venerdì 8 luglio 2011

STORMWARRIOR - Heathen Warrior


Vivere nei ricordi non sempre è la cosa migliore…

Nome Album: Heathen Warrior
Etichetta: Massacre Records
Data di uscita: 27 maggio 2011
Genere: Heavy Power Metal

Introduzione:

Da qualche parte nel mondo c’è ancora qualche band che non ha voglia di piegarsi ai mercati del metal moderno, eccessivamente tecnico-tecnologici e privi di quel mordente delle produzioni sporche e crude; c’è chi, dopo il lavoro, si rinchiude ancora nello scantinato con i compagni di bevute per suonare e fare casino; c’è chi, con il suo immancabile giubbottino di pelle, rattoppata con i nomi delle proprie band preferite, non si rassegna agli anni che scorrono e resta irrimediabilmente legato ai magici anni ’80. Gli anni in cui il metal si faceva sudando nei garage, in cui aleggiava una magia più sana ad ogni uscita di un nuovo disco, svanita completamente con l’avvento di internet e del download. Tra queste band ci sono gli Stormwarrior. Giovani, tedeschi, pupilli del folletto del power Kai Hansen (su di loro, egli disse: “They have the fire!”), hanno partorito negli anni una serie di uscite discografiche dal suono fortemente ancorato all’heavy-power metal puro e crudo degli anni ’80: chitarre serratissime su ritmiche forsennate di doppia cassa, nessuna tastiera e giusto qualche coro per sottolineare l’ambientazione vichingo-pagana che, da sempre, accompagna i loro lavori. L’ultimo album è Heading Northe, del 2008, un piccolo capolavoro di speed-power incandescente ed infuocato, sorretto da una produzione sporca ma potente, lontana dalle pomposità sonore delle produzioni più moderne. Quest’album arriva dopo i primi due buoni esempi dell’esordio omonimo Stormwarrior e del successivo Northern Rage, due album crudi, veloci ed evocativi. E’ tempo anche per loro di sfornare un nuovo album, il qui recensito Heathen Warrior. Immutate le tematiche, immutato lo spirito e lo stile del songwriting, ma qualcosa inizia a vacillare. Heathen Warrior è infatti un album che potrà piacere a chi ama particolarmente la band o chi ama questo tipo di sonorità, ma, obiettivamente, presenta un indebolimento di idee e di ispirazione rispetto ai precedenti album. Il susseguirsi dell’ascolto ci porta, in molti casi, ad imbatterci infatti in soluzioni musicali che, spesso, odorano di inconcludenza o di forzatura e questo aspetto, purtroppo, si ripercuote parecchio sulla bontà dell’album, che, quindi, risulta privo di idee giuste e concrete, quelle idee che avevano fatto grande il mitico Heading Northe. La forza della band sta nel saper trasmettere sudore e passione attraverso i riff taglienti e granitici, batteria sparata a folli velocità, attraverso una produzione volutamente scarna ed essenziale. Pertanto, non ci si deve aspettare l’obiettivo dell’originalità dal combo tedesco: sono una band nata per far rivivere il fervore e lo spirito che animava il vecchio metal di più di trent’anni fa, uno spirito di fondo che mai potrà svanire sotto le sabbie del tempo, finché ci saranno gruppi come gli Stormwarrior.


Track By Track:

Come da miglior tradizione, ad aprire le danze di questo Heathen Warrior ci pensa un breve intro di una cinquantina di secondi, “...Og Hammeren Haeves Til Slag...”, introduzione dai toni epici ed oscuri. Nulla di trascendentale o particolarmente innovativo, ma ben calato nel suo unico scopo di introdurci nel campo di battaglia. L’opener, come per l’album precedente, è la title-track, “Heathen Warrior”. Se “Heading Northe” era un pugno nei denti, questa song né segue le orme senza tuttavia brillare come la sua gemella di 3 anni più vecchia. Veniamo travolti da una mitragliata di doppia cassa e precisi inseguimenti chitarristici. Tuttavia, nonostante l’ispirata sezione d’assoli nella parte centrale, le strofe stesse iniziano già a ricalcare riff e strutture già troppo ripetute nella musica dei quattro tedeschi di Amburgo, il ritornello non riesce a colpire nel segno ed il brano perde spessore. Non la migliore delle partenze quindi. Già la successiva “The Ride Of Asgard” risolleva le sorti: un roccioso riff di veloce hard-heavy metal apre la canzone, indirizzandola verso strofe accattivanti, fino al refrain in perfetto stile Stormwarrior. Come ci hanno ormai da tempo abituato, anche per questa song i solos nella parte centrale del brano sono decisamente curati ed ispirati, alternati tra sprazzi in classico true heavy metal style ed altri più melodici ed sapientemente armonizzati. “Heirs To The Fighte” è un altro discreto brano di puro e pesante power metal incontaminato. Il brano si assesta sui ritmi di una veloce cavalcata impazzita. Accattivanti le strofe ed il bridge rallentato, ma il ritornello non presenta grandi idee e non riesce a catturare l’attenzione. I solos non spiccano, ma la parte centrale risulta comunque abbastanza ispirata, nel complesso. L’attacco velocissimo di “Bloode To Bloode” non concede respiro. In questa speed song, altra potenziale killer-hit dal vivo, troviamo probabilmente il peggio di Heathen Warrior. Il tappeto infinito di doppia cassa della song, infatti, porta sul groppone riff troppo serrati, con poche concessioni melodiche, e ritornelli troppo stantii, manifestando idee ritrite ed arrangiamenti privi di mordente. La song prosegue su queste coordinate per 4 minuti e mezzo, tanto basta per annoiarsi in fretta. Più godibile la seguente “Fyre & Ice”, maggiormente orientata su binari heavy. Questo buon brano, dal tiro assicurato, prende forza nelle parti melodiche in fase d’assolo, negli hard rockeggianti riff iniziali e nell’aggressivo e graffiante refrain. Sembra davvero di tornare alle atmosfere metalliche degli anni ’80. Il metallo scorre a profusione con “The Return”, dotata di una buona partenza e di un ritmo in doppia cassa non particolarmente speed. Peccato che il brano si perda troppo facilmente in strofe e bridge che ricalcano strutture melodiche banali e decisamente prive di inventiva. Per lo meno si salva il ritornello, che dà un tocco di freschezza alla tracklist, presentando delle tonalità più solari ed ariose, anche se, nell’effettivo, risulta essere troppo poco incisivo. Il resto è un susseguirsi di riff dal sapore già spesso sentito nell’ambiente heavy-power e, quindi, trascurabile. Stessa sorte per “Wolves Night” che alterna dei brevi buoni momenti a riff e strutture poco accattivanti, per non parlare di un ritornello decisamente scialbo e piatto come una tavoletta. Dove sono finiti i super refrain di “Remember The Oathe”, “Heading Northe”, “Valhalla” e via discorrendo? Certo, tutti chorus non particolarmente originali e decisamente estrapolati dai territori del metallo fatto di pelle e borchie, ma dannatamente coinvolgenti ed accattivanti. E qui in Heathen Warrior pare non essercene neanche l’ombra. Pertanto, anche questa song altro non fa che togliere validità ad un disco già troppo minato. La partenza super-speed di “Ravenhearte” ci fa respirare finalmente aria buona, consegnandoci il brano più riuscito del platter. Questa mazzata in pieno volto non fa prigionieri: attraverso un tappeto incessante di doppia cassa, in soli 3 minuti, gli Stormwarrior ci donano una song degna dei loro album precedenti, dal ritornello finalmente preciso e ficcante e con una micidiale sezione di guitar solos. Quindi abbiamo tra le mani un buonissimo brano, dove, certamente, non spicca l’originalità, ma almeno ritorna in auge quello spirito aggressivo e trascinante che ha fatto grandi gli Stormwarrior dei primi 3 dischi. I guerrieri tedeschi, dopo l’affascinante “The Revenge Of Asa Land” del precedente full-lenght, riprovano l’esperimento del mid-tempo, inserendo nel disco “The Valkyries Call”: brano obiettivamente meno riuscito e meno evocativo rispetto alla song appena citata, ma degno comunque di nota per una certa originalità nelle armonie. Tra riff più scontati e melodie più convincenti, a fine ascolto resta almeno una discreta sensazione, ed in fondo è chiaro che se gli Stormwarrior, in questo album, avessero portato alla luce tutte le loro reali potenzialità, invece di seguire a tutti i costi un preciso schema musicale, avrebbero avuto ancora molto da dire. L’ultima traccia del platter, “And Northern Steele Remaineth”, stupisce per la sua introduzione epico-folkloristica, con tanto di delicate chitarre acustiche e flauto in bella evidenza. Sopraggiungono cori ed un veloce tappeto di doppia cassa ad introdurre degli epici riff evocativi, grazie anche ad alcuni lievi inserti di tastiera. Nonostante il refrain non brilli per eccezionale spessore, il brano risulta essere abbastanza azzeccato nel suo incedere, anche se va detto che le solite strutture si ripetono un po’ troppo goffamente, consegnandoci un brano discretamente valido, senza aggiungere particolare gloria o lode ad un album già di per sé spoglio e, spiace dirlo, poco riuscito. Stavolta i guerrieri della tempesta hanno perso una battaglia, ma speriamo non perdano la guerra.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Ahimè, con Heading Northe mi ero praticamente innamorato di questa band, grezza come la malta ma intensa come poche, ed ora, invece, mi vedo costretto a bocciare questa nuova creatura. Dà l’impressione di essere stata creata senza troppo sforzo, cercando semplicemente di imbarcarsi sulle acque stabili dei mari dell’heavy della metà degli anni ’80. Tuttavia, se anche in quest’ambito le cose non vengono fatte bene, si rischia comunque di affondare in maniera inequivocabile. Le solite ritmiche mai troppo elaborate, i soliti taglienti riff di chitarra, le solite linee vocali… questo è l’impasto di base di Heathen Warrior, un mezzo passo falso che speriamo rappresenti solo una virgola nella carriera del combo tedesco. Qualcosa di buono c’è, innegabilmente, ma non basta a considerare troppo valido quest’album. Dal canto loro, questi ragazzi ce la mettono tutta: Alex Guth (chitarra solista) sciorina dei solos che, tutto sommato, nella maggioranza dei pezzi, sono ben costruiti e godibili, ma non reggono con il supporto dei classici accordi serrati e delle già stra-abusate strutture di scuola heavy dei tempi che furono. Il basso di Yenz Leonhardt (già negli Iron Savior), dal 2008 (anno del suo ingresso nella band), è un elemento portante del sound dei tedeschi, capace di impreziosire le linee melodiche con partiture di basso più ricercate e distanti da un più canonico inseguimento delle chitarre ritmiche. Il batterismo di Falko Reshoft è sicuramente valido e dinamico, ma manca della giusta espressività, facendoci sorgere l’emblema di trovarci di fronte ad una drum-machine (giusto per capirsi). Ed infine, che dire delle linee vocali di Lars Ramcke? Da sempre sembrano essere un punto di debolezza degli Stormwarrior ed anche in questo platter non spiccano doti eccellenti, ma solo linee vocali ormai trite e ritrite, condite con ben poca espressività e insufficiente aggressività. Se ciò non bastasse, ci si mette in mezzo anche la produzione: ciò che aveva fatto grande i dischi precedenti, oltre ad una buona dose di idee stuzzicanti, era stata la produzione sporca e graffiante, in accordo con la linea di pensiero e con le influenze stilistiche della band. Ora, pare che quell’aggressività sia andata a farsi benedire, con una produzione smussata dei suoni più taglienti, più pompata e più curata (dovrebbe essere un bene, ma, per una band come questa, ciò è controproducente) e con un mixaggio mal riuscito in cui tendono a spiccare voce, cori e controcanti, soffocando la direttività delle chitarre e la potenza della batteria. A ciò aggiungiamo un’immagine di copertina spenta e priva di particolari intriganti ed otteniamo Heathen Warrior: un nuovo album tanto atteso quanto deludente. Rimandati al prossimo disco.


Tracklist:

01. ...Og Hammeren Haeves Til Slag...
02. Heathen Warrior
03. The Ride Of Asgard
04. Heirs To The Fighte
05. Bloode To Bloode
06. Fyre & Ice
07. The Returne
08. Wolven Nights
09. Ravenhearte
10. The Valkyries Call
11. And Northern Steele Remaineth


Voto: 5,5/10

giovedì 7 luglio 2011

Live Report: DREAM THEATER, Castello Scaligero (Villafranca di Verona), 5-07-2011

Live Report – DREAM THEATER
 (+ Gamma Ray + Anathema)
Castello Scaligero, Villafranca di Verona, 5-07-2011


Annunciato ormai dallo scorso anno, ha fatto tappa anche a Verona il “A Night with Dream Theater” Tour, costituito da sole 3 date, due delle quali proprio nel nostro Paese. 4 Luglio a Roma, e 5 Luglio a Villafranca di Verona, nella suggestiva cornice artistico-culturale del Castello Scaligero, che già un anno fa ospitò il metal con il mitico concerto dei Rammstein (contò addirittura circa 14.000 presenze). Quest’anno i padroni delle scene nel castello veronese sono tre band, il cui accostamento, fin da subito, fa storcere il naso a molti e crea parecchie divergenze tra gli ascoltatori. Gli alternative-prog-rockers inglesi Anathema, i sempreverdi re del power europeo Gamma Ray e i maestri e leaders indiscussi del progressive metal, gli americani Dream Theater, recentemente orfani del fondatore/batterista Mike Portnoy e forti di un nuovo album (“A Dramatic Turn Of Events”) in uscita a Settembre per Roadrunner Records. Sui social network impazzano i pareri: c’è chi verrà solo per i Dream Theater, denigrando completamente gruppi meno tecnici ma di maggior impatto scenico come i Gamma Ray, c’è chi verrà solo per vedere i Gamma Ray, d’altro canto tacciando di eccessiva prolissità il Teatro del Sogno, e c’è pure qualcuno che si presenterà in quel di Verona per gustarsi un gruppo particolarissimo, forse spesso sottovalutato, come gli Anathema. Insomma, il bill è particolarmente divergente, stilisticamente parlando, ma altrettanto succoso, andando incontro a differenti gusti musicali. Divergenze o meno, ciò che si è presentato dinnanzi agli occhi degli spettatori del castello, è stato uno spettacolo ottimo e vario sotto molti punti di vista, con l’unica grave pecca di un suono spesso impastato e poco regolato.
La giornata, nonostante il temporale della notte precedente, è molto calda ed afosa, come ogni buon giorno d’estate che si rispetti, ma, fortunatamente, qualche nuvola saltuaria e qualche folata di brezza fresca aiutano a mitigare in parte il sole cocente e a destabilizzare la cappa di calore estivo. Arriviamo intorno alle tre del pomeriggio, ed il flusso di gente sembra essere ancora scarso. Chiaro che nel lasso di tempo tra Gamma Ray e Dream Theater, il Castello fa tempo a riempirsi per bene, contando alla fine circa 7000-8000 persone (secondo varie fonti, ma è un dato da prendere con le molle). Grazie alla capacità di resistenza del mio bel chitarrista e della sua dolce metà (in coda ben dalle 10 del mattino…grazie Secco e grazie Lola), io e i miei compagni di metallo riusciamo fin da subito ad accaparrarci le prime “file” vicino alla transenna. 

Dopo un’ulteriore attesa di circa 45 minuti, tra panini ben imbottiti e molta, molta acqua, per dovere di sopravvivenza, fanno il loro ingresso sul palco del Castello gli opener della serata, i britannici ANATHEMA. Fronteggiati dai 3 fratelli Vincent, Daniel e Jamie Cavanagh, il sestetto di Liverpool propone al pubblico il suo onirico e sognante prog-alternative rock, pescando brani direttamente dai loro ultimi lavori, il più recente “We’re Here Because We’re Here” e “A Natural Disaster”, con una capatina ad “Alternative 4” (con la song “Fragile Dreams”), accantonando le influenze doom-death dei primissimi dischi. La band riesce a sorprendere e a coinvolgere sapientemente il pubblico, che non disdegna di accompagnare gli inglesi con incitamenti ed accompagnamenti di ritmo a suon di battimani. Tra le esibizioni migliori abbiamo quelle di “Summernight Horizon”, “Fragile Dreams” e la spiazzante “Closer” (dall’incedere quasi dance). Alla fine del breve spazio a loro concesso, restano buonissime canzoni, talvolta sbalorditive per intensità e sperimentalismo sonoro, e una performance davvero efficace, adrenalinica ed emozionante. Bravi. Per me e per molti altri una bella sorpresa, questi Anathema.

 Il pubblico non sembra inneggiare particolarmente il gruppo seguente, ma appena partono le note del classico intro “Welcome”, si ricrede, incitando l’ingresso dei power metallers di Amburgo GAMMA RAY, capeggiati dall’inventore indiscusso del power Kai Hansen. Il quartetto tedesco, da me (e dal Paiuz) particolarmente atteso, dà vita ad uno spettacolo di energico e tuonante power metal. Il feeling è perfetto, e la band appare in gran forma, ad eccezione del drummer Daniel Zimmermann: solito a velocizzare in live brani che già su disco sono particolarmente veementi, nelle prime song offerte al pubblico di Verona sembra non essere particolarmente acceso ed appare quasi stanco (ben più di una bacchetta gli scivola dalla mano), ma si tratta di poca cosa, in quanto si riprende alla grande durante il corso dello show, regalando potenza e gran classe. Il raggio gamma propone numerosi cavalli di battaglia, ripresi dalla loro cospicua discografia (spiccano la più recente “Empathy” dal groove assicurato, l’immortale ed epica suite “Rebellion in a Dreamland”, la surreale “Somewhere Out in Space” con intermezzo di pubblico, l’inaspettata “Gamma Ray” e l’immancabile cover degli Helloween “I Want Out”) ed il pubblico, sempre più numeroso, inizia a scaldarsi a dovere per attendere gli headliner, complice anche la simpatia e presenza scenica del combo. Kai trascina il pubblico con i suoi ficcanti e potenti acuti, Henjo delizia con assoli fulminei ed impressionanti in quanto a velocità e tecnica esecutiva, Dirk si conferma bassista valido e indispensabile alla band e Dan propone ritmi di doppia cassa travolgenti e terremotanti. Dopo l’anima più soft degli Anathema, un concerto come quello dei mitici Gamma Ray era proprio ciò che serviva per scaldare i metallari più accaniti. La band  è,  purtroppo, penalizzata da suoni non all’altezza: troppo elevati basso e batteria, tendenti a soffocare le chitarre. Peccato, perché una performance così avrebbe necessitato di un sound più grintoso. Al di là di questo, i Gamma si riconfermano maestri del power europeo, con un infuocato show davvero memorabile. Fenomenali.

Giunge l’ora X: giusto il tempo di effettuare il cambio palco e, dopo un atipico intro, fanno il loro ingresso i padroni della serata, i DREAM THEATER. L’incipit dello show è affidato alla mitica “Under A Glass Moon”, di quel capolavoro, ormai così distante, dal titolo “Images & Words”. Il susseguirsi dello show è rappresentato da una sorta di “best of”, in cui i nostri progster preferiti si cimentano nel pescare un pezzo per ogni album della loro trentennale carriera. Il più atteso per la prova del fuoco, ovviamente, è il nuovo innesto Mike Mangini, più volte inneggiato a gran voce dal pubblico ed autore di uno stupefacente assolo durante lo show. Come ci potevamo aspettare da un professionista come lui, si dimostra un degno sostituto del pur mitico Portnoy. Manca ancora quel piglio di scioltezza e di movenza, tipica del suo predecessore (per chi se lo ricorda, un vero animale da palco capace di catturare la scena), ma ciò è dovuto probabilmente al fatto che il nuovo Mike deve ancora scaricare la tensione con la sua nuova band. Gli diamo atto che la sua responsabilità ed il groppo che ha preso sulle sue spalle è davvero enorme, pertanto sono sicuro che con il tempo e molti show riuscirà ad integrarsi perfettamente anche sotto questo punto di vista. Tecnicamente parlando, il resto della band è, come al solito, ineccepibile: Petrucci, Myung e Rudess monopolizzano le scene a suon di assoli e virtuosismi da capogiro, confermandoci l’incredibile perizia tecnica della band. Menzione particolare per James LaBrie: davvero in forma e tecnicamente perfetto, non sbaglia una nota regalandoci acuti inappuntabili fino alla fine dello show (strabiliante l’acuto nell’encore finale con la mitica “Learning To Live”). Il pubblico è in visibilio fin dalle prime note, e la band di Boston regala al pubblico sublimi perle come la lunga e variegata “Endless Sacrifice”, la gustosa “Fatal Tragedy”, la melodica e più diretta “Forsaken”, passando anche attraverso l’anticipazione del nuovo album in uscita a settembre, quella “On The Backs Of Angels” pubblicata su youtube solo pochi giorni fa ma, a quanto pare, già entrata nel cuore dei fans. A mio avviso, il picco dello show è rappresentato (dopo una falsa partenza con il sample introduttivo, eseguito per errore prima di “Through My Words”) dalla lunghissima suite “The Count Of Tuscany”, dove l’emozione tocca il suo apice negli intensi e melodici minuti finali, regalandoci una perfetta esecuzione di un brano davvero pregevole, nel corso del quale non mancano le occasioni di sentire un’involontaria pelle d’oca sulle braccia. L’encore finale, come già detto, è affidato alla sempreverde “Learning To Live”, eseguita in modo magistrale sotto tutti i punti di vista. A parte qualche sorvolabile piccolo errore qua e là durante l’esecuzione (insomma, anche loro sono umani!), i maggiori difetti riscontrabili sono ancora un suono non perfettamente all’altezza e qualche momento all’interno della setlist in cui l’attenzione scema un po’, a causa di brani le cui partiture sono fin troppo tecniche e, quindi, di meno immediata assimilazione (“The Great Debate” ne è l’esempio più lampante). Pur pescando sapientemente da ogni capitolo discografico alle loro spalle, al termine dell’immenso show viene da chiedersi: dove sono finite intramontabili hit come “Pull Me Under”, “Metropolis”, “The Mirror”, “The Spirit Carries On”? Al di là di questo, i Dream Theater regalano, quindi, a Villafranca un concerto memorabile, anche per l’eccezionalità dell’evento in una città come Verona, poco abituata a concerti interamente dedicati al metal.  
A giornata conclusa, resta la musica e la personalità di tre validissime band (Gamma Ray e Anathema, tra l’altro, si rendono disponibilissimi per foto ed autografi alla fine dello show; davvero lodevole!), che con la loro diversità stilistica hanno donato al (non troppo numeroso) pubblico veronese una giornata semplicemente appagante per tutti i gusti. Perché, al di là delle diversità musicali, si è comunque trattato di un concerto che ha unito circa 8000 persone all’insegna dell’ottima musica e, sinceramente, questa è la cosa che conta di più, con la speranza di riavere anche la prossima estate qualche ottimo metal-gig per intrattenere i metalheads veronesi, nella sublime cornice del Castello Scaligero.



Setlist ANATHEMA:

01. Thin Air
02. Summernight Horizon
03. Everything
04. A Natural Disaster
05. Closer
06. Flying
07. Fragile Dreams


Setlist GAMMA RAY:

01. Gardens of the Sinner
02. New World Order
03. Fight
04. Empathy
05. Gamma Ray
06. Rebellion in Dreamland
07. I Want Out (Helloween cover)
08. To the Metal!
09. Somewhere Out in Space
10. Send Me a Sign


Setlist DREAM THEATER:

01. Under A Glass Moon
02. These Walls
03. Forsaken
04. Endless Sacrifice
05. Drum Solo
06. The Ytse Jam
07. Peruvian Skies
08. The Great Debate
09. On The Backs Of Angels
10. Caught In A Web
11. Through My Words
12. Fatal Tragedy
13. The Count Of Tuscany
14.
Learning To Live

mercoledì 6 luglio 2011

SERENITY - Death & Legacy


Quando la Storia e la Musica si incontrano…

Nome Album: Death & Legacy
Etichetta: Napalm Records
Data di uscita:25 Febbraio 2011
Genere: Symphonic/Power Metal

Introduzione:

Ebbene si, anche la timida Austria, terra di Mozart e della musica classica, è in grado di regalarci grandi band di ottima caratura e qualità. E’ il caso dei Serenity, gruppo ancora troppo sconosciuto presso il grande pubblico, ma che sta ampiamente guadagnando consensi a destra e a manca, compreso il nostro Bel Paese, freschi anche di un recente tour di supporto ai Delain che ha fatto tappa anche all’Alcatraz, in quel di Milano. L’ascesa dei Serenity prende le mosse da Words Untold & Dreams Unlived (pubblicato nel 2007), ed è subito chiaro l’intento della band, ovvero quello di suonare del buon e sognante power-symphonic metal. Il primo lavoro è incentrato maggiormente su linee power rispetto ai due album successivi, ma già inizia seriamente a slegarsi dai cliché del genere, proponendo inserti molto ricercati, ricamati da vari passaggi progressivo-sinfonici. Niente male come inizio, bissato due anni dopo dal capolavoro Fallen Sanctuary, dove i ritmi rallentano leggermente ed il sound si fa decisamente più sinfonico ed evocativo. Iniziano sempre più a delinearsi certi trademark della band, su tutti la voce di Georg Neuhauser, lontana dal classico power-singer, pendendo verso un range vocale meno esteso ma ricco di teatralità e molte sfumature. 3 anni dopo rieccoli calcare i palchi europei con il loro fatidico terzo full-lenght dal titolo Death & Legacy. Da un lato, i Serenity non aggiungono nulla di nuovo a quanto la scena abbia già visto negli ultimi anni (e non ne hanno nemmeno la pretesa), dall’altro tutti gli elementi ormai tipici della band vengono ripresi ed amalgamati in 16 brani che (con poche eccezioni) trasudano emozione e brillano di un’elegante perizia compositiva, abbastanza rara al giorno d’oggi. Il contenuto lirico dell’album, forte delle conoscenze di Georg (laureato in storia moderna) e di un imponente lavoro di documentazione, si snoda attraverso una sorta di affascinante concept, dove, in ogni brano, troviamo testi incentrati su diversi personaggi ed avvenimenti storici (come già fecero gli Iced Earth su The Glorius Burden): questo rende ancora più valore ad ogni singolo brano, ed è una di quelle cose che riempie di orgoglio noi metallari. Musicalmente parlando, ci ritroviamo di fronte ad un proseguimento di Fallen Sanctuary, in quanto a tipi di sonorità prettamente sinfoniche, ma sembra che i nostri sciorinino una maggiore aggressività, attraverso alcuni azzeccati riff di chitarra sparsi qua e là lungo il corso dei brani. Se proprio è necessario trovare dei riscontri stilistici con altre band, possiamo affermare che i Serenity rappresentano un riuscito connubio tra l’eleganza dei Kamelot e la delicatezza sinfonica dei Nightwish, non disdegnando un certo piglio aggressivo ed accattivante. Pregevoli inoltre le partecipazioni femminili di cui Georg si è servito e di cui parleremo in seguito. Insomma ci sono molte song, un sacco di carne al fuoco e ci sono tutti gli ingredienti essenziali per potersi godere un buonissimo album di pregevole symphonic metal e di una giovane band meritevole di successo e notorietà accanto ai mostri sacri del genere (Kamelot, Nightwish, Rhapsody Of Fire ecc…). Non ci resta che tuffarci nella storia con i Serenity!


Track By Track:

Il consueto intro d’apertura è la breve strumentale “Set Sail To”, che non presenta nient’altro che vaghi suoni di un’epica battaglia in mezzo al mare. Il disco parte subito in quarta con il primo brano d’apertura “New Horizons”: riff aggressivi vengono accompagnati da pompose orchestrazioni e si alternano sapientemente con alcune strofe delicate e prive di distorsioni di chitarra, fino al sinfonico refrain con delle splendide aperture melodiche e vocali. Buona la parte intermedia del brano e notevole il solo di chitarra, elemento decisamente più marcato in fase di mixing, in questo nuovo album rispetto al passato. Con questo buon brano, le coordinate stilistiche di Death & Legacy sono state già tutte presentate, ma il meglio deve ancora arrivare. Il primo singolo, con annesso video in stile gotico/storico, è “The Chavelier”, un altro ottimo brano dal classico suono “serenitiano”. Qui abbiamo la prima sorpresa del disco, la voce femminile di Ailyn, singer dei gothic metallers Sirenia. Il brano, dopo un’introduzione sinfonica, ha un incedere lento e corposo, dal groove accattivante ed assicurato, grazie anche alle chitarre a 7 corde. Ottimo l’arrangiamento, le melodie ed il super refrain, che fanno di questo brano uno dei migliori di D&L. La prestazione vocale di Ailyn non brilla per notevoli capacità sopra la media, ma è comunque apprezzabile. Aumenta la velocità con “Far From Home”, che esplode in un turbinio di doppia cassa e strumenti classici impazziti. Siamo di fronte ad un altro splendido brano, dove spiccano ancora gli arrangiamenti orchestrali, sempre più ricercati e perfetti, e gli intrecci chitarristici davvero notevoli. Il ritornello del brano risulta essere leggermente meno ispirato rispetto al resto della song, ma, ad ogni modo, tutti i pezzi concorrono al perfetto incastro, rendendo l’ascolto davvero gradito e stuzzicante. “Heavenly Mission” ha un entrata più possente e sinfonica e ben rappresenta il tema trattato (le Crociate). In questo sano mid-tempo troviamo i classici elementi musicali che hanno fatto grande il predecessore Fallen Sanctuary: tanta tanta melodia emozionante, orchestra ambiziosa e prepotentemente incessante, riff di chitarra più aggressivi, ritornello azzeccato e groove assicurato. Nel procedere delle danze ci imbattiamo in “Prayer”, una semplice preghiera di un minuto narrata in spagnolo da una voce femminile, accompagnata da un lievissimo tappeto corale. Nonostante si tratti solo di un intermezzo, resta comunque un’idea originale per introdurre l’epica “State Of Siege”: i primi due minuti sono dedicati ad un inno di battaglia con tanto di violini, marcetta di batteria e lievi sinfonie in crescendo. Aggressivo il successivo attacco di batteria e chitarre, che fanno da tramite per una splendida melodia sinfonica che ritroveremo anche nell’ottimo, ma non originalissimo, refrain. Ecco, tra l’altro, ricomparire lievi strofe, lente e corpose, con tanto di pianoforte in bella vista. Ad ascolto concluso, non possiamo che definirlo come un buon brano, anche se piuttosto classico e meno ricercato rispetto ad altri ottimi brani presenti nel platter. Proseguiamo il percorso storico con uno dei picchi più alti dell’album, se non uno dei più alti raggiunti fin qui dai Serenity: la ballad “Changing Fate”. Questo lento brano, accompagnato quasi interamente da chitarre acustiche, trova i suoi punti di forza nel melodico ed emozionante refrain, negli arrangiamenti riuscitissimi ed originali di chitarra, nell’epica e distorta parte centrale, ma, soprattutto, nella candida voce di Amanda Somerville (la bionda singer degli Avantasia). La sua voce splendida e quella non da meno di Georg si intrecciano, dando vita ad un affascinante duetto. Anche se questa ballad non raggiunge i picchi emotivi della vecchia “Fairytales”, rappresenta comunque una direzione musicale da cui i Serenity escono sempre gloriosamente vincitori. Le sorprese non sono ancora finite, perché il seguito dell’album è affidato a “When Canvas Starts To Burn”, a tutti gli effetti il brano migliore di D&L. La tendenza è quella di dare maggior spazio alle chitarre, che si esprimono attraverso una ragionata aggressività nelle strofe, e meno agli arrangiamenti sinfonici, che qui compaiono meno ricercati e meno solenni rispetto ad altri brani sentiti in precedenza. Ottimo il sognante ritornello ed ottimo l’assolo, bilanciato tra passaggi più tecnici ed altri più melodici ed armonizzati. Di bene in meglio con “Serenade Of Flames”, mid-tempo d’impostazione maggiormente “gothicheggiante”, con dei corposi chitarroni in primo piano supportati da suadenti melodie d’impatto. Ad aggiungere un tocco d’eleganza in più ci pensa la buona prestazione della terza guest star del disco, la rossa Charlotte Wessels (singer dei Delain), ed in effetti, per certi tipi di sonorità ed esecuzione, pare quasi una song creata apposta per sposare la sua voce. Notevoli alcuni guitar riff aggressivi ed il refrain decisamente orecchiabile e mainstream. Tutto ciò consegna agli ascoltatori un brano semplice, ma, allo stesso tempo, efficace e ricco di sfumature. “Youngest Of Widows” apre un set di brani in linea di massima meno ispirati rispetto a quelli fin’ora sentiti. Il brano in questione risulta essere un buon pezzo di metal melodico, ma non v’è nulla al suo interno che riesca a risaltare nel contesto. Il melodico refrain, di facile presa, rappresenta, forse, il meno riuscito del lotto, considerando l’ispirazione generale che aleggia in D&L, pur presentando le solite raffinate orchestrazioni. Carino, ma non trascendentale, lo stacco centrale con relativi guitar-solos. Possiamo perdonare tutto questo ai Serenity, vista la magna qualità finora propostaci nei precedenti 10 brani. “Below Eastern Skies” è un intermezzo piuttosto simpatico ed atipico, comprendente sonorità orientaleggianti che urtano col contesto magniloquente e sinfonico dell’album, ma è azzeccato per presentare ed introdurre “Beyond Desert Sands”, un altro pezzo dove assistiamo ad un lieve calo di fresca ispirazione. Nonostante il rapido attacco piuttosto ficcante e le melodie d’ispirazione arabeggiante, il brano perde forza in un ritornello privo del giusto spessore, rilasciando così una song discreta, ben fatta e ben confezionata, ma meno accattivante rispetto ai brani precedenti. Con una breve introduzione sinfonica inizia “To India’s Shores”, ennesimo mid-tempo sinfonico, semplice nella struttura, ma comunque riuscito e ben fatto grazie ad arrangiamenti e parti orchestrali studiate sapientemente nei dettagli, che, attraverso un crescendo, esplodono nel ritornellone di turno, melodico e corale, intriso di passione ed ispirazione. Ottimo l’assolo di chitarra centrale. Nei testi, come eludibile dal titolo, si narrano le note vicende di Cristoforo Colombo, in viaggio verso le coste dell’India. Galileo Galilei è invece protagonista della chiusura dell’album, affidata in primis all’intermezzo “Lament”: un breve e sorprendente monologo recitato in lingua italiana (!) da Fabio d’Amore (l’attuale bassista dei Serenity, entrato ufficialmente nella band subito dopo la registrazione dell’album), intriso di teatralità ed entusiasmo. Intermezzo che apre le porte all’ultimo capitolo di D&L, la raffinata “My Legacy”. L’ottimo incipit di pianoforte ci introduce ad un tappeto di doppia cassa che fa da supporto a potenti e variegate orchestrazioni e a ricercati chiaro-scuri, tra incursioni acustiche e ripartenze metalliche. Ancora una volta notevole la parte mediana del brano e i guitar solos, sempre in bilico tra melodia e tecnicismi più elaborati (lontani, comunque, da virtuosismi prog o quant’altro). Nonostante il refrain non sia particolarmente fresco, la band ci consegna comunque un altro buonissimo brano che chiude in maniera degna questo nuovo lavoro davvero meritevole. Ad ascolto concluso, sembra proprio che la serenità splenda sui nostri volti.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Pollice in su per i nostri vicini di casa austriaci. I Serenity riescono a regalarci un piccolo gioiello di metal sinfonico, un genere, oggi, fin troppo abusato ed in continuo fermento, ma che, di tanto in tanto, riesce a partorire dei prodotti davvero interessanti. Death & Legacy non è un album originalissimo, è meno immediato rispetto a Fallen Sanctuary e necessita di più ascolti approfonditi, ma è più complesso, costruito con maggior perizia e ha in sé un’intrinseca freschezza ed eleganza compositiva che lo rendono particolarmente godibile e molto piacevole. Non è esente da lievi limiti, ovviamente, come per esempio un’eccessiva prolissità dello stile tipicamente sinfonico (dovuto anche ad una pretenziosa tracklist) e, certamente, una maggiore varietà stilistica tra una song e l’altra non avrebbe guastato, anche se alcuni inserti e riff maggiormente rocciosi ed aggressivi aiutano sapientemente nello spezzare le magniloquenti sonorità dell’album. La produzione, pulita e grintosa, aiuta a godersi quest’album nota per nota. Rispetto all’album precedente, infatti, vengono messe maggiormente in risalto le orchestrazioni, arrangiate in modo sublime. Non si tratta di un’orchestra tipicamente d’accompagnamento o con intenti “cinematografici”: spesso è un’orchestra diretta ed incisiva, pronta a sottolineare ogni passaggio, uno strumento essenziale per la riuscita dei brani, e ciò rende le song dinamiche e non stantie. Oltre a ciò, è da segnalare come le ritmiche risultino variegate e quasi mai banali nella loro costruzione, complici la sezione ritmica creata dalla colorita batteria (finalmente corposa rispetto al precedente FS) e dalla chitarra di Thomas Buchberger, macinatore di ottimi riff ed autore di splendidi solos, curati e messi maggiormente in risalto rispetto ai full-lenght precedenti. La voce di Georg, come sempre, completa ed irrobustisce il sound del quintetto. Il suo timbro spesso è paragonato a quello del ben più noto singer dei Sonata Arctica, Tony Kakko. A mio avviso, al di là di una solamente lieve somiglianza di timbro vocale, Tony è dotato di maggior estensione ed aggressività, mentre Georg punta maggiormente alla delicatezza, all’eleganza d’esecuzione e alla teatralità interpretativa (Kamelot docet), donando un tocco di originalità ed un trademark al sound della band. A tutto ciò aggiungiamo un’interessante immagine di copertina, un concept lirico di tutto rispetto ed abbiamo così un piccolo capolavoro del 2011, da parte di una band che ci auguriamo possa presto raggiungere l’ambita notorietà, al di là dei confini europei.


Tracklist:

01. Set Sail To
02. New Horizons
03. The Chevalier
04. Far From Home
05. Heavenly Mission
06. Prayer
07. State Of Siege
08. Changing Fate
09. When Canvas Starts To Burn
10. Serenade Of Flames
11. Youngest Of Widows
12. Below Eastern Skies
13. Beyond Desert Sands
14. To India’s Shores
15. Lament
16. My Legacy


Voto: 8,5/10