domenica 24 giugno 2012

PATHFINDER - Fifth Element


FIFTH ELEMENT

Etichetta: Sonic Attack Records
Data di uscita: 26 Maggio 2012
Genere: Symphonic Power Metal

Introduzione:

Tornano in pista i Pathfinder, una giovane band ancora poco conosciuta proveniente dalla Polonia, che sfodera il suo secondo disco in carriera e secondo capitolo di una saga fantasy iniziata con il buonissimo esordio “Beyond The Space, Beyond The Time” del 2010. Per chi non li conoscesse, i  Pathfinder suonano un complesso power metal neoclassico, con abbondanti ed essenziali partiture sinfoniche, su un tappeto di velocità d’esecuzione elevatissima. Si potrebbero quasi definire come un riuscito incontro tra la potenza e velocità dei Dragonforce e la magniloquenza musicale dei nostri Rhapsody. Presentazioni a parte, il nuovo “Fifth Element” non delude le aspettative ed anzi si rivela essere decisamente superiore rispetto al pur brillante e difficile esordio. Intendiamoci, i lavori della band polacca non sono estremamente originali, poiché molte dello loro soluzioni musicali hanno già trovato spazio nei vecchi lavori dei Rhapsody o sono, comunque, già piuttosto sentite nell’ambito del power neoclassico-sinfonico, ma, nonostante ciò, i loro brani riescono a colpire per un’innata freschezza e potenza. Un’altra caratteristica lodevole che li distacca dal filone di un canonico sympho-power è l’utilizzo frequente di blast-beats e partiture più estreme (limitatamente al genere proposto, ovviamente), comprese di vocals variegate, a volte anche fuori luogo. Insomma, i Pathfinder non si sono mai astenuti dal cercare di sperimentare comunque qualche soluzione differente e più malsana rispetto al classico filone sinfonico e “Fifth Element” non è da meno: gli elementi del primo disco ci sono tutti, la velocità, le scale virtuosistiche, la sinfonia pomposa, le strane partiture vocali, le sfuriate estreme, ma, in generale, il songwriting registra un netto miglioramento. Infatti se in BTSBTT avevamo dei brani costruiti ad arte e dalle strutture complesse, è anche vero che molte cose facevano fatica a rimanere in testa, mentre in FE ogni brano ha un suo perché ed è contraddistinto da un ritornello chiave che rimane in testa fin dai primi ascolti, pur permanendo le strutture complesse e gli arrangiamenti orchestrali elaborati (anche quest’ultimi ulteriormente migliorati dall’esordio). Insomma, per farla breve, i Pathfinder restano una band da tenere seriamente sott’occhio nel panorama del power metal sinfonico; speriamo solo che la loro grande fantasia musicale e le loro capacità tecniche fuori dal comune riescano ad essere notati degnamente dal grande pubblico, ma con queste premesse è difficile pensare al contrario. Li attendiamo per la fatidica prova del terzo disco, intanto sono ampiamente promossi.


Track by Track:

Si parte con un’immancabile introduzione sinfonica che avvia il concept del quinto elemento, “Ventus Ignis Terra Aqua”, in cui una profonda voce si prodiga in improbabili narrazioni, alla maniera di Christopher Lee con i Rhapsody. La musica che accompagna il parlato è chiaramente di stampo sinfonico e ben si cala nel suo ruolo di apripista per preparare l’ascoltatore, anche se va detto che non è certo un’introduzione esemplare. Tralasciato questo trascurabile dettaglio, si entra nel vivo con la lunga title-track “Fifth Element”, in cui i polacchi si destreggiano alla grande tra partiture sinfoniche, virtuosismi veloci ed oscuri (nella parte solistica), stacchi di pianoforte e numerose parti di blast-beat fulmineo, come accade nel maestoso ritornello. Lungo i nove minuti del brano, non si può non notare come i Pathfinder siano grandi esecutori e compositori dalle idee spesso geniali e particolari. Come nel disco precedente, anche in questo caso le voci sono indescrivibili e non sempre totalmente apprezzabili, tra un cantato ordinario, screams in falsetto messi qua e là e parti in pseudo-screaming. Gli arrangiamenti strumentali sono strabilianti, così come saranno lungo tutto l’album. Chiusa quest’ottima power song, il seguito prende nome di “Ready To Die Between Stars”, un’altra ottima song di power orchestrale e possente, forse più canonica, ma indubbiamente coinvolgente nelle sue repentine evoluzioni e nei suoi arrangiamenti orchestrali potenti ed essenziali. Molto bello ed emozionante è il velocissimo e corale ritornello, così come in tutto il corso del brano le linee vocali riescono ad essere davvero convincenti. Spettacolare infine tutta la parte solistica centrale: in stile Dragonforce nella prima metà, con scambi eccellenti tra chitarre e tastiere, ed in stile Rhapsody nella seconda metà, tra epiche ed oscure melodie. Insomma, un brano davvero eccellente, che lascia spazio ad un altro stupendo pezzo dal titolo “The Day When I Turn Back Time”: l’introduzione ricorda i Turisas più recenti di “The Varangian Way” con dei cori epici e profondi, mentre da li a poco il tutto si ridimensiona in un contesto power suonato a velocità elevatissime. Magistrali la magniloquente strofa ed il favoloso refrain, epico, emozionante e malinconico, con un lodevole crescendo orchestrale. Un brano che non sbaglia una nota e fa centro ancora una volta, candidandosi come vero capolavoro dell’intero album. “Chronokinesis” è aperto da una sezione orchestrale magistrale e profondissima, per poi svilupparsi in strofe veloci, ma meno memorabili e più canoniche. Il vero punto di forza del brano è il refrain, che si apre potente ed arioso, dando un tocco di solarità alla proposta della band, tra le consuete parti di batteria al fulmicotone ed arrangiamenti sinfonici sempre in primo piano, senza soffocare le chitarre. “March To The Darkest Horizon” è il brano più cadenzato e battagliero dell’intero album, in cui una trionfale strofa dal sapore manowariano porta ben presto ad un convincente ritornello corale e guerriero, su una splendida cavalcata metallica. Come di consueto, la parte solistica risulta costruita a dovere, in grado di catturare l’attenzione e di mantenere alta la tensione, anche quando i ritmi si stoppano in un preziosissimo stacco di suggestivo pianoforte con voce femminile. Otto minuti di metal trionfale e battagliero davvero magistrale ed estremamente riuscito. Cade a pennello la ballad “Yin Yang”, dove a parlare sono solo un delicato pianoforte e dei leggiadri archi, che accompagnano uno splendido duetto tra il singer Szymon ed una voce femminile, un po’ com’era accaduto con la ballad “Undiscovered Dreams”, dal primo disco. Il brano mette in risalto tutta l’anima melodica dei Pathfinder, senza voler strafare e rimanendo quindi ancorato a melodie ed arrangiamenti semplici, ma efficaci nello spezzare il ritmo di un album fin qui accesissimo. Ad essere puntigliosi, il finale poteva essere giostrato in maniera più degna, ma, onestamente, si tratta di una virgola in mezzo a tanta magnificenza. La sezione orchestrale lascia maggiore spazio alle chitarre con il power velocissimo e dragonforciano di “Elemental Power”, brano introdotto da sognanti melodie di tastiera e giocato su uno splendido ritornello sparato a velocità supersoniche, su un ottimo tappeto melodico. Non mancano i consueti stacchi di blast-beats di batteria, che rendono tutta la proposta leggermente più aggressiva ed accattivante. Immancabile la spettacolare battaglia solistica tra le chitarre di Gunsen/Karol e la tastiera di Slawek, ulteriormente sottolineate dalla velocità estrema del brano. Ancora una canzone basata su alte velocità è “Ad Futuram Rei Memoriam”, la quale, dopo una delicata introduzione sinfonica, si lancia in fulminei blast di batteria e sweep di chitarra-tastiera. La qualità è ancora una volta estremamente buona, anche se nel complesso il brano non brilla alla pari delle tracce precedenti, nonostante un memorabile refrain fulmineo ed estremamente melodico. L’ultimo tassello di questo fantastico album è “When The Sunrise Breaks The Darkness”, che gode ancora di un ritornello carico di enfasi, di orchestra e di malinconia. Degni di nota sono anche le varie strofe ed i bridge (mi hanno ricordato qualcosa dei francesi Fairyland) ed i sottili arrangiamenti ben fatti che pervadono tutto il brano. Un classico brano di symphonic power sparato a folli velocità, tra melodie eccezionali ed arrangiamenti sopraffini, perfetto per chiudere degnamente un capolavoro come “Fifth Element”. “Vita” è infine un trascurabile outro che richiama il tema della title-track, ma aggiunge ben poco a quanto già detto egregiamente dalle tracce precedenti.


Considerazioni Conclusive:

Perdonate il mio costante elogio, ma qui siamo di fronte al capolavoro symphonic-power del 2012, a meno che non ne spunti fuori un altro nel restante mezzo anno a disposizione (vedremo cosa combina Turilli!). Insomma, una così giovane band che solo al secondo album mette in mostra una tale magnificenza musicale, non può che essere ammirata con stupore ed apprezzamento, al di là del genere proposto: a tal proposito, se odiate il power sinfonico e pomposo, lasciate comunque perdere quest’album, poiché accontenta solo un certo target, ma lo fa dannatamente bene. Nelle fila della band polacca troviamo degli autentici mostri, tra cui i chitarristi Gunsen e Karol Mania che si mettono in mostra tra riff veloci e precisi e virtuosismi solistici degni dei migliori shredders; Szymon Kostro è colui che da voce ai Pathfinder, dimostrando una spiccata personalità ed una buona tecnica, dando comunque il meglio di sé nelle tonalità medie, mentre i suoi screams acuti, a volte, possono sembrare anche fuori contesto; Slawek Belak si occupa delle tastiere e di tutto il possente ed epico comparto d’orchestrazione: inutile dire che il suo contributo è essenziale e sbalorditivo nella capacità di arrangiare minuziosamente tanti suoni e tanti strumenti orchestrali diversi (per quanto, credo, siano sintetizzati) e i suoi solos velocissimi e gustosi hanno una dichiarata influenza neoclassic-power; Arkadiusz Ruth, oltre ad aiutare Slawek nelle orchestrazioni, riesce a mostrarsi in qualche occasione grazie ad alcuni brevi assoli di basso, sottolineando la sua grande capacità tecnica; infine il nuovo drummer della band, Kacper Stachowiak, mette in mostra tutta la sua abilità con passaggi velocissimi, potenti ed aggressivi, dimostrandosi un batterista davvero disumano, a tratti. La produzione ha il grande pregio di riuscire a mettere sotto la giusta luce tutti i singoli strumenti, senza penalizzare alcun suono o alcuna frequenza, risultando in un ottimo lavoro di audio engineering; ad essere puntigliosi, il suono della batteria non è eccellente e risulta forse un po’ scarno, avrebbe forse reso maggiormente con un suono differente. All’opera sul disegno della copertina troviamo un certo Felipe Machado Franco…lo ricordate? Basta pensare agli ultimi due album dei Blind Guardian e alle recenti produzioni dei Rhapsody: esatto, proprio lui. Infatti il suo stile è perfettamente riconoscibile anche nella bella cover di “Fifth Element” (notare l’uomo incappucciato e la sfera pseudo-energetica con gli anelli incastrati). Detto ciò, non posso che rinnovare i miei complimenti alla band polacca, creatrice di un album davvero curatissimo, inteso e corposo, valido sotto tutti i punti di vista. I Pathfinder sono dotati di tutte le capacità e le intenzioni per farsi conoscere degnamente in un prossimo futuro; diamo loro questa possibilità, perché se la meritano seriamente.



Tracklist:

01. Ventus Ignis Terra Aqua
02. Fifth Element
03. Ready To Die Between Stars
04. The Day When I Turn Back Time
05. Chronokinesis
06. March To The Darkest Horizon
07. Yin Yang
08. Elemental Power
09. Ad Futuram Rei Memoriam
10. When The Sunrise Breaks The Darkness
11. Vita


Voto: 9/10

sabato 16 giugno 2012

CRADLE OF FILTH - Midnight In The Labyrinth


MIDNIGHT IN THE LABYRINTH

Etichetta: Peaceville
Data di uscita: 21 Aprile 2012
Genere: Symphonic Gothic

Cosa sta combinando Dani Filth? Questa domanda sorge abbastanza spontanea nel momento in cui si ascoltano con attenzione i primi minuti di questo nuovo “Midnight In The Labyrinth”, il tanto atteso ed agognato album orchestrale dei maestri del gothic-black metal Cradle Of Filth. La band non necessita di particolari presentazioni, bene o male tutti la conosciamo, vista la grande importanza che comunque hanno avuto negli anni ’90 per lo sviluppo di un genere come il symphonic black metal. Ad oggi, infatti, la band del minuto singer britannico rimane una delle più saccheggiate per chi vuole suonare questo genere, assieme ai norvegesi Dimmu Borgir. Ma veniamo a questo album: per molto tempo si era parlato di questo progetto, tanto voluto dalla band e da Dani stesso. Eccolo qui, finalmente, presentato da una copertina non eccezionale ma che almeno riporta alla mente le belle atmosfere dark-gotiche di “Dusk…And Her Embrace”, capolavoro assoluto dei vampiri inglesi. Purtroppo, c’è da dire fin da subito che cotanta attesa non è stata ripagata degnamente: MITL è infatti un lungo concentrato sinfonico con alcune narrazioni che va a ripescare e ri-arrangiare soprattutto i brani più vecchi del combo (dai primi tre dischi), tralasciando le produzioni più recenti. In questo non c’è nulla di male, anzi, gli intenti sono buoni. Ma addentrandoci subito nel succo del platter, è proprio la musica stessa che non funziona: l’orchestra suona senza sfoderare tutta la sua potenza, gli arrangiamenti sembrano spesso privi del giusto mordente ed appaiono in molti casi sin troppo semplici per essere degni di un’intera orchestra sinfonica…a volte si ha quasi la sensazione che gli strumenti siano stata campionati con dei buoni VST piuttosto che suonati umanamente, poiché le giuste dinamiche e i chiaro-scuri orchestrali stentano ad uscire e vige una generale piattezza compositiva. A tutto ciò è doveroso aggiunge che le lunghezze dei brani di questo disco sono più o meno le medesime dei brani originali: giusto, direte voi, ma il problema è che il suono unico dell’orchestra e dei cori, a lungo andare, tende a stancare l’orecchio lungo i 78 minuti prolissi del primo disco (si, i dischi sono ben due, ma tralasciamo per un attimo il secondo); complice di ciò, senza dubbio, è la sterilità degli arrangiamenti e la frequente incapacità di renderli avvincenti e degni di una colonna sonora. Non tutto è da buttare, sia chiaro: le riproposizioni maligne ed oscure di “A Gothic Romance (Red Roses For The Devil’s Whore)” e “The Twisted Nails Of Faith”, per esempio, sono delle degne versioni orchestrali dei rispettivi brani omonimi, piccoli gioiellini sinfonici in grado di catturare l’attenzione in maniera adeguata. D’altro canto però, le sterili versioni di “Funeral In Carpathia” o “The Forest Whispers My Name”, dove tutta la carica nefasta e demoniaca delle versioni metalliche viene sgonfiata, lasciano seriamente l’amaro in bocca. Discorso a parte infine per l’inutile “Goetia (Invoking The Unclean)”, 13 minuti d’atmosfera oscura con narrazioni demoniache, mantra, suoni vari, sibili e quant’altro, il tutto su un tappeto ambient decisamente monotono. Insomma, un brano che francamente lascia seriamente perplessi. Ho accennato ad un secondo disco in “Midnight In The Labyrinth”, ma non aspettatevi nulla di appetitoso; se nel primo disco le versioni orchestrali sono accompagnate da alcune parti narrate da Dani (nel suo inconfondibile stile) e da Sarah Jezebel Deva (vecchia conoscenza in casa Cradle), nel secondo cd abbiamo gli stessi brani, ma senza narrazioni e in un ordine di tracklist differente: ora, spiegatemi il senso di questa operazione. Se non altro, chi non sopporta la voce del singer, potrà cercare almeno di guastarsi solo gli strumenti, ma, al di là di questo, l’inserimento del secondo disco risulta esser nient’altro che un trascurabile riempitivo. Per concludere, “Midnight In The Labyrinth” da una parte risulta essere un passo decisamente falso (o meglio, un’occasione che poteva essere sfruttata in modo migliore) nella carriera di una band che, onestamente, si era ripresa alla grande dopo il deludente “Thornography” (2006): ciò è avvenuto con due buonissimi album, con cui i Cradle hanno riacquistato credibilità compositiva e la giusta veemenza (“Godspeed On The Devil’s Thunder” del 2008 e “Darkly, Darkly Venus Aversa” del 2010, qui recensito a questo link: http://recensionimetalfil.blogspot.it/2010/11/cradle-of-filth-darkly-darkly-venus.html). Da un altro punto di vista, questa nuova uscita può essere intesa come un regalo ai fan più affezionati, i quali, presumo, avranno comunque qualcosa da ridire in merito a come sono state fatte le cose. A mio avviso, estremamente più interessante sarebbe stato ri-registrare qualche classico con l’ausilio non solo degli strumenti sinfonici, ma anche di chitarre distorte e batteria triggerata: versioni metal con orchestra avrebbero reso il discorso sicuramente più interessante. A conti fatti, è un album di cui non consiglio l’acquisto, a meno che non siate dei vampiri collezionisti di ogni uscita della band.Confidiamo nel prossimo disco di inediti.


Tracklist:

CD 1:

01. A Gothic Romance (Red Roses For The Devil’s Whore)
02. The Forest Whispers My Name
03. The Twisted Nails Of Faith
04. The Rape And Ruin Of Angels (Hosannas in Extremis)
05. Funeral In Carpathia
06. Summer Dying Fast
07. Thirteen Autumns And A Widow
08. Dusk And Her Embrace
09. Cruelty Brought Thee Orchids
10. Goetia (Invoking The Unclean)

CD 2 (versioni strumentali):

01. The Rape And Ruin Of Angels (Hosannas in Extremis)
02. Dusk And Her Embrace
03. Summer Dying Fast
04. The Twisted Nails Of Faith
05. Funeral In Carpathia
06. The Forest Whispers My Name
07. Cruelty Brought Thee Orchids
08. A Gothic Romance (Red Roses For The Devil’s Whore)
09. Thirteen Autumns And A Widow


Voto: 5/10

domenica 10 giugno 2012

DRAGONFORCE - The Power Within


THE POWER WITHIN

Etichetta: Electric Generation Records
Data di uscita: 16 Aprile 2012
Genere: Melodic Power Metal

Introduzione:

Volenti o nolenti, li conosciamo tutti. Questa band di cui mi accingo a parlare ha visto crescere la propria popolarità in maniera esponenziale negli ultimi dieci anni; che sia per le velocità ultrasoniche proposte, per gli assoli esagerati e spesso fuori contesto, per la loro concezione più aerobica che musicale del concerto, i britannici Dragonforce non sono mai stati particolarmente stimati dalla critica internazionale, riscontrando, tuttavia, apprezzamenti sempre più cospicui dagli ascoltatori di power metal, ma non solo. La band del pepato chitarrista Herman Li ha di recente affrontato l’abbandono dello storico frontman ZP Theart, che ha lasciato il gruppo nel 2010. A quattro anni di distanza dal discutibile “Ultrabeatdown”, tornano in campo nuovamente, con gli stessi ingredienti di sempre. Ma qualcosa è cambiato, in meglio: già dando un’occhiata al minutaggio, ci si rende conto che gli sbrodoli di 8-9 minuti, praticamente d’obbligo in ogni uscita post “Valley Of The Damned” (lo stupendo esordio del 2003), non sono presenti. Ebbene, ciò che potrebbe essere solo un semplice aspetto di secondo piano, si rivela una parte importante di quelli che sono i nuovi Dragonforce: “The Power Within” è di gran lunga il miglior lavoro partorito nell’intera storia della band, al pari dell’esordio. Rimangono le melodie curatissime, rimane la potenza e l’impatto delle chitarre; la supervelocità c’è ancora, ma solo in alcuni brani. Assieme a tutto ciò, notiamo la presenza di solos più ragionati, di una riduzione drastica di comiche keyboards alla Supermario, e la presenza di un paio di graditissimi mid-tempos; davvero una sorpresa per chi conosce bene la band britannica. Insomma, i Dragonforce sono cresciuti, si sono ridimensionati. Hanno aspettato quattro anni per ricaricare bene le batterie e per riorganizzare al meglio le idee, confluendo tutta questa nuova energia nel nuovo disco. Ora finalmente, con queste nove canzoni, sono degni di essere esaltati anche dalla critica e di essere apprezzati in toto per ciò che suonano, ovvero un elettrizzante power europeo, non sempre originale, non sempre eccezionale, ma estremamente melodico e potente, come è giusto che sia. In tutto ciò, una buona dose d’attenzione è posta su Marc, il nuovo giovane singer, che, a dirla tutta, non fa rimpiangere nemmeno per un attimo il discreto ZP, un cantante che non è mai riuscito a brillare nella musica del combo; ora, invece, anche il cantante ha un ruolo di spicco nella band. Bentornati Dragonforce, questa volta avete sorpreso positivamente!


Track by Track:

Qualche epica melodia e acuti su tonalità altissime introducono “Holding On”, il primo brano dei nuovi Dragonforce. La velocità di esecuzione del brano è davvero elevata, come i Dragonforce stessi ci hanno abituati negli anni passati, ma fin da subito notiamo che le sezioni strumentali inutili e ripetitive sono state drasticamente ridotte, dando finalmente giustizia al tocco supersonico della band. Finalmente riusciamo ad apprezzare meglio la potenza del gruppo, grazie ad una song energica ed accattivante, sia nelle strofe che nell’arioso refrain. Spicca l’esecuzione folle del drummer Dave e la convincente voce della new entry Marc. Un ottimo biglietto da visita, che lascia spazio alla successiva ancor più bella “Fallen World”, non troppo originale, ma epica nelle sue melodie e dallo stile inconfondibilmente Dragonforce, tra blast-beats e fraseggi velocissimi. Il ritornello è melodico e piacevolissimo, nella tipica tradizione power, grazie anche alle ottime linee vocali di Marc. Fin qui, nonostante lo stile sia ancora inevitabilemente legato al passato, il tutto è reso più scorrevole, grazie a minutaggi drasticamente ridotti e a partiture strumentali e virtuose più concentrate e finalizzate. Arriva la prima sorpresa con “Cry Thunder”, brano anticipato da un videoclip. Si tratta di un mid-tempo, allegro e saltellante, in cui Herman Li e soci si destreggiano bene tra curatissime melodie di chitarra pseudo-folkeggianti. Un brano indubbiamente privo di idee geniali o troppo originali, ma degno comunque di essere ricordato nella discografia del gruppo. La forza di questo mid-tempo sta nelle melodie fresche e scintillanti e nel buon refrain, creato appositamente per la dimensione live. Dopo questa gradita sorpresa, si torna a pestare l’acceleratore, questa volta in maniera meno estrema e virulenta, con un classico brano power europeo: “Give Me The Night”, nonostante un titolo dal sottofondo glam, riesce a convincere, ma non a stupire. Le chitarre sono perfette nei loro veloci e tecnici riff, così come le convincenti strofe ed il ritornello melodico e ruffiano garantiscono quattro minuti e mezzo piacevoli e godibili. Molto interessante la parte centrale, con accordi più lenti e cadenzati, prima di un bellissimo assolo di chitarra. Un delicato pianoforte introduce quella che apparentemente sembrerebbe una ballad: nulla di più sbagliato, perché “Wings Of Liberty” è in realtà un’altra bordata di power metal epico e velocissimo. Ritengo che i Dragonforce non abbiano mai creato un brano così intenso come questo; tutto suona incredibilmente potente ed è al posto giusto. Le melodie, la voce, l’accattivante incedere del brano, gli stacchi puliti, gli assoli: tutto ciò contribuisce a creare quello che ritengo essere il brano più bello in tutta la discografia della band. Probabilmente, a molta gente sembrerà un classicissimo brano power, ma “Wings Of Liberty” possiede qualcosa in più, un mood fresco e accattivante, capace di dare speranza e forza interiore anche al più depresso dei metallari. Bellissimo anche il curatissimo assolo centrale. Un brano di musica eccellente, consigliato a chi è in cerca di felicità e di voglia di vivere. Il successivo, è un altro ottimo brano che testimonia la rinnovata freschezza della band: “Seasons” si presenta come un altro mid-tempo graffiante e convincente fin dal primo ascolto, grazie a strofe aggressive e dirette e ad un refrain coinvolgente e passionale, dove Marc si adagia su linee vocali morbide e baritonali, ma perfette. Azzeccato l’intermezzo potente e melodico, prima di un perfetto e gradevole scambio solistico tra le chitarre e la tastiera. Il fading del brano ci porta alla successiva “Heart Of The Storm”, dove i Dragonforce ritornano a velocizzare la loro proposta, con un power metal veemente e repentino. Nonostante gli intenti delle ottime strofe ed i bei solos, il ritornello fatica a decollare, così l’intero brano tende ad assomigliare a tante vecchie canzoni del gruppo senza presentare molta varietà stilistica e senza il giusto mordente, presente maggiormente nei primi brani del disco. Dopo questo classicissimo brano alla Dragonforce, la band si ripropone con un altro brano power, meno veloce ma sempre infuocato, che perlomeno presenta però qualche spunto più interessante: “Die By The Sword” non gode di un refrain eccellente, ma ha dalla sua parte degli interessanti arrangiamenti di chitarra, delle strofe precise e convincenti ed uno stupendo intermezzo lento e malinconico, con un intervento solistico emozionante e particolarmente sentito, prima della spiazzante ripresa di velocità che conduce al finale. Dopo un brano degno di nota ma non trascendentale, arriviamo al finale con “Last Man Stands”. Nella breve introduzione di tastiere pare quasi di sentire i Linkin Park più elettronici e recenti (scusate l’ingombrante paragone), ma le cose virano ben presto verso un canonico power melodico e arioso, pregno di positività e speranza: del resto, i Dragonforce sono anche questo. Al di là della canonicità del pezzo, “Last Man Stands” non esagera con la velocità e gode di un buon refrain melodico e di un ottimo e perfetto crescendo solistico dei chitarristi e del tastierista. Arriviamo così agli acuti finali, che concludono degnamente questo ritrovato spirito della band britannica, esposto nei nove brani di questo pregevole come-back discografico. Delle varie bonus-tracks dell’edizione speciale, cito solamente la versione acustica di “Seasons”, un piccolo gioiellino in grado di far risaltare ancor di più arrangiamenti e melodie del pezzo originale.


Considerazioni Conclusive:

Colpo centrato per il combo britannico. Dopo un album piuttosto deludente, sotto molti aspetti, come “Ultrabeatdown”, TPW riesce a risollevare le sorti di una formazione che negli anni ha cercato di portare perlomeno una ventata nuova nel power, introducendo velocità d’esecuzione al limite dell’umano e suoni spesso grotteschi. Non si può nascondere che la monotonia nei loro pezzi stava iniziando a prendere il sopravvento; l’eccesso iniziava a diventare un irrinunciabile vezzo che andava inevitabilmente a soffocare la composizione e la qualità della musica. Per fortuna, ora sembra che Herman Li abbia finalmente capito che non serve essere così eccessivi per poter essere ricordati. Infatti l’operato suo e di Sam Totman alle chitarre si impone, come sempre, con potenza e precisione tecnica nelle complesse partiture ritmiche, mentre nei solos qualcosa è cambiato rispetto al passato; più melodia, più ricercatezza e meno miliardi di note sbrodolate a caso in una battuta. Perfino il basso di Frederic Leclercq assume un ruolo fondamentale e in moltissime occasioni funge da collettore tra un riff e l’altro attraverso repentini fraseggi di basso, che lasciano intendere una buona capacità tecnica (mai particolarmente dimostrata nel power melodico). Altro punto chiave è la tastiera: i suoni ridicoli pseudo-videogame anni ’80 sono praticamente scomparsi. Al loro posto i tappeti sinfonici e pianistici diventano maturi e fondamentali, senza scordare qualche ottima prova solistica, il tutto ad opera di un ispirato Vadym Pruzanov. Non si notano grandi differenze nel drumming di Dave Mackintosh, sempre preciso, dinamico e velocissimo, essenziale per gli intenti del gruppo. Le luci sono però tutte puntate su Marc Hudson, un classico power-metal-singer, dotato di tecnica, carisma, di estensione e del giusto calore esecutivo. La differenza con la sterilità di ZP si sente; Marc ha indubbiamente portato un’ulteriore grammo di freschezza nella band. La produzione è perfetta per la proposta: potente ma anche lievemente aggressiva nel suono delle chitarre, mentre sul versante artwork, la band dovrà ancora lavorare: così come molte precedenti, anche la copertina di TPW è davvero insignificante. Ma è il songwriting a fare davvero la differenza: tutto suona più equilibrato e ridimensionato, con una qualità compositiva in molti casi davvero matura ed elevata. Insomma, c’è molto di cui sperare per il futuro dei Dragonforce, ma intanto godetevi senza remore questo nuovo piccolo gioiellino del power moderno.


Tracklist:

01. Holding On
02. Fallen World
03. Cry Thunder
04. Give Me The Night
05. Wings Of Liberty
06. Seasons
07. Heart Of The Storm
08. Die By The Sword
09. Last Man Stands


Voto: 8/10