale “Live in Hellvetia” (recensito a questo link: http://recensionimetalfil.blogspot.com/2011/09/freedom-call-live-in-hellvetia.html), dimostrando l’esperienza e la compattezza della band anche in sede live. Dopo due anni dall’ultima fatica in studio “Legend of The Shadowking” (link per la recensione: http://recensionimetalfil.blogspot.com/2010/12/freedom-call-legend-of-shadowking.html), album abbastanza deludente sotto molti aspetti, i tedeschi tornano con un nuovo album, tale “Land Of The Crimson Dawn”, il primo senza Dan dietro alle pelli, lasciando al solo Chris Bay (co-fondatore, voce e chitarra) il traino dell’intero carrozzone e del songwriting principale. Mi sembra fin da subito giusto dire che LOTCD, già ad un primo ascolto, risulta essere decisamente migliore del suo predecessore. Tornano a farsi sentire le atmosfere happy-power che tanto hanno giovato ad album quali “Crystal Empire” (2002) o “Eternity” (2003), pur non scordando il recente passato del roccioso “Circle Of Life” e dell’altalenante “Dimensions” (2007). Insomma, in questa nuova fatica c’è un po’ tutto quello che ci si potrebbe aspettare dal sound dei Freedom Call, comprese alcune cupe atmosfere presenti negli ultimi lavori. Nonostante la musica contenuta nell’album in qualche occasione non sia sempre è all’altezza del marchio Freedom Call, il nuovo lavoro presenta un netto e sperato miglioramento dall’ultima release e suona sufficientemente eterogeneo e vario, pertanto siamo dinnanzi ad un album che alterna esaltanti lampi di genio ed idee semplicemente discrete. Per gli amanti della band e delle canzoni dirette, melodiche e semplici, quest’album risulterà essere un graditissimo ascolto con degli ottimi apici, anche se per tutti gli altri si tratterà dell’ennesimo prodotto destinato solo ad affollare il mercato. Io personalmente mi schiero nei primi: suvvia, un’oretta di musica solare ed incisiva non può che far bene all’animo. Giudizi soggettivi a parte, nonostante sembri chiaro che i quattro tedeschi non siano più in grado di regalarci un secondo “Stairway to Fairyland”, è anche chiaro che LOTCD rappresenta un capitolo vario e gradevole, in cui la band dimostra, in più di un’occasione, di essere ancora ben ispirata.


Track by Track:

La partenza secca e diretta di “Age Of The Phoenix” non lascia prigionieri: il power melodico e veloce di questa opener fa trasparire tutta la potenza del sound dei tedeschi. Il granitico ed orecchiabilissimo refrain costituisce un punto assoluto di forza e garantisce il giusto pathos atmosferico, grazie anche all’utilizzo di una cornamusa. Non c’è molto da aggiungere, questo è fottutissimo power metal, perfetto per l’apertura. “Rockstars”, nonostante il titolo, prosegue su coordinate identiche al brano precedente, tanto che i ritornelli di queste due song sono molto simili strutturalmente. In questa seconda traccia individuiamo un lato leggermente più aggressivo nel mood e nelle linee vocali di Bay. Per il resto, le melodie sono sempre di ottima fattura e l’incedere è decisamente power, con doppia cassa incessante su ritmiche velocissime. Inutile dire che, anche in questo caso, il ritornello è tutto da cantare. Le seguenti “Crimson Dawn” e “66 Warriors” rappresentano una doppietta sinceramente deludente e priva di spunti degni di nota. La prima denota un’ottima partenza che promette bene, con un’infuocata cavalcata da headbanging sfrenato, ma in seguito il brano si perde completamente in un refrain privo di mordente, talmente allegro e zuccheroso da essere addirittura fastidioso, come mai era accaduto con i Freedom Call. Nemmeno il malinconico intermezzo di piano o gli pseudo-growl riescono a bilanciare un brano molle come un budino. La successiva traccia, invece, è in grado di passare inosservata forse ancor più della precedente. I riff si susseguono in maniera stancante, senza un briciolo di originalità ed ancora una volta senza il giusto smalto, governati da un refrain piuttosto piatto sulle parole “Warrior, oh, warrior!”. Vi ricordate le trombe iniziali della mitica “Land Of Light” su “Eternity”? Eccole ripresentarsi proprio nel seguito di quella song, intitolata quasi istintivamente “Back Into The Land Of Light”, dove viene ripresa la stessa cavalcata e lo stesso suono del brano del 2003. Se nel vecchio brano l’atmosfera era decisamente combattiva e di incitamento, in questo nuovo capitolo il mood diventa più rilassato e solare. Nonostante il miele profuso a quintali dalle sue dolci note, il brano si fa ascoltare molto volentieri e ci regala cinque minuti di positività, grazie a melodie fresche e ad un refrain azzeccato e trionfante. L’atmosfera epic-power del disco cambia decisamente rotta con gli accordi droppati della potente “Sun In The Dark”. L’intro e la strofa acquistano toni quasi southern alla Kyuss (!), rappresentando un tocco di diversità nella tracklist. Quella lieve oscurità mostrata dai Freedom Call negli ultimi album si ripresenta in questa traccia strana ed inusuale, altresì dotata comunque di un discreto refrain. Canzone in fin dei conti piacevole ed apprezzabile quindi, che lascia spazio al singolo rockeggiante “Hero On Video”, song piacevole che riporta alla mente qualcosa del sound di “Dimensions”. Tralasciando il goliardico videoclip, l’incedere del brano ci trascina attraverso atmosfere allegre ma accattivanti, assimilabili alle song proposte da tanti gruppi pop-punk nei film adolescenziali americani, giusto per darvi un’idea. E’ chiaro che siamo molto distanti da questo, ma è innegabile che le tastiere anni ’80, la ritmicità del brano, le melodie spensierate ed il solare ritornello sprigionino allegria da tutti i pori. Vi mancava il power metal nudo e crudo, dopo queste ultime tracce? Nessun problema, i Freedom Call vi sono vicini e sparano l’happy power velocissimo di “Valley Of Kingdom”, classico brano nelle corde del gruppo. Strofe e melodie accattivanti esplodono in un refrain degno del primo passato della band, portando alla mente i fasti di “Crystal Empire”. Davvero notevole anche l’assolo chitarristico del giovane Lars Rettkowitz, a conferma di un ottimo brano che metterà d’accordo tutti i fans della band. Melodie folk in primo piano costituiscono l’introduzione di “Killer Gear”, song più oscura e riflessiva, in cui spiccano delle vocals più aggressive in occasione del cupo refrain. Questo episodio ricorda da vicino quella “The Blackened Sun” presente su “Dimensions”, che per prima, nella discografia del gruppo, aveva avuto il merito di dare un tocco d’oscurità al sound. Il brano non brilla per sprizzante originalità ma è discreto ed ascoltabile nella complessiva eterogeneità dell’album. Non contenti, i Freedom Call cambiano ancora volto sbattendoci in faccia l’hard rock stradaiolo di “Rockin’ Radio”, brano scanzonato e, manco a dirlo, allegro come pochi. Anche in questo caso, l’originalità non è un punto forte della song, ma il suo incedere scoppiettante non riesce a lasciare indifferenti e,  perlomeno, sarà in grado di strappare un sorriso o un po’ di positività anche ai metallari più tenebrosi. I toni tornano a farsi oscuri con il marziale intro di “Terra Liberty”, ma le cose cambiano presto: infatti dopo l’introduzione, in stile nu-metal-southern tanto caro al buon Zakk Wylde, la canzone in questione si apre in veloci bordate power nel bel refrain. Molto belli e ricchi di gusto anche i solos di chitarra di Lars, per un bel brano tutto sommato abbastanza fresco ed originale nella sua commistione di stili differenti. Il pianoforte e le lievi orchestrazioni di “Eternity” aprono un bellissimo midtempo dalle inflessioni più cupe e drammatiche, con tanto di inserti di voce femminile. Molto bello ed evocativo il ritornello, così come è azzeccato l’intermezzo solistico. Questo brano ci conferma che i Freedom Call sono in grado anche di regalarci qualche piccola perla di drammaticità all’interno del loro sound associato al divertimento, suggellando la sempre più crescente poliedricità di stili della band. L’ultima roboante prova di power metal puro e crudo, per gli amanti del settore, viene regalata con “Space Legends”: brano dinamico ed aggressivo nelle sue ritmiche di veloce doppia cassa, dotato di un fantastico e corale ritornello. Nulla di troppo originale, sia chiaro, ma finchè traspaiono l’energia e la potenza, tanto basta per apprezzare un’ottimo brano come questo. Ben fatta anche la parte centrale ed i brevi solos della sei-corde di Lars. Chiude questo bell’album “Power & Glory”, quasi un inno alla gioia ed al divertimento: le ritmiche rockeggianti della strofa esplodono in un chorus tutto da cantare alle feste folk, con tanto di cantorie da bar e cornamusa, sullo stile proprio di “Far Away”, la vecchia closer di “Dimensions”. I Freedom Call chiudono questo nuovo “Land Of The Crimson Dawn” come solo loro sanno fare, con una song che farà faville anche on stage: semplice, immediata e puramente dedita ad una spensierata allegria.


Considerazioni Conclusive:

Non è affatto facile tirare le somme di un lavoro poliedrico come questo “Land Of The Crimson Dawn”; da una parte abbiamo brani trascurabili, dall’altra dei veri e propri manifesti di energia musicale, in mezzo a molti brani semplicemente discreti ed ascoltabili. La varietà stilistica dell’album tende spesso a creare un po’ di disorganicità nell’intero lavoro, ma perlomeno è da riconoscere l’impegno nel voler creare qualcosa di più originale che non tenda a stancare l’ascoltatore. Le prestazioni tecniche dei singoli musicisti sono indiscutibili: nonostante l’immediatezza e semplicità dei brani, i nostri tedeschi dimostrano una padronanza ineccepibile agli strumenti rispettivi, comprovando la loro professionalità anche on stage, così come gli arrangiamenti, i cori, le tastiere ecc… sono tutti studiati in maniera esemplare per dare vigore alle varie song. Su tutto, spicca la voce e la personalità di mr. Chris Bay, ormai leader e marchio di fabbrica indiscusso del gruppo, che negli anni non ha mostrato un minimo di cambiamento nel suo timbro, assestandosi sempre su tonalità pulite (non disdegnando qualche tocco di aggressività), squillanti e precise, giocando spesso sull’interpretazione e sull’espressività vocale. La sezione ritmica di Klaus Sperling (alle pelli) e Samy Saemann al basso è precisa e veloce quanto basta, senza tuttavia riuscire mai ad imporsi particolarmente con degne digressioni musicali. Lars Rettkowitz si dimostra un abile chitarrista senza bisogno di dover strafare sulla sei-corde. Un plauso alla produzione che stavolta ho trovato più potente ed incisiva rispetto al disco precedente, ed una piccola nota di demerito per la copertina: è sicuramente evocativa, ma necessitava probabilmente di più cura nei dettagli e nei contorni per spiccare ancora di più. Insomma, i Freedom Call hanno mostrato di essere tornati più carichi e competitivi che mai, forti di una solidale schiera di fan e di un songrwriting il più delle volte avvincente, genuino, divertente ed in fin dei conti ancora abbastanza scintillante ed ispirato… e questo, alla faccia dei detrattori, non mi pare poco.


Tracklist:

01. Age Of The Phoenix
02. Rockstars
03. Crimson Dawn
04. 66 Warriors
05. Back Into The Land Of Light
06. Sun In The Dark
07. Hero On Video
08. Valley Of Kingdom
09. Killer Gear
10. Rockin’ Radio
11. Terra Liberty
12. Eternity
13. Space Legends
14. Power & Glory


Voto: 7,5/10