lunedì 18 aprile 2011

CHILDREN OF BODOM - Relentless, Reckless Forever

I Bambini implacabili, spericolati…per sempre?


Nome Album: Relentless, Reckless Forever
Etichetta: Spinefarm Records
Data di uscita: 8 Marzo 2011
Genere: Melodic Death Metal


Introduzione:

E’ tendenza abbastanza comune da parte degli artisti, nell’ambito del metal e del rock, ritrovarsi, dopo una cospicua e fortunata carriera, a comporre album sempre più melodici e di “facile presa” sugli ascoltatori, poiché sanno in cuor loro che, bene o male, ci sarà ormai sempre qualcuno pronto ad ascoltarli e sostenerli, qualunque ciofeca buttino nell’intasato mercato musicale. Non è il caso dei Children Of Bodom, band finnica guidata dall’adrenalinico frontman Alexi Lahio, che, da quel Something Wild (1997) fino al quarto album Hate Crew Dethroll (2003), ha rinnovato un genere stantio come il death melodico, e ha stupito il mondo con quel metal tecnico, veloce e particolarmente melodico targato COB, creando innumerevoli proseliti. Dal successivo Are You Dead Yet? (2005) le cose sono cambiate: la produzione si fa più sporca e graffiante, il songwriting diventa più pesante ed orientato maggiormente verso il death e meno verso il power melodico, tanto che anche le tastiere assumono un ruolo più marginale rispetto al passato. E’ il turno di Bloodrunk (2008), che, se da un lato torna ad una produzione più pulita, dall’altro rappresenta un mezzo passo falso per la band. Troppo prolisso e avido di pesantezza, privo di melodie che restino impresse nella mente, Blooddrunk sembra segnare un lento declino per la band, considerata già alla deriva. Sembra che Alexi e soci abbiano avuto il loro periodo d’oro con i primi album, e si siano poi dispersi nei fumi alcolici della mediocrità. Almeno fino al nuovo Relentless Reckless Forever: un album la cui bontà cresce di ascolto in ascolto, rivelando finalmente delle buone idee da parte della band, in mezzo, però, ad altre più confusionarie ed inconcludenti. Questa nuova fatica la si può inquadrare come l’anello mancante tra il vecchio corso della band (quello più power-oriented, pomposo e melodico) e il nuovo corso (quello da AYDY in poi, per capirci). Non siamo di fronte ad un capolavoro (quelli, ormai, sono storia vecchia per i COB) ma ad un buon album certamente si. Le linee melodiche non sono troppo innovative, ma almeno restano in testa. Si muovono tra riff d’ispirazione death (questa volta riusciti), facendoci  dimenticare il pretenzioso Bloodrunk. Dopo questa breve e riduttiva introduzione, lascio a voi l’ascolto.


Track By Track:

Già è ottima la partenza di “Not My Funeral”, brano apripista che ha in sé tutte le ottime caratteristiche del combo finlandese. Un attacco puramente death metal lascia presto spazio alle rinate tastiere di Janne Wirman e ad un semplice, ma efficace, refrain lento. Superba ed ipnotica la prima delle varie sezioni d’assoli chitarristici e tastieristici che Lahio e Wirman hanno in serbo per i loro ascoltatori. Ottima partenza quindi, che lascia presto spazio ad un deciso ritorno al passato, dal titolo “Shovel Knockout”: un roboante basso distorto ed una chitarra graffiante aprono il brano, la cui strofa è basata su uno spietato e velocissimo riff death metal, con Alexi particolarmente incazzato dietro al microfono (per non parlare della sua prova funambolica alla sei corde). Ma è nelle splendide melodie tastieristiche di bridge e refrain che torna lo spettro ultramelodico di Follow The Repaer e Hate Crew Dethroll. Ancora una volta, ottimi e perfetti i solos di tastiera e chitarra, in cui è impossibile non pensare a vecchi stupendi brani come “Needled 24/7” o “Bodom Beach Terror”. Un’ottima canzone quindi, seguita a ruota dal mid-tempo “Roundtrip To Hell And Back” (una sorta di “Everytime I Die” leggermente più velocizzata), altro ottimo brano che non deluderà i fan di vecchia data, grazie a dei suoni e a delle melodie di tastiera che, ancora una volta, richiamano il vecchio songwriting della band. Una parte centrale e dei refrain decisamente potenti ed incazzati completano l’opera, lasciando spazio ad un assolo di tastiera rallentato alla fine (questa tecnica ricorda il finale della vecchia “Lil’ Blooded Ridin’ Hood”). Un’ottima tripletta iniziale, che fa ben sperare quindi, da cui, però, seguiranno i brani meno convincenti dell’album. “Pussyfoot Miss Suicide”, dietro al suo strano titolo, nasconde delle idee meno convincenti a partire già dall’incipit. Lungo il proseguimento dell’ascolto, ci pensano il buon ritornello, i consueti solos ed alcune discrete ripartenze ad alzare la sorte del brano, che, in fin dei conti, passa abbastanza inosservato. Non va meglio con la seguente “Relentless Reckless Forever”, altro brano abbastanza in linea con il precedente, ma ancor meno riuscito. Basata su tempi medi, questa title-track è ancora più pretenziosa del precedente brano, torna qualche fastidioso eco di Blooddrunk, le melodie non riescono a convincere, e nemmeno gli assoli sono memorabili come quelli a cui i COB ci hanno abituato da anni. Quindi, siamo di fronte ad una prima skip-song che lascia un certo vuoto nell’ascoltatore. Purtroppo nemmeno la seguente “Ugly” aiuta. Il titolo ben rispecchia la caratteristica di questa canzone. L’intro iniziale fa riprendere velocità all’album e le premesse sembrano davvero ottime, visto l’impegno profuso nel cercare di trovare dei riff convincenti e riusciti. Tuttavia, il brano si disperde ben presto in un impasto di accelerazioni e controtempi piuttosto lasciati a se stessi, coronati da un refrain decisamente poco riuscito (il peggiore dell’album, a mio avviso) e da un finale decisamente inconcludente. Si salva il breve assolo di chitarra, pur non essendo nulla di trascendentale. Dopo questa poco memorabile doppietta, torniamo a respirare con la tripletta finale, capeggiata da uno dei brani migliori del lotto: “Cry Of The Nihilist”, un brano veloce che già dall’intro e dall’ipnotica strofa, mette in campo una rinnovata ispirazione per Alexi e soci, con alcuni riuscitissimi stop’n’go di chitarra, seguiti da un buon ritornello melodico e da assoli pienamente convincenti e dannatamente ispirati. Fa piacere vedere come la band sia ancora in grado di mettersi in gioco e di stupire i propri ascoltatori. Il primo singolo estratto è il successivo mid-tempo “Was It Worth It?”. Ai primi ascolti questa canzone risulta acerba, lascia l’amaro in bocca, e di certo (prima dell’uscita dell’album) fa protendere l’ascoltatore all’idea che il nuovo full-lenght dei COB seguirà ancora una volta le orme di Blooddrunk. Tuttavia dopo ripetuti ascolti si denota una certa bontà nel songwriting, nonostante non sia un pezzo musicalmente assimilabile ai primi lavori. Sfido chiunque a non scatenarsi in uno sfrenato headbanging sulle macchinose ed articolate note della strofa. Il refrain risulta perfetto per il brano, pur non essendo un capolavoro. Insomma, in questa song tutto risulta abbastanza discreto, e nulla di più. La penultima esecuzione di questo RRF è affidata ad un tocco di thrash-hardcore, con la breve e velocissima “Northpole Throwdown”, la cui partenza al fulmicotone lascia tutti di stucco. Buona strofa e improvvise accelerazioni conducono ad un refrain grezzo e tirato, dal sapore hardcore, e ad un gasante assolo di chitarra. Una song abbastanza inusuale per la band, ma ottima per chiudere in bellezza questo nuovo lavoro dei Children Of Bodom. Considero l’album chiuso qui, poiché l’ultima traccia è un’inutile e poco riuscita cover di Eddy Murphy dal titolo “Party All The Time”. Tirando le conclusioni, si tratta di un album non particolarmente innovativo, ma, tutto sommato, abbastanza convincente, che farà sicuramente parlare di se, ancora una volta.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

La dualità di Relentless Reckless Forever è, in realtà, abbastanza opinabile: c’è chi sarà d’accordo con la mia visione d’idee, chi vedrà in questo nuovo lavoro nient’altro che la continuazione di Blooddrunk, e c’è anche chi sosterrà di trovarsi di fronte un ennesimo album tipicamente in COB style. Dipende da come ognuno vede il progresso (o, per alcuni, regresso) musicale fatto dalla band, e dipende da cosa l’ascoltatore voglia sentire da questo nuovo lavoro. Detto questo, passiamo all’aspetto tecnico della band, il quale, invece, non è in alcun modo discutibile: infatti è oggettivo il fatto che, fin dagli esordi, nella musica dei Bambini di Bodom spicchino soprattutto la grande capacità di Alexi Lahio nel destreggiarsi tra numerosi stili chitarristici ed il canto scream-growl,  senza alcun ostacolo tecnico, e il buonissimo gusto tastieristico di Janne Wirman, funambolico e preciso “key-hero”. Oltre alle due colonne portanti appena citate, notiamo come anche la tecnica del batterista Jaska Raatikainen sia cresciuta con gli anni, come si può notare nei passaggi di batteria più articolati. Il bassman Henkka Seppala ed il chitarrismo di Roope Latvala (fatta eccezione per qualche suo intervento solistico), pur essendo essenziali, restano piuttosto in secondo piano, offuscati dal muro sonico-tecnico ostentato dai loro compagni. C’è poco altro da dire: la produzione rasenta la perfezione, come ci si aspettava, e l’artwork di copertina è finalmente più variegato e complesso rispetto al passato. Vedetela come volete, ma a parer mio, nonostante qualche scivolone artistico, i COB sono una band che ha dimostrato, e dimostra tutt’ora, di saper crescere divertendosi.


Tracklist:

01. Not My Funeral  
02. Shovel Knockout
03. Roundtrip To Hell And Back
04. Pussyfoot Miss Suicide
05. Relentless, Reckless Forever
06. Ugly
07. Cry Of The Nihilist
08. Was It Worth It?
09. Northpole Throwdown
10. Party All The Time (Eddy Murphy Cover)


Voto: 7/10

lunedì 11 aprile 2011

TURISAS - Stand Up And Fight

…E il viaggio continua!


Nome Album: Stand Up And Fight
Etichetta: Century Media
Data di uscita: 28 Febbraio 2011
Genere: Symphonic Folk Metal

Introduzione:

Arrivano, in questo 2011, al fatidico terzo disco anche i finlandesi Turisas, partiti discograficamente nel 2004 con quel manifesto del folk metal internazionale chiamato Battle Metal, che ha valso loro l’omonima etichetta musicale. Dopo 7 anni da quel fulmine a ciel sereno, e dopo un secondo capolavoro dal titolo The Varangian Way (2007), tornano con un disco che prosegue le atmosfere e le intenzioni di quest’ultimo album citato. Infatti, se le sonorità di Battle Metal erano decisamente orientate verso lidi folk-power, dal secondo disco il buon leader Mathias “Warlord” Nygård (voce, songwriter e mente della band) ha puntato molto di più sulle orchestrazioni e su arrangiamenti ultra-raffinati e pomposi come pochi, creando un suono epico e profondo, trionfale e sinfonico. Se, quindi, da una parte, il battle metal degli esordi è stato messo in secondo piano, la sinfonia ha iniziato, d’altro canto, ad impadronirsi dei Turisas. Stand Up And Fight prosegue così questo discorso, con arrangiamenti sinfonici sempre più complessi (indice di una sempre più crescente maturazione stilistica in fase di songwriting) ed un attitudine sonora sempre più cinematografica. Anche liricamente, il nuovo disco prosegue il viaggio e le gesta dei Varangiani (un antico gruppo di vichinghi), narrati nel concept-album precedente. Continuando il paragone con il passato della band, questo nuovo capitolo della band finnica, nonostante gli arrangiamenti e la composizione acquistino sempre più valore, perde un po’ di valore sul lato dell’immediatezza rispetto al suo predecessore (considerando l’esordio stilisticamente diverso dai restanti album, escludiamolo pure dai nostri paragoni): se infatti TVW era un album sorprendentemente dinamico e vincente, il nuovo SUAF, tentando palesemente di seguirne la scia, risulta leggermente meno ispirato, più derivativo e meno fresco. Si tratta, ovviamente, di piccolezze, per chi volesse andare alla ricerca del proverbiale pelo nell’uovo. Quel che conta è comunque l’ottima musica di classe contenuta in questi 46 minuti (bonustracks escluse), e sfido chiunque a non sentirsi almeno un po’ immerso nelle epiche, cinematografiche ed “odisseiche” atmosfere marchiate a fuoco e ferro dai Turisas.


Track By Track:

La suddetta epopea dei Varangiani, alla base del concept storico dell’album precedente, continua in questo nuovo lavoro attraverso l’apripista “The March Of The Varangian Guard”, brano diretto ed epico che esplode in un refrain corale e marciante. I connotati musicali della band vengono subito svelati e messi in luce: musica sinfonica e trionfale, a suggellare un’atmosfera emozionante adatta alla storia narrata. Da questa prima traccia, pare che i Turisas non abbiano comunque alcuna intenzione di abbandonare quei ritmi battaglieri in terzine (che li accompagnano fin dai tempi dell’ottimo Battle Metal), pur sempre in secondo piano, a partire da The Varangian Way, rispetto all’impianto sinfonico. Un crescendo di trombe apre il seguente mid-tempo dal titolo “Take The Day!”, sicuramente uno dei brani maggiormente riusciti del lavoro, con, ancora una volta, un azzeccatissimo ritornello da cantare a squarciagola con corna bene in vista, al grido di “Rising! Fighting!”, su un tappeto di sinfonie malinconiche ed atmosferiche. Il fade-out del brano ci conduce a “Huning Pirates”, che, già dal titolo e dalla melodia folkish iniziale, ci porta alla mente i maestri del pirate metal scozzese, tali Alestorm. Le melodie allegre di strofe e refrain e l’atmosfera indubbiamente piratesca altro non fanno che reiterare questa sensazione lungo tutta la durata del brano, abbellito da qualche strano controtempo in certi punti. Un brano, in definitiva, piacevole ed allegro, come altri ve ne sono stati nella carriera dei Turisas (come ogni buona folk metal band che si rispetti), ma non eccelso. L’inizio di “Venetoi! Prasinoi!” (non chiedetemi quale sia la traduzione di questo titolo), sembra faccia continuare questa tendenza alle melodie allegre, ma, in realtà, si traduce in preludio ad un brano particolarissimo, fin troppo strano per essere apprezzato subito ad un primo ascolto. Infatti lo scoppiettante intro di trombe prosegue in una corsa dai ritmi frenetici, dall’incedere ansioso e quasi schizoide (numerosi stop’n’go tengono alta la tensione), in cui la voce compare solo per una breve strofa. Dopo questo sorprendente brano, decisamente originale, la marcia prosegue con il nuovo anthemico inno della title-track “Stand Up And Fight”, in cui torna prepotentemente il classico ritmo del battle metal degli esordi. L’indole battagliera è assicurata, ma, nonostante ciò, anche dopo ripetuti ascolti, questa title-track non riesce ancora a convincermi appieno nelle orchestrazioni, che sembrano, stranamente, scarne, soprattutto nel refrain: questo, infatti, pur intenzionato ancora una volta a farci innalzare al cielo una spada e a caricarci di adrenalinica esaltazione, non riesce tuttavia a colpire fino in fondo. Il seguente “The Great Escape” torna a calcare melodie chitarristiche meno battagliere e più volte al folk, per poi proseguire in un mid-tempo dalla strofa pesante cantata in growl (in questo album generalmente meno presente rispetto al passato) e dal ritornello originale e molto piacevole. In seguito, il brano si trasforma in un ennesimo esempio di metallo battagliero, portando ai cori e all’outro sinfonico finale. Un brano che può risultare piacevole nelle sue singole parti, ma poco funzionante, a mio avviso, nell’amalgamazione generale. Va meglio con il brano successivo, intitolato “Fear The Fear”. Dopo un’introduzione su ritmi incalzanti e melodie malinconiche, la song si dipana con un incedere incalzante e sinfonico, senza aggiungere troppo all’economia dell’album, se non delle belle melodie ed un ottimo ritornello. Da notare l’ottimo e, purtroppo, breve intervento thrasheggiante posto nell’ultimo minuto di canzone, seguìto a ruota dal coro finale, perfetto per chiudere la song (ricorda molto la conclusione della vecchia “Five Hundred And One”). Arriviamo così alla penultima song, che, oltre ad essere il brano più lungo dell’album (7 minuti), è anche uno dei più riusciti: in questa “End Of An Empire”, risiede il pezzo più esaltante dell’intero lavoro, ovvero un intervento sinfonico-corale nel refrain, talmente corposo ed evocativo da far accapponare la pelle a chiunque si presti al suo ascolto. Il brano prosegue su una base di  cavalcata nelle numerose strofe e nella parte finale, anche qui accompagnata da un possente coro, fino all’esplosione sinfonica finale. Davvero un brano interessante, anche se, devo ammetterlo, sarebbe stata necessaria anche qui una maggiore cura nell’amalgamazione delle varie parti della suite, che risultano così troppo slegate l’una dall’altra. Chiude il concept “The Bosphorus Freezes Over”, una sorta di lungo e lento outro, che prosegue alternandosi tra Mathias, in una riuscita veste di narratore, su base cinematografico-sinfonica ed un coro malinconico, tessente una litania in lingua madre (o almeno sembra…). Un brano, francamente, non indispensabile, ma comunque ben posizionato per concludere l’opera ed, assieme ad essa, il concept dei Varangiani. Nella versione bonus sono presenti due cover ben eseguite: “Broadsword” dei Jethro Tull, e la schizzata versione di “Supernaut” dei maestri Black Sabbath. Simpatiche, ma nulla di più.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Lavoro quindi riuscito, questo nuovo SUAF targato Turisas. Certo, non si può fare a meno di notare qualche piccolo scivolone e qualche sporadico difetto qua e là che porta l’album ad essere, a mio avviso, di un passo inferiore al precedente lavoro. Tecnicamente la band non dimostra capacità tecniche eccezionali, le chitarre si mantengono su un profilo decisamente ritmico, addentrandosi raramente in sporadici assoli, per altro di discreta qualità. Il basso e la batteria sono molto, troppo statici, e pochi sono i giochi ritmici che restano davvero impressi, preferendo entrambi rimanere su una dimensione ritmicamente statica e prettamente “asettica”. Per quel che concerne il violinista Olli Vanska e la bionda neo-fisarmonicista Netta Skog (qui alla sua prima prova su disco), data la particolarità dei loro strumenti, è più facile identificare il loro ruolo on stage, rispetto alla prova su disco. Mathias si rivela un cantante discreto, ma nulla di più: alterna parti in clean su timbriche basse e ruvide, a parti cantante in un non trascendentale growl-scream. Ma quindi, che c’è di buono? Questo è uno di quei casi in cui non sono tanto le abilità tecniche ad essere importanti, ma ciò che conta sono gli arrangiamenti sinfonici, il feeling generale, il contesto storico perfettamente riproposto in musica. E, su questo, è innegabile riuscire a vedere come i Turisas ne escano vincenti. Come già citato durante il track by track, ci sono alcune tracce che peccano di completezza, mentre altre sono comunque basate su delle idee ricercate e, nel complesso interessanti, ribadendo comunque una generale ricercatezza nel sonwriting e negli arrangiamenti. La produzione è pulita e cristallina, pomposa al punto giusto, e mette in risalto soprattutto l'orchestra (questa volta ne è stata utilizzata una vera). E’ quindi piuttosto difficile dare un giudizio a quest’album: un disco che necessita di vari ascolti prima di essere valutato, e prima di capire che, in fondo, non si tratta né di un capolavoro né di un passo falso. I Turisas sono tornati, prendere o lasciare.


Tracklist:

01. The March Of The Varangian Guard  
02. Take The Day!
03. Hunting Pirates
04. Venetoi! – Prasinoi!
05. Stand Up And Fight
06. The Great Escape
07. Fear The Fear
08. End Of An Empire
09. The Bosphorus Freezes Over


Voto: 7/10

lunedì 4 aprile 2011

4TH DIMENSION - The White Path To Rebirth

Nuove sinfonie dall’Altopiano!


Nome Album: The White Path To Rebirth
Etichetta: Crash & Burn Records
Data di uscita: 25 Marzo 2011
Genere: Symphonic Power Metal

Introduzione:

Si sa, il power metal è ormai da anni un genere saturo, in cui numerosissime band-clone si rifanno ai più grandi nomi del genere, per proporre al pubblico riff, melodie e pomposità che certo non portano a nulla di nuovo nell’intera scena. Questa giovane band di Asiago esordisce nel 2011 con il suo primo parto discografico. Ma facciamo un salto indietro, per un momento. I 4th Dimension nascono nel 2005 per volontà di Andrea Bicego (voce) e Talete Fusaro (tastiera), e gli esordi sono caratterizzati soprattutto da cover dei più blasonati nomi del genere: Sonata Arctica e Stratovarius in primis, e nomi meno altisonanti come i Burning Point. Nel 2010 hanno la grande possibilità di registrare finalmente un disco di inediti, prodotto nientemeno che da Alessio Lucatti (tastierista di Vision Divine e White Skull). Finita la registrazione, in cui militano, tra l’altro, ospiti di tutto rispetto come Fabio Lione (noto singer di Rhapsody Of Fire, Vision Divine) e lo stesso Lucatti, arriva presto il contratto con la nostrana indipendente Crash & Burn Records e, assieme a questo, la notizia che ogni musicista vorrebbe ricevere: la conferma di un tour europeo, assieme agli importanti nomi di Labyrinth e, soprattutto, dei maestri Sonata Arctica. E così inizia l’avventura per la nostra band di Asiago, gli apprezzamenti piovono, assieme (com’è naturale) a qualche critica, e le stampe specializzate si interessano sempre più al nome dei 4th Dimension. Detto questo, passiamo al disco. L’esordio dei vicentini si presenta, com’è auspicabile, come un lavoro ispirato fortemente dai grandi del genere, ma la band ha, tuttavia, la capacità di inserire finalmente qualcosa di nuovo nel sound. Non tanto nelle strutture, ma nell’atmosfera che sanno sprigionare questi 5 ragazzi, negli arrangiamenti, nelle melodie e soprattutto nella voce di Andrea. Lontano dai soliti stilemi canori abusati nel power più canonico, Andrea si rivela essere più di un semplice cantante: diventa un interprete, un “poeta” in grado di mirare dritto al cuore dei suoi ascoltatori. Passiamo ora all’analisi del disco. Premetto subito una cosa: conosco Andrea, conosco i 4th Dimension e ho avuto il piacere di suonare con loro, pertanto perdonatemi se ogni tanto, pur cercando di rimanere il più obiettivo possibile, mi dilungherò in qualche interpretazione soggettiva.


Track By Track:

Come da migliore tradizione, anche “Il Bianco Sentiero della Rinascita” esordisce con un brano diretto ed immediato, dal titolo “The Sun In My Life”. Dopo una breve intro, ci troviamo, infatti, dinnanzi ad una canzone che mette subito in chiaro quali siano gli elementi chiave della band: poca aggressività e molta melodia. Il brano prosegue esplodendo in un ritornello catchy e stuzzicante. Tuttavia, nelle melodie, nella struttura e nei solos di chitarra e tastiera, si tratta di un brano fortemente derivativo, molto ispirato da Strato e Sonata. Poco male, siamo solo all’inizio, e non è certo solo questo che vogliono proporci i nostri. Infatti, tempo qualche secondo, e già stupisce l’epica introduzione di “Consigned To The Wind”. Un brano nuovo e fresco per la scena, che unisce alcune strutture tipicamente power ad altre partiture di stampo quasi prog e più sperimentali. Nell’ottimo refrain, Andrea raggiunge i picchi canori più alti del disco, preferendo poi concentrarsi, nei brani seguenti, su timbriche più calde e su tonalità medie. Quindi questo brano, oltre ad essere il più lungo dell’album (7 minuti), è anche il più controverso, il più particolare, e, come tale, ha bisogno di qualche ascolto in più per essere assaporato fino in fondo. Il “sentiero bianco” continua con “Goldeneyes”, song ultramelodica, a suo modo molto dolce nell’incedere, giocata su tempi medi e melodie ariose. Molto azzeccati, a mio vedere, sono gli arrangiamenti vocali, che esprimono delle vocals calde e morbide, adattissime al testo e all’atmosfera del brano. Notevole anche l’assolo di tastiera centrale, ad opera dell’ospite/producer Alessio Lucatti. Arriviamo alla song  più aggressiva del lavoro, la splendida “Sworn To The Flame”, dotata di un tiro formidabile, grazie a delle accelerazioni degne di nota e ad un ritornello che si stampa in testa, senza tanti complimenti. Una canzone molto diretta e veloce, che farà sicuramente impazzire i fans di queste sonorità. Ottimi i lavori solisti di chitarra e tastiera. Il picco dell’album, a mio parere, è raggiunto dalla song seguente, “Everlasting”: mid-tempo pregevole, dotato di alcuni richiami al power nordeuropeo, ma pregno di sprizzante emozione, grazie ad un ritornello di ottima fattura e grazie anche ad un duetto di Andrea (che in questo brano usa tonalità calde e corpose) con la cantante Melody Castellari. Le due voci si intrecciano a dovere, sfociando in controcanti ed armonizzazioni da pelle d’oca, su un’eccellente base melodica. Arriviamo ad un’altra mazzata del disco, che porta il titolo di “A New Dimension”. Il brano vede un duetto di Andrea con il singer Fabio Lione, che di certo non ha bisogno di presentazioni, e non poteva esserci song più azzeccata per tale esperimento. Infatti la base musicale è fortemente ispirata dai nostrani Rhapsody Of Fire, con tanto di pomposi arrangiamenti orchestrali e doppia cassa impazzita, e le due voci interpretano a dovere l’andamento del brano. Anche questa canzone ha bisogno di ripetuti ascolti secondo me, poiché, pur essendo molto melodica, è dotata di molti stacchi e di un incedere sostenuto e martellante. Un ottimo brano ad ogni modo, stilisticamente diverso rispetto agli altri up-tempo del disco. La prima ballad dell’album (consueta nei dischi del genere) è “Winter’s Gone”: introdotta da una chitarra acustica, prosegue su binari sicuri ed emozionali, come da miglior tradizione. Ottimi gli interventi orchestrali, l’assolo centrale di chitarra, il ritornello pomposo e melodico, e ancora una volta, ottima l’interpretazione di Andrea (tra l’altro, anche autore di questo brano). La ballad in questione (uno degli highlights del disco) ricorda molto i lenti di Tolkki e compagnia, come le vecchie “Years Go By”, “Coming Home” e via dicendo, ma è capace di centrare il bersaglio nel saper esprimere un fiume in piena di emozioni musicali, e da una power ballad ci aspettiamo proprio questo. La seguente “Labyrinth Of Glass” è, a mio avviso, la canzone meno riuscita del platter. Certo, questo terzinato si fa ascoltare e scorre con facilità, ma dinnanzi a quanto finora ascoltato, rappresenta un calo qualitativo, sia nel ritornello (dotato di una melodia di poca presa) sia nell’incedere generale. Non si può certo girare troppo il dito nella piaga, si sa quanto sia difficile oggi proporre qualcosa di nuovo e che, al contempo, funzioni nell’ambito del metal. Poco male comunque, perché arriviamo alla penultima “Angel’s Call”, che ha delle strutture melodiche forse ancora più abusate di quelle della song precedente. Si tratta, infatti, del brano più commerciale e catchy del disco, ma, nonostante questo, funziona alla grande e vi ritroverete ad intonarne il ritornello a squarciagola. A staccare un po’ dal consueto ci pensa una ben riuscita parte narrata centrale. Song quindi riuscita ed adattissima per i live. La “rinascita” culmina con la conclusiva “Landscapes (Vestige Of The Earth)”, un brano fortemente atipico ma dannatamente riuscito ed originale. Trattasi infatti di una ballad interamente pianistica, in cui regna sovrana la voce di Andrea, che, attraverso un continuo sussurro, ci introduce a visioni naturalistiche e a paesaggi che declamano l’imponenza della natura (spero di aver interpretato le liriche in modo corretto). Il brano è un capolavoro di delicatezza, dotato di vari cambi di scale che lo rendono particolarmente originale ed enigmatico. Quindi un altro centro, che porta alla conclusione di questo viaggio. Questa band ha molte carte in tavola per poter stupire ancora di più in futuro, bisogna rendergliene atto, ed intanto vi invita ad immergervi nelle sensazioni e nelle emozioni emanate dalla loro pregevole musica.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Una buonissima prima prova quindi, per questa band cresciuta a pane e power europeo. Una prova che testimonia la voglia di sperimentare qualcosa di diverso, la volontà di osare, al di là dei connotati sicuri (e, spesso, remunerativi) di cui il power melodico è saturo. Alcune note dal punto di vista tecnico: la voce di Andrea, come spesso ribadito, dà un tocco in più alle composizioni, in quanto capace di variare da registri alti (usati raramente) a registri più bassi che puntano maggiormente alla teatralità e all’interpretazione dei brani. Altro assoluto protagonista è Talete, capace di tessere trame melodiche e tappeti tastieristici  a volte canonici ma efficaci, conditi da assoli davvero ben riusciti, veloci, precisi e perfettamente incorniciati nel contesto sonoro della band. La batteria di Massimiliano Forte ed il basso di Stefano Pinaroli accompagnano a dovere la band senza infamia né lode, così come le chitarre di Michele Segafredo, chitarrista abile e preciso in fase ritmica, ma che forse potrebbe osare di più in fase solistica, dove in quest’album, a mio parere, è la tastiera ad avere più spazio. Sono sicuro che l’esperienza che acquisirà in futuro lo farà emergere a dovere. I testi, tutti ad opera di Andrea, sono molto curati e, in molti frangenti, lasciano trasparire poesia e  sentimenti di speranza. Anche la produzione è curatissima, così come l’artwork e l’immagine della copertina, che ben si adatta all’immaginario della band (Asiago, neve, inverno, colori freddi, ecc…). Consiglio vivamente l’acquisto di questo bel lavoro della band di Asiago, sia per gli amanti del metallo melodico e per chiunque voglia acquistare della buona musica nostrana e voglia supportare una band valida e con una sempre più crescente esperienza on stage. Il “bianco sentiero della rinascita” è stato intrapreso, e, mi permetto di dire, si tratta del sentiero giusto. Bravi, 4th Dimension.


Tracklist:

01. The Sun In My Life
02. Consigned To The Wind
03. Goldeneyes
04. Sworn To The Flame
05. Everlasting
06. A New Dimension
07. Winter’s Gone
08. Labyrinth Of Glass
09. Angel’s Call
10. Landscapes (Vestige Of The Earth)


Voto: 8/10