sabato 31 dicembre 2011

IRON SAVIOR - The Landing

Garanzia a vita per il power tedesco…

Nome Album: The Landing
Etichetta: AFM Records
Data di uscita: 18 Novembre 2011
Genere: Power Metal

Introduzione:

E’ tempo per un nuovo disco anche per uno dei guru della scena power tedesca, tale Piet Sielck, mente e fondatore (assieme a certi Kai Hansen e Thomas Stauch) degli Iron Savior, band di puro power, 100% teutonico, con sette album alle spalle in 15 anni di esperienza; anni vissuti spesso sotto l’ombra dei ben più famosi Gamma Ray, dei quali condividono il genere musicale potente e graffiante, ovvero quell’heavy-power metal tedesco d’influenza ottantiana che viene sfoderato nota dopo nota anche in questo nuovo The Landing. Dopo molti album assestati sempre su una qualità decisamente positiva, ma nella media del genere, come Condition Red (2003) o Unification (1998), il master mind Piet torna sul mercato con un album dove le coordinate classiche rimangono inalterate, ma in cui allo stesso tempo si può godere di una buona capacità, da parte del leader stesso, nell’azzeccare un songwriting rapido ed immediato, ricco di soluzioni melodiche, di riffing accattivante, vocals ruvide e corpose, senza il rischio di tediare l’ascoltatore. Pertanto, gli Iron Savior se ne escono con un buonissimo disco che rinnova le indubbie capacità della band, rappresentando un prodotto valido nel caotico calderone (business) del power metal europeo. Già guardando la bella copertina, l’accostamento immediato che viene in mente è quello del capolavoro Somewhere Out in Space dei “cugini” Gamma Ray, datato 1997, ed in effetti anche all’ascolto si ravvisa qualcosa di quel disco (comprese le tematiche a sfondo fantascientifico, da sempre una fissa sia per Iron Savior sia per Gamma Ray), oltre a contaminazioni dal sound dei conterranei Blind Guardian; quindi, a conti fatti, siamo di fronte ad un album che integra tutte le personalità musicali dei fondatori stessi della band (per chi non lo sapesse Kai e Thomas sono rispettivamente il cantante/chitarrista dei Gamma Ray ed l’ex-batterista dei Blind Guardian), pertanto gli amanti del power teutonico non potranno non apprezzare questo disco, così come hanno apprezzato gli altri capitoli della discografia di Savior, Gamma, Helloween, Blind e compagnia bella. Mettete il disco nello stereo della vostra auto, accendete il dispositivo, alzate il volume: godetevi l’adrenalina sprigionata dagli Iron Savior. 


Track By Track:

Anche se gli Iron Savior non sono soliti ad introduzioni nei loro album, questa volta tocca proprio ad un’intro il ruolo di apertura dell’album. La breve “Descending” ci introduce quindi in The Landing, tra suoni ed atmosfere dal sapore fantascientifico e solenne. Nella sua semplicità, riesce a rivelarsi un discreto incipit che ci trasporta immediatamente al roccioso heavy metal della vera e propria opener “The Savior”, da cui è stato tratto anche un (trascurabile) videoclip. I riff hanno un sapore decisamente metallico e dal tiro garantito, godendo di ritmiche heavy piuttosto stra-abusate ma sempre piacevoli, aiutate dalla roca voce di Piet, migliorata e personalizzata molto nel corso degli anni. Il buon ritornello (perfetto per i live) e le melodie equilibrate ci consegnano un brano piacevole, ma forse troppo inquadrato negli standard del genere. Il resto dell’album gode di una qualità compositiva decisamente più interessante, come già ci dimostra l’highlight del disco: “Starlight” inizia infatti a far capire la pasta degli Iron Savior e l’adrenalina comincia a rodare nel modo giusto. La batteria infuria su ritmiche power velocissime, supportate da chitarre graffianti e melodie vincenti, per poi sfociare in un ritornello tra i più belli di questo 2011: epico, corale, veloce, potente come pochi. Su tutto, primeggia l’ottima performance vocale del singer Piet, donandoci, assieme ai bei solos di chitarra, un piacevole e sempre ben gradito retrogusto dei primi Blind Guardian. Nonostante la struttura non faccia gridare al miracolo per l’originalità, sono proprio i brani come questo, i brani che trasmettono potenza positiva, a tenere alta la bandiera del power teutonico; quindi, godetevi questa martellata melodica ad alto volume e godetene. Spettacolo. Le ritmiche tornano a farsi più heavy-oriented, supportate da una velocità sempre sostenuta, nella anthemica “March Of Doom”, un ottimo brano tipicamente heavy-power europeo, i cui punti di forza sono lo stupendo refrain, energico e potente, le azzeccate scelte melodiche ed ancora una volta la graffiante voce di Piet. Ben fatti i solos di chitarra, mai troppo complessi tecnicamente ma sempre corredati da un ottimo gusto melodico con tanto di abbondanti armonizzazioni. Gli amanti di queste sonorità non potranno non apprezzare questo brano davvero riuscito. Dopo questa superba doppietta, anche per i Savior è il momento dell’inno alla nostra musica preferita: se i Gamma Ray hanno composto le discrete “Heavy Metal Universe” e “To The Metal!”, se gli Helloween epoca Kai (ma guarda un po’) hanno scritto uno dei simboli dell’heavy-power, tale “Heavy Metal Is The Law” (e l’elenco potrebbe protrarsi all’infinito), Piet e soci ci sbattono in faccia un titolo che, al pari dei menzionati, non potrebbe essere più rappresentativo: “Heavy Metal Never Dies”. Spesso, al giorno d’oggi, in questo tipo di “inni” metallici c’è sempre il forte rischio di cadere giocoforza in una serie di soluzioni musicali per le quali l’aggettivo “banale” è spesso un eufemismo. Non fa troppa eccezione la song in questione, che ci presenta dei riff granitici con un incedere marziale dettato da basso e batteria. La strofa e il bridge risultano ben confezionati e sufficientemente accattivanti, ma è nel refrain smaccatamente ruffiano e ottantiano che la carica iniziale si perde nei meandri. Insomma, per farla breve, è una canzone che come tante si fa semplicemente ascoltare con piacere, ma di certo non rimarrà particolarmente impressa nella storia. Per fortuna, sulle note di un basso e sull’incalzare di una veloce batteria, torna il power marcato Iron Savior con “Moment In Time”, una speed song dai tratti che richiamano in più di un frangente i fasti dei Blind Guardian meno complessi e più diretti di Imaginations From The Other Side (evidentemente l’esperienza di Piet nei Savage Circus deve aver esercitato un peso non indifferente nel suo modo di intendere il power). Il bel ritornello diventa il punto di forza di una canzone semplice e melodica, come vuole la più classica delle tradizioni, corredata da buoni e gustosi interventi solistici e qualche lieve inserto elettronico di tastiera. Ritmiche marziali di un puro heavy metal si fanno notare nella maestosa “Hall Of The Heroes”: un mid-tempo semplice ma efficace, dotato di un gran bel refrain da cantare con corna al cielo. Le linee vocali ed i cori, così come gli inserti elettronici di tastiera, funzionano alla perfezione, donando un tocco di personalità maggiore ad un brano validissimo, ma che strutturalmente si assesta comunque negli standard del genere. Dopo quest’ottimo esempio di heavy metal teutonico, è il momento della scanzonata e stradaiola velocità di “R. U. Ready”, un brano decisamente orientato verso l’hard rock nelle varie strofe e nel bellissimo refrain. La musica si accompagna perfettamente ad un testo acceso ed inneggiante al mondo del rock (viene ripetuta varie volte la frase “are you ready ro rock?”, oltre a citazioni di titoli di canzoni simbolo del rock). Una canzone che difficilmente può lasciare indifferenti, per via di classiche sonorità che tutti noi metallari abbiamo amato ed amiamo tutt’ora e con cui siamo cresciuti negli anni ’80-’90. Si continua a pestare sull’acceleratore, come si intuisce già dal titolo, con “Faster Than All”, introdotta da un veloce riff heavy metal. Su un gran lavoro di batteria, si stagliano riff aggressivi ed intense melodie di chitarra che conducono ad un ritornello carico di pathos ed adrenalina, come ormai i Savior ci hanno abituato durante l’ascolto di The Landing. Perfetto il guitar solo, che convalida un altro ottimo brano uscito dalla penna di Piet. Poteva forse mancare il lento in un album power? Certamente no, ed i Savior non si risparmiano nemmeno in questo campo, regalandoci un’ottima power-ballad di innegabile intensità nelle scelte melodiche, nonostante una struttura semplice e lineare. “Before The Pain” colpisce nel segno ed ottempera a quanto si è preposta, ovvero saper emozionare e dare la giusta carica positiva (del resto, power metal significa proprio questo). Gli Iron Savior non disdegnano qualche lieve richiamo alle atmosfere dei compagni Gamma Ray, soprattutto negli arpeggi e nella melodia, conducendoci ad un ritornello carico di pathos e sentimento musicale, esaltato dalla buona espressività vocale di Sielck. Stupendo, nella sua semplicità, è l’incedere finale, con profusione di cori e tanta rabbia malinconica nelle aspre e potenti vocals del singer. Dopo questa piccola perla melodica, l’imprevedibile finale è affidato all’hard rock stradaiolo di “No Guts, No Glory”: quest’ultimo brano ci presenta dei riff accattivanti e rockeggianti, dove l’adrenalina scorre a mille, alternati ad un bellissimo ritornello da cantare a squarciagola, zuccheroso e positivo come mai prima d’ora all’interno dell’album, ricordandoci l’happy metal dei Freedom Call (tedeschi pure loro). Un brano perfetto per esaltarsi e per ritrovare la giusta carica in un momento di difficoltà. A questo serve la musica, a questo serve il power metal…e gli Iron Savior  riescono perfettamente in questo intento. Chiudono l’edizione limitata due bonus tracks, ovvero i vecchi brani “Coming Home” e “Atlantis Falling” ri-registrati e re-interpretati dai Savior del 2011: il risultato è decisamente ottimo e gradevole, in quanto le nuove edizioni risultano essere ancora meglio rispetto alle originali. Due chicche che sigillano un disco consigliatissimo, d’obbligo per gli amanti del power.
    

Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Chi vuole il power puro ed essenziale non può non dare un ascolto all’ultimo lavoro degli Iron Savior. Le strutture dei brani non spiccano per originalità o per complessità musicale esagerata, ma il lavoro svolto da Piet e compagni si concretizza in un metal onesto, avvincente e carico di potenza adrenalinica, grazie a ritmiche veloci e possenti, riff granitici e montagne di melodia. Inoltre i brani sono ben bilanciati all’interno della tracklist e sufficientemente eterogenei da non annoiare l’ascoltatore, tra brani tipicamente power in doppia cassa, altri più tendenti all’hard rock, ballad, inni heavy metal e quant’altro. Credo che da un lavoro di questo genere non si possa pretendere molto di più. Su tutto, è da segnalare l’ottimo lavoro alle vocals da parte del leader Piet Sielck, dotato di una voce ruvida ed energica e di una buona estensione vocale; tutto ciò gli permette di essere espressivo ai massimi livelli, alla stregua del suo collega conterraneo Hansi Kursch (Blind Guardian) e di Jens Carlsson (Savage Circus, Persuader). Anche il suo riffing di chitarra, assieme all’operato del collega Joachim Küstner, risulta convincente, così come i suoi solos, dotati di gusto melodico e di un’impronta “rock”, emotiva, senza eccedere in troppi tecnicismi, francamente non indispensabili nella musica della band. Infine, l’operato ritmico si fa notare per un’ottima precisione ed un suono robusto e possente, soprattutto da parte della batteria di Thomas Nack, un batterista perfetto per i Savior, attivo e dinamico, dal gusto tutt’altro che banale, pur nella sua semplicità. Thomas è ben supportato dal basso di Jan-Sören Eckert, bassista lineare nell’esecuzione, ma essenziale per il groove sprigionato dai brani del disco. Tutto questo, assieme ad una produzione ruvida ed estremamente potente e ad una bellissima immagine di copertina (come sempre, di stampo fantascientifico), caratterizza The Landing, un album ricco di pathos e di potenza, probabilmente migliore di tutte le precedenti uscite targate Iron Savior. Complimenti dovuti a Piet e soci: anche grazie a loro, il power metal europeo continua ancora a vivere e a resistere, dinnanzi agli stereotipi più pomposi e pacchiani del genere.


Tracklist:

01. Descending
02. The Savior
03. Starlight
04. March Of Doom
05. Heavy Metal Never Dies
06. Moment In Time
07. Hall Of The Heroes
08. R.U. Ready
09. Faster Than All
10. Before The Pain
11. No Guts, No Glory


Voto: 8/10

domenica 25 dicembre 2011

THEOCRACY - As The World Bleeds


Quando si dice ispirazione divina…

Nome Album: As The World Bleeds
Etichetta: Ulterium Records
Data di uscita: 25 Novembre 2011
Genere: Power Progressive Metal

Introduzione:

Quale momento migliore della settimana di Natale per scrivere la recensione di una delle migliori band di christian power metal? Sul finire dell’anno, tornano a distanza di tre anni dal magnifico predecessore Mirror Of Souls, i Theocracy, band dalla fervente e mai nascosta fede cristiana, vero motore delle intense liriche e dei suoni della band. In pochi conoscono questo meritevole quintetto americano: i Theocracy nascono nel 2002, come one-man-band del solo leader Matt Smith che si cimenta nei panni di compositore, chitarrista, cantante, bassista, tastierista, programmatore (drum-machine) e produttore dell’esordio omonimo, nell’anno successivo. Questo grezzo, ma affascinante, affresco musicale si fa notare non poco nella scena white metal statunitense; da one-man-band i Theocracy diventano una solida realtà, dando vita nel 2008 al seguente Mirror Of Souls: il nuovo capitolo, questa volta, è registrato in un vero studio, con suoni puliti e produzione raffinata e vede Matt prodigarsi nel solo ruolo di singer. Successivamente, la band acquista il bravo Val Allen Wood alla chitarra solista, completando così l’organico e dando vita, nel 2011, a questo nuovo As The World Bleeds, intrigante conferma artistica di una band che meriterebbe molta più notorietà nell’ambito del power mondiale. Come sappiamo bene, la fede cristiana, per subdoli motivi, ha sempre rappresentato una sorta di ostacolo per il successo delle metal band, rappresentando un genere orgogliosamente di nicchia; è un vero peccato, perché lavori come MOS o questo ATWB trasudano power metal di stampo chiaramente europeo (nonostante la loro nazionalità d’oltreoceano), infarcito di molte melodie, inserti progressive, folk, thrash, black e quant’altro, rappresentando, spesso, qualcosa di molto più originale e meritevole di tante band molto più note nel panorama power. Nonostante ciò, i Theocracy proseguono la loro strada con dedizione e determinazione, rilasciando un album di spessore, ricco di idee, di velocità, di tecnica, di contenuti spirituali, di melodia. Non tutti i brani sono all’altezza della situazione e non mancano alcuni momenti di stallo compositivo, ma As The World Bleeds, nonostante segni un piccolo passo indietro rispetto al precedente ottimo lavoro, riconferma i Theocracy come band di assoluto valore artistico. Se volete la prova che anche Dio sia un fan dell’heavy metal, non disdegnate un ascolto ai Theocracy. 


Track By Track:

Forse uno dei brani migliori finora prodotti dalla mente di Matt Smith è proprio “I Am”, lunga opener di As The World Bleeds. Non poteva esserci modo migliore per introdurre il ritorno discografico della band americana. Gli 11 minuti della song vengono introdotti da alcuni cupi arrangiamenti orchestrali, subito mescolati con partiture folk, chitarre acustiche e con la sempre più matura e riconoscibile voce di Smith. Tutto si amalgama e raggiunge l’intenso refrain, con un’ ottima interpretazione del singer. Le atmosfere si susseguono senza tregua, dall’intensa parte iniziale fino all’acceso folk dell’intermezzo, strizzando l’occhio all’ultimo lavoro degli Edguy. Non mancano momenti più tipicamente prog-metal, a suggellare un’ottima opener che, da sola, vale l’acquisto del disco. La seguente “The Master Storyteller” ci riporta sui binari più tipici del power europeo, dove le strofe godono di linee vocali originali e ficcanti, rendendo il brano particolare. Non troppo innovativo è invece il refrain, dove però sono, ancora una volta, le vocals a dare maggior spessore al tutto e rendendo il brano graffiante ed acceso. Refrain ripetuto ed alzato sul finale, come vuole la tradizione europea, e giunge il turno di “Nailed”: nelle melodie, ancora una volta, il riferimento sono gli Edguy, quelli più epici di Mandrake. Le ritmiche godono di potenza, variando velocità più volte e stagliandosi su riff dal taglio thrash metal e su melodie orientaleggianti, fino al solare ed arioso ritornello. Piuttosto classico e sbrigativo è lo scambio solistico di chitarra e tastiera. Tutto sembra funzionare, ma, a lungo andare, il brano perde potenza e scema un po’ nell’anonimato, a causa anche di un finale troppo lungo ed inconcludente. La melodia torna padrona con “Hide In The Fairytale”, ancora una volta un concentrato di quel power europeo che ha fatto scuola a migliaia di band affini. Questo buon brano si segnala soprattutto per un bel ritornellone in cavalcata, ricco di cori e melodie, per un’ottima parte solista e per una perfetta prestazione vocale di Mr. Smith. Puntuale come un orologio svizzero, ecco giungere la (semi)ballatona, immancabile in un disco power. La candidata di As The World Bleeds porta l’eloquente titolo di “The Gift Of Music”: chitarre acustiche in primo piano, a tessere un puzzle di sognanti melodie, solari ed emozionanti. Nonostante si tenti, inutilmente, di raggiungere l’emotività della stupenda “Bethlehem” (ballad presente su Mirror Of Souls), il brano in questione rappresenta un’ottima prova del songwriting variegato di Matt e compagni, i quali ci sorprendono inserendo numerose accelerazioni ritmiche e vari cambi d’atmosfera lungo il corso dei 7 minuti della canzone, senza risultare in alcun modo piatto o forzato. Dopo questa piccola perla, è in arrivo un’altra bella mazzata di power veloce e melodico, intitolata “30 Pieces Of Silver”, brano strutturalmente variopinto, con un bel refrain melodico in primo piano e con una splendida prova vocale del mastermind Matt. Da notare anche il veloce assolo dell’ultimo arrivato Allen, sparato in mezzo a tutti i vari cambi di velocità di cui il pezzo è dotato. Al termine dell’ascolto, resta la sensazione di un brano molto valido e che denota una certa originalità nell’arrangiamento chitarristico. Le atmosfere tornano a farsi cupe con il tappeto di cori iniziali di “Drown”, rallentano le velocità e le ritmiche chitarristiche tornano a farsi marziali e rocciose. Una strofa acustica e ben arrangiata ci accompagna verso un ritornello melodico e piacevole, ma dal minor impatto immediato, dotato, tra l’altro, di una musicalità particolare, quasi estranea al contesto power. Da segnalare la stuzzicante prova solistica di Allen, vera novità sonora in casa Theocracy. “Altar To The Unknown God” è un brano immediato e catchy, dotato di un bellissimo refrain dalle tinte power, senza disdegnare punte rockeggianti. Peccato che la parte centrale, (nonostante spuntino assoli orientaleggianti e chitarroni heavy) risulti un po’ troppo stantia rispetto ai canoni, tendendo ad impalare l’ascoltatore in uno stato di distrazione uditiva. Per fortuna, la sensazione dura poco, ripresentandoci il ritornello finale e chiudendo un brano gradevole, anche se a tratti poco fluido. Si presenta con prepotenza lo spettro degli Helloween più allegrotti, con l’happy metal di “Light Of The World”, brano arioso e decisamente delizioso, con i suoi ritornelli corali e le sue melodie zuccherose. Gli assoli, la doppia cassa veloce, l’arrangiamento, la struttura… tutto ricorda, senza pudore né vergogna,  il power europeo in voga negli ultimi anni ’80 primi ’90, facendoci rivivere per qualche minuto quelle piacevoli atmosfere solari, spesso dimenticate dalla scena odierna. Dopo quest’ottimo pezzo immediato, giungiamo alla conclusione: così come hanno aperto le danze con “I Am”, i Theocracy ci salutano con un altro lungo capolavoro: la poliedrica “As The World Bleeds”, che ci introduce ad un soave pianoforte, supportato dalla voce calda di Matt. Attraverso ritornelli epici e malinconici, sfaccettature più veloci ed aggressive, ottimi solos,  cambi d’atmosfera, ritmiche intriganti e punte di progressive, la band americana si rende autrice di otto minuti magistralmente strutturati ed arrangiati in maniera divina (passatemi il termine), sfoggiando liriche riguardanti il declino del mondo, in una visione religiosa e spirituale. Se tutti i brani fossero stati di questo livello, avremmo tra le mani un vero capolavoro; ma si sa, i miracoli non sempre avvengono. La variegata title-track finale si piazza (a pari merito con l’opener) ai primi posti delle top song dei Theocracy, band che ha dimostrato, ancora una volta, che anche con l’ispirazione divina si può creare un’ottima musica, ispirata e passionale.     


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

C’è ben poco da aggiungere a quanto già detto; vorrei solo caldamente consigliare questi Theocracy a chi ancora non li conosce, a chi si ciba di pane e power metal. Il terzo album di una band, solitamente, è sempre visto come l’album necessario per la consacrazione artistica, per valutare (s)oggettivamente se una band ha le giuste credenziali. Detto questo, As The World Bleeds supera ampiamente la prova. Come già detto, probabilmente non tutti i brani brillano per composizioni eccelse e, in più di un’occasione, vi sono momenti in cui l’attenzione cala, o in cui la sensazione di “già sentito” è inevitabile; ma, in tempi così duri per la musica metal, si può ampiamente fare a meno di discuterne, per poter godere del valore di brani come l’opener o la title-track. Non dimentichiamoci che i nostri ci sanno fare dietro agli strumenti, a partire dal polistrumentista e mente principale Matt Smith, che si è occupato di buona parte della composizione del disco. La sua voce è diventata matura e potente, godendo, come mai prima d’ora, di una precisione e di un’estensione davvero notevole, riscontrabile in numerosi brani, senza disdegnare tonalità medio-basse, dove il singer dimostra comunque una certa dimestichezza. Essenziale il suo lavoro di tastiere, creato con il solo scopo di dare maggior sostegno ai riff di chitarra, senza eccedere in troppi sfarzi sinfonici. Le due asce, Jon Hinds e Val Allen Wood, si destreggiano bene, mettendosi in mostra per un riffing spesso variegato. In particolare, in questo nuovo capitolo viene dato finalmente un maggior risalto ai solos di chitarra (finora mai stati troppo essenziali per il sound della band), dei quali Allen si dimostra un bravissimo esecutore, dotato di tecnica e di un discreto gusto melodico. Infine, abbastanza lineare il lavoro di basso di Jared Oldham, senza spiccare per doti eccelse, mentre invece è ottimo e preciso l’operato del drummer Shawn Benson, che già ha avuto modo di farsi notare nel precedente Mirror Of Souls. Aggiungiamoci una produzione perfetta, un sound potente e definito, dei testi profondi, ricercati e mai banali, un fantastico artwork di copertina (assolutamente splendida ed evocativa l’immagine apocalittica, con il mare che forma un muro di sangue alla Shining) ed abbiamo tra le mani un nuovo esaltante capitolo di questa promettente band americana; ed è ora che qualcuno, nel giro dei “grandi”, se ne accorga al più presto. Bravi Theocracy, continuate così. Vi aspetto presto in Italia.


Tracklist:

01. I Am
02. The Master Storyteller
03. Nailed
04. Hide In The Fairytale
05. The Gift Of Music
06. 30 Pieces Of Silver
07. Drown
08. Altar To The Unknown God
09. Light Of The World
10. As The World Bleeds


Voto: 7,5/10

martedì 20 dicembre 2011

NIGHTWISH - Imaginaerum


Metallo cinematografico, in tutti i sensi…

Nome Album: Imaginaerum
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 6 Dicembre 2011
Genere: Symphonic Metal

Introduzione:

Ecco, finalmente, giungere sugli scaffali di tutto il mondo uno dei prodotti metal più attesi dell’anno corrente. Assieme alla recente uscita discografica dei Dream Theater, si può affermare infatti che l’atteso Imaginaerum è, probabilmente, l’uscita discografica del 2011 maggiormente destinata ad un susseguirsi si chiacchiericci, commenti, gossip e quant’altro; un po’ perché la musica del combo, negli ultimi anni, si è radicalmente spostata verso soluzioni sempre più pompose e sinfoniche, tralasciando in gran parte gli sfavillanti esercizi dal gusto power-neoclassico, ravvisabili in album-capolavori quali Oceanborn (1998) o The Wishmaster (2000), ma soprattutto, indubbiamente, per l’eterna diatriba in merito al ruolo di singer, che dal 2006 ha fatto parlare in modo spropositato dei Nightwish. Facciamo un piccolo tuffo nella recente storia della band: Tarja Turunen, l’amata cantante dalla voce lirica, simbolo della band nonché di un intero genere musicale, viene pubblicamente esclusa dal gruppo nel 2006, poiché interessata sempre di più all’aspetto meramente economico della band, arrivando spesso a dichiarazioni poco felici in merito. Nello stesso anno, dopo un’intensa audizione, viene reclutata Anette Olzon, debuttante con il combo nell’album Dark Passion Play, del 2007. Dotata di un timbro più moderno e completamente differente rispetto a Tarja, Anette diventa spesso oggetto di pesanti critiche, soprattutto da parte dei fans dei Nightwish, chiaramente abituati alla bella voce di Tarja. Imaginaerum, da tale punto di vista, rappresenta una prova del fuoco: il capitolo che permette ad Anette di dimostrare la sua totale integrazione con la musica proposta da Tuomas e soci. Dopo aver ascoltato numerose volte il prodotto, personalmente considero raggiunto l’obiettivo: la bella singer svedese dimostra una maggiore scioltezza e versatilità vocale e le sue linee vocali diventano parte della intensa musicalità dei Nightwish. Musicalmente il nuovo disco prosegue le impronte del filone iper-sinfonico/cinematografico iniziato da Once (2004) e proseguito ancora più ardentemente (ma al contempo con risultati meno eclatanti) nel successivo Dark Passion Play: in altre parole, anche l’ascolto di Imaginaerum vi catapulterà in un sognante regno costruito su orchestrazioni possenti,  arrangiamenti esemplari, tanta buona melodia e una musica evocativa ed estremamente pomposa, il tutto condito da una sorta di concept onirico, su cui si baserà anche un vero e proprio film, sceneggiato dallo stesso Tuomas. Tutto questo confluisce in un album importante; se non un nuovo capolavoro, un qualcosa che ci va molto vicino, un prodotto estremamente interessante e succoso, da assimilare un po’ per volta. Benvenuti nel reame dell’immaginazione, a voi l’ascolto…


Track By Track:

Non era mai successo nella discografia dei Nightwish di sentire un’introduzione; accade con “Taikatalvi”, brano narrato-cantato  in lingua madre (probabilmente), che in due minuti e mezzo è in grado di trasportarci nel sognante e fanciullesco mondo narrato da Tuomas. La storia porta in grembo i temi dell’innocenza e del rapporto bambino-adulto (non mi sbilancio più di tanto per evitare di andare troppo fuori rotta…), tanto cari al compositore finlandese. Dopo le dolci note sinfoniche dell’introduzione, la partenza è subito affidata al singolo apripista “Storytime”, in cui i Nightwish più “industrializzati” degli ultimi anni fanno capolino: ritmo marziale, riff oscuri, orchestrazioni cinematografiche, una singer finalmente ficcante e a suo agio; il tutto fino al bombastico refrain, melodico e, se vogliamo, pop-oriented, ma decisamente coinvolgente ed efficace. Stupendo lo stacco sinfonico-corale nel bel mezzo del brano. Se i Nightwish del 2011 sono questi, ben vengano! Il seguito presenterà degli spunti ancora migliori, in mezzo a qualche piccola ombra. Ad ogni modo, un ottimo brano di apertura, simbolo dell’intero album. “Ghost River” prosegue il discorso già iniziato con il singolo, attraverso un brano dai toni epici e suggestivi. Possiamo gustare gli aggressivi interventi di Marco Hietala alla voce maschile, co-protagonista dei Nightwish, già da vari anni. Il brano prosegue con sicurezza, attraverso un songwriting vario, dove anche il riffing di chitarra presenta delle idee più interessanti e le melodie dettano legge, supportate addirittura da un bel coro di voci bianche. Impossibile rimanere inerti dinnanzi a tanta maestria negli arrangiamenti. Ancora un’ottima prova della band. La prima grande bizzarria compositiva arriva con “Slow, Love, Slow”, un brano difficile da apprezzare subito, a causa di uno stile particolarissimo, basato su lente ritmiche jazzate, estremamente soffuse. Avrete la sensazione di essere catapultati direttamente in un locale anni ’50, con tanto di piano-bar e con una Anette toccante e delicatissima. Nonostante queste stranezze, il brano si rivela notevole ed estremamente piacevole, diverso da qualsiasi proposta metal. Un applauso dovuto a Tuomas, per la grande versatilità dimostrata nella composizione. Chiude il tutto un assolo in sordina di stampo blues, seguito da una lieve distorsione di chitarra nel finale. Imaginaerum torna sui propri passi con “I Want My Tears Back”, che riprende alcune sonorità di cornamusa utilizzate nel precedente lavoro Dark Passion Play, ritrovando l’anima folk della band. I due singer Anette e Marco impreziosiscono notevolmente questo mid-tempo, già impregnato di ottime melodie e di un incedere non certo originale, ma efficace. Le orchestrazioni vengono notevolmente diminuite, per lasciare più spazio agli arrangiamenti folkeggianti della cornamusa, padrona soprattutto nello spettacolare intermezzo strumentale. I toni diventano davvero cupi, con sinfonie horror, carillon e voci bianche: poi tutto diventa più epico e sinfonico…tutto questo è l’inizio di “Scaretale”, dove l’orchestra raggiunge il suo apice emotivo e sonoro. Arrangiamenti bombastici e cori imponenti portano ad un riff chitarristico marziale e roccioso. Attraverso il turbinio oscuro creato da Tuomas, si staglia l’esemplare prestazione di Anette, interpretando al meglio le sfumature horrorifiche del brano (ve la vedreste la voce di Tarja in un pezzo del genere?). In un batter d’occhio, tutto cambia: creature malvagie e grottesche fuoriescono dal letto, in un vortice di sonorità degne del geniale film Nightmare Before Christmas, ad opera di Tim Burton. Inserto poco amalgamato al contesto ed insolito, ma in fondo piacevole, che conduce al gran finale orchestrale. Pezzo da apprezzare dopo numerosi ascolti, ma dannatamente riuscito. “Arabesque”, come suggerisce il titolo stesso, è un intermezzo strumentale dove la sinfonia accompagna melodie orientaleggianti ed epiche. Come al solito, lascia di stucco la maestria impiegata nella costruzione degli arrangiamenti. “Arabesque” rappresenta quindi un piacevolissimo break prima di riprendere il discorso di Imaginaerum. Il secondo lento del disco è la toccante “Turn Loose The Mermaids”, dove pianoforte e chitarra acustica creano un tappeto dolce ed incalzante allo stesso tempo, su cui si incastra con delicata maestranza la voce della singer. L’intermezzo ed il finale ci riportano direttamente nel mondo hollywoodiano degli western d’annata, con un incedere atmosferico ed intenso. Dopo questo brano particolare, tornano i Nightwish più rocciosi e sinfonici con “Rest Calm”: dopo un lento incipit, la voce di Marco ci trasporta direttamente in un riff pesante e cupo, sapientemente alternato da bridges più melodici e da un refrain acustico più delicato, il tutto giostrato con eleganza e sapienza dal compositore della band, in fase di songwriting. La sinfonia torna a farsi sentire con prepotenza nei refrain finali, dove, su una litania ripetuta ossessivamente, l’orchestra scandisce fraseggi sempre più possenti, aumentando notevolmente la tensione, con risultati forse un po’ prolungati, ma notevoli. La dolcezza toccata da “The Crow, The Owl And The Dove” non ha pari all’interno del disco. Nella ballad in questione, la chitarra acustica e le voci maschile e femminile creano un delicato gioco musicale basato su arpeggi e melodie leggiadre, per una canzone davvero pregevole. Gli intenti pop del brano non sfigurano affatto nella proposta della song, accompagnata anche da percussioni lontane e cori soffusi, sfoggiando partiture folk ed un refrain estremamente orecchiabile, toccante nella sua semplicità. Dopo questo trittico di brani dai ritmi lenti e pacati, torna prepotentemente il marchio Nightwish con orchestrazioni e cori possenti in primo piano, a fare da cardine per un brano veloce e ritmato: questa piccola perla porta il nome di “Last Ride Of The Day”, canzone che colpisce per la sua atmosfera intrisa di oscura epicità, su cui si fanno grandi le linee vocali di Anette, ora quasi sussurrante, ora esplosiva nella sua interpretazione, soprattutto nel finale super arrangiato. Da segnalare il buono, seppur breve, assolo (come sempre, piuttosto rari) di Emppu. Nonostante la struttura semplice, il brano diventa struggente nel suo procedere, garantendo un alto tasso emotivo ed uno dei momenti migliori di Imaginaerum. Se nel precedente disco, la lunga suite iniziale “The Poet And The Pendulum” aveva rappresentato uno dei picchi musicali più alti della carriera dei Nightwish, non è così per la sorella “Song Of Myself”, 13 minuti di suite prima dell’outro del disco. Nonostante gli elementi ormai tipici del suono della band siano tutti presenti in pompa magna, il lungo brano riscontra la sua maggiore difficoltà nel non saper essere sorprendente quanto il resto del disco. Si tratta di un brano corposo, ma privo di una certa scintilla, necessaria dopo questi 70 minuti abbondanti di musica. Le atmosfere sono ancora cupe ed epiche e proseguono fino ad un finale narrato (fin troppo lungo in realtà) in cui l’ambientazione si fa più dolce e sognante, portandoci, attraverso numerosi narratori, alla conclusione di questo lungo viaggio entusiasmante con la title-track “Imaginaerum”: un lungo outro totalmente orchestrale che, con intenti chiaramente cinematografici, ripercorre alcuni momenti salienti del disco, in versione orchestrale. Una bella idea, in realtà già propostaci in passato dagli Angra, con “Gate XIII” nell’album Temple Of Hate, ma degna del progetto cinematografico che sta dietro a questo lungo e sorprendente album.  


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Ho lasciato volutamente trascorrere del tempo, prima di recensire Imaginaerum, per evitare di dare giudizi troppo affrettati in merito. Dopo i primi ascolti superficiali, la macchina Nightwish ha cominciato ad ingranare nel mio apparato uditivo, ed è stato incredibile notare quanta versatilità compositiva cresce, di ascolto in ascolto, in questo lavoro. Perciò, un applauso va al sognatore/compositore e tastierista Tuomas Holopainen, che, con passione ed eleganza, ha saputo dar vita ad una creatura degna del nome “Musica”. In questo grande musical, è più che lecito elogiare la mente, la regia, senza però dimenticare che un ottimo film non è tale senza la professionalità dei suoi attori ed interpreti: è così che prima di tutto dobbiamo parlare di Anette Olzon, ora finalmente perfetta per il ruolo di singer e cosciente dei propri mezzi, con la capacità di sfruttarli a proprio vantaggio per rendersi, così, autrice di un’ottima prova dietro al microfono. Come sempre, buona anche la prova vocale di Marco Hietala, più in luce per questo piuttosto che per la sua prestazione al basso. Jukka Nevalainen, come si sa, si limita a scandire tempi medi dietro alle pelli, certo con professionalità, ma, ahimè, senza troppe pretese. Discorso (quasi) analogo per Erno “Emppu” Vuorinen: il suo riffing di chitarra poche volte esce dai soliti schemi, limitandosi per di più ad accompagnare la solenne Looking Glass Orchestra (diretta come sempre da Pip Williams), vera protagonista del disco. Inoltre i suoi rari solos sono spesso oscurati. Difficile giudicare senza ottimi voti un’opera così ampiamente costruita ed arrangiata, per di più sorretta da una produzione stellare e da un artwork oscuro ed affascinante. Se vogliamo essere pignoli, una costruzione più audace nel trittico chitarra-basso-batteria (colonna portante nel rock e derivati) avrebbe giovato maggiormente alla musica del combo finlandese, senza precludere l’imponente e notevole ruolo di coro e orchestra, anche se il difetto più grosso di Imaginaerum è molto probabilmente la sua eccessiva lunghezza: snellire alcune parti troppo tronfie (leggasi: penultima traccia) avrebbe reso più fluido l’ascolto di questi 75 minuti. Vista la grande ed evidente passione che Tuomas prodiga nelle sue creazioni, una volta tanto si può soprassedere a questi piccoli malus. Lasciamo che a parlare siano la musica dei Nightwish, le vibrazioni sinfoniche, l’immaginazione e le emozioni che portano il nome di questo entusiasmante ritorno della band finlandese.  


Tracklist:

01. Taikatalvi
02. Storytime
03. Ghost River
04. Slow, Love, Slow
05. I Want My Tears Back
06. Scaretale
07. Arabesque
08. Turn Loose The Mermaids
09. Rest Calm
10. The Crow, The Owl and The Dove
11. Last Ride Of The Day
12. Song Of Myself
13. Imaginaerum


Voto: 8,5/10

domenica 11 dicembre 2011

ICED EARTH - Dystopia

Nuovo cantante, stessa musica…

Nome Album: Dystopia
Etichetta: Century Media
Data di uscita: 17 Ottobre 2011
Genere: Thrash/Power Metal

Introduzione:

Un percorso artistico altalenante ha toccato gli Iced Earth negli ultimi anni. Tutto cominciò con la prima dipartita dello storico singer Matthew Barlow ed il conseguente arrivo al microfono dell’ex-Judas Priest Tim “Ripper” Owens. Da lì in poi, la band è stata autrice di diversi album non propriamente eccelsi ed evidentemente carenti di idee vincenti, oltre ad essere stata “vittima” dell’abbandono di Owens dopo soli due album, con successivo ritorno al microfono e secondo abbandono (per scelte di lavoro e di vita) dell’amato Barlow. Il leader Jon Schaffer, patriottico americano fino al midollo, sembra aver sofferto di questi numerosi sconvolgimenti che, senza alcun dubbio, tendono a minare l’unità di una band. Ne sono conseguiti album come il discreto The Glorius Burden (2004) o i due Something Wicked (I e II, 2007 e 2008 rispettivamente), album non memorabili. Sembra che ora il buon leader Jon abbia trovato una minima stabilità della propria band con il nuovo singer Stu Block, proveniente dai meritevolissimi death-progster canadesi Into Eternity, dando alla luce un lavoro come questo Dystopia. Tanto per essere chiari, il nuovo parto in casa Schaffer risulta intagliato negli stessi solchi compositivi delle ultime releases, non spiccando per idee particolarmente brillanti, ma, almeno questa volta, sembra esserci una maggiore compattezza anche grazie a Stu, ottimo singer ed interprete, nonché degno erede del dimissionario Barlow (ciò che invece non era stato Tim Owens). Ne risulta un album dettato dai consueti stilemi che hanno reso il sound degli Iced Earth riconoscibile ed estremamente personale: riff serratissimi e precisi, sound ficcante, furia tipicamente american-thrash, tra cui si insinuano melodie powereggianti, voci aggressive ecc… Tutto questo è anche Dystopia, un album in cui non si trovano episodi trascurabili o inascoltabili, ma in cui possiamo tuttavia trovare soluzioni artistiche che cercano in tutti i modi di colpire l’ascoltatore, senza però mai essere in grado di stupire così come ci aveva deliziato il mitico Horror Show (giusto per fare un esempio). Caro Jon, per questa volta un album come Dystopia ci sta, ti possiamo capire. Ma ora mantieni la stabilità e concentrati sul songwriting; prenditi il tuo tempo e torna a stupire davvero.


Track By Track:

La partenza dell’album è davvero buona, grazie all’incedere metallico della title-track. “Dystopia” è un brano che ricalca alla perfezione tutte le caratteristiche che hanno fatto grande il sound di questa band. L’introduzione marciante e melodica lascia presto spazio ad una serie di riff serratissimi, portandoci alla mente anche l’ultimo lavoro del progetto a firma Schaffer, i Demons & Wizards. Su tutto, si instaura la prova che attendevamo con più trepidazione e curiosità: la voce di Stu Block, il quale si dimostra subito perfetto per il ruolo, trasmettendo vibrazioni con la stessa teatralità appartenuta al giustamente osannato Matthew Barlow (la sua voce è sempre stata innegabilmente perfetta per la band). La song avanza con sicurezza e melodia, risultando ficcante in ogni suo passaggio. Il proseguimento è dato dalla chitarra pulita di “Anthem”, ancora un buonissimo brano in consueto stile Iced: i ritmi sono quelli di una simil-cavalcata lenta e possente. Ancora una volta, salta all’orecchio l’ottima prova di Block alle vocals, sempre più vicino alla timbrica di Barlow. Nonostante la struttura semplice del brano, “Anthem” scorre liscio come l’olio, con il suo incedere malinconico ed armonioso, grazie ai cori ed alle melodie di chitarra. Con “Boiling Point” giunge all’orecchio dell’ascoltatore una ficcante mazzata metallica: poco meno di due minuti per una killer-song dalle timbriche fortemente thrasheggianti e velocizzate. Doppia cassa incessante, campane, voci incazzate ed infernali, timbriche possenti, sono gli ingredienti di base che costituiscono questo piccolo gioiellino metallico. Nulla di trascendentale, ma sicuramente un brano apprezzabile da chi dal metal si aspetta una buona dose di cattiveria. Ancora una buona canzone, dall’incedere più lento e riflessivo, è “Anguish Of Youth”, dove Schaffer sembra rifarsi al passato più glorioso, richiamando sonorità e struttura della sempreverde “I Cried For You”. Ne deriva un buon brano, semplice e passionale nella strofa acustica, ruvido e melodico nel ritornello, sicuramente da annoverare come uno dei più melodici dell’album. Di seguito, assistiamo ad un calo stilistico piuttosto evidente, a partire da “V”, brano metallico dotato di un buon refrain, ma anche di una strofa e di un incedere marziale e piuttosto statico, senza alcuna innovazione nel riffing, rendendolo, in questo modo, meno appetibile rispetto a quanto sentito in precedenza. La canzone in esame non è certo insufficiente, ma manca di un buon appiglio accattivante che riesca a catturare l’attenzione a dovere. Attenzione che scema pericolosamente con “Dark City”, brano veloce e incazzoso, ma abbastanza scontato nelle scelte melodiche e nella sua struttura. Come nel caso precedente, manca un qualcosa, una qualche piccola virgola innovativa, che possa far apprezzare adeguatamente questo brano. Oltre a ciò, anche i cori e le linee melodiche sembrano essere poco incisive e piuttosto stagnanti. Interessante la parte finale, melodica e veloce, anche se poco costruita nelle sue numerose ripetizioni. Dopo questo passo falso, la situazione stenta a riprendersi ed iniziamo ad accusare quella monotonia compositiva cui ho accennato nell’introduzione: “Equilibrium” è l’ulteriore sigillo a comprova di quanto detto. Brano stagnante ed abbastanza piatto, si salva solo nella parte melodica centrale con relativo assolo. Il resto è un misto dei soliti riff Schafferiani, mischiati a vocals poco variegate e monotone. La sensazione è quella di trovarsi dinnanzi ad un classico brano nato grazie ad un buon riff o ad una buona melodia, ma poi lasciato a se stesso e sviluppato stancamente dal suo autore. I ritmi tornano a farsi davvero incalzanti con “Days Of Rage” e l’ombra dei due brani precedenti sembra dissiparsi, grazie ad una strofa ficcante e graffiante, sostenuta ad alte velocità da un buon lavoro ritmico della batteria. Tuttavia il brano, ne suoi due minuti scarsi di durata, si perde nei meandri di un ritornello fine a se stesso, piuttosto vuoto. Ciò, vista anche la sua breve durata, porta quindi ad una canzone mal costruita e, in fin dei conti, insignificante. Per chi scrive, il punto più basso dell’album. Per fortuna “End Of Innocence” è qui tra noi per farci godere ancora un po’ di buona musica, dopo i tre brani precedenti. Ancora una volta, la band mostra il suo lato melodico e melanconico, con una lenta cavalcata impostata su strofa acustica e ritornello distorto (come spesso accade in casa Iced Earth). Il risultato sfocia in un brano vincente nelle direzioni melodiche intraprese, ma fin troppo semplice ed assolutamente privo di originalità. Tuttavia, in fin dei conti, risulta piacevole e scorrevole, pur non essendo nulla di miracoloso. L’introduzione dei quasi otto lunghi minuti (in realtà sono sei e mezzo) della conclusiva “Tragedy And Triumph” richiama la marcia iniziale della title-track, introducendoci in un brano che porta, finalmente, una boccata d’aria fresca ad una tracklist divenuta piuttosto fiacca lungo il suo corso. Il brano finale di Dystopia ci presenta dei riff serrati e precisi, nella migliore tradizione ritmica della band, suonati, però, in tonalità più aperte e meno cupe, dando al brano un piglio quasi hard rock (doverosamente appesantito) nella strofa e nel bridge. Una scelta contrastata dal possente timbro vocale di Stu, strana nel contesto ma decisamente piacevole, che conduce l’ascoltatore ad un veloce ritornellone, ficcante e corale, vero punto di forza del brano ed evocativo come pochi nel corso dell’album. Dystopia si chiude qui. Si conclude bene, ma non quanto la valutazione di questo altalenante disco, inquadrabile, ancora una volta, come una transizione verso un nuovo auspicabile lavoro di alta qualità. O almeno, ci auguriamo sia così.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Tiriamo le somme: spiace dirlo, ma gli Iced Earth hanno presentato ai fans ed al mondo un album certamente più che sufficiente, ma non quanto basta per farlo rientrare, per lo meno, nella media stilistica dei lavori degli anni ’90 e primi 2000. Una piccola parte del voto va, certamente, alla produzione cristallina, ad un artwork colorato ed accattivante, in linea con le copertine dei dischi precedenti, ma soprattutto alla prestazione maiuscola dei singoli musicisti. In particolare, va sottolineata la prestazione di un ispirato Stu Block: per l’occasione, abbandona il growl e lo scream utilizzati negli Into Eternity, dedicandosi solo alla voce pulita (anch’essa comunque presente con la sua band madre), lavorando soprattutto sulle tonalità medie, sull’interpretazione e sulla teatralità, caratteristiche ereditate con vigore e perizia dal vecchio singer Barlow. Inutile dire che anche nei pochi momenti in cui si esprime su tonalità acute e più “halfordiane”, il risultato è altresì convincente (del resto, chi conosce gli Into Eternity, questo lo sa già). Jon Schaffer sciorina, come al solito, granitici riff dalla precisione pressoché chirurgica, facendo scuola a tanti chitarristi ritmici, mentre la sezione di Brent Smedley gode di una diligenza assoluta dietro alle pelli, sia in termini di velocità che di tecnica generale. Il basso di Freddie Vidales risulta spesso coperto nel mixing, in favore delle ritmiche del leader Schaffer, mentre la sezione solistica, ad opera di Troy Seele, gode di buona salute, senza spiccare particolarmente per assoli magistrali. Certo, parlare di Iced Earth significa parlare di una band dove la stabilità non è certo di casa, ma già il fatto di avere nelle fila un singer come Stu, garantisce già un ottimo punto di forza per il futuro. Salviamo, quindi, qualche buona traccia ed accantoniamo quindi questo Dystopia;  mentre ci riascoltiamo lavori esemplari, come Something Wicked This Way Comes o Horror Show, rimandiamo ancora una volta gli Iced Earth ad un futuro, speriamo non molto lontano, più roseo e degno del passato di questa band americana.


Tracklist:

1. Dystopia
2. Anthem
3. Boiling Point
4. Anguish of Youth
5. V
6. Dark City
7. Equilibrium
8. Days of Rage
9. End of Innocence
10. Tragedy & Triumph


Voto: 6,5/10

domenica 4 dicembre 2011

AMARANTHE - Amaranthe


Quando il nuovo (o quasi) avanza…

Nome Album: Amaranthe
Etichetta: Spinefarm Records
Data di uscita: 13 Aprile 2011
Genere: Modern Metal
 
Introduzione:

Göteborg: città svedese ben conosciuta per chi segue il metal europeo a 360°. Da questo loco, infatti, derivano alcune grandi band che in qualche modo hanno lasciato segni indelebili nella storia del metal più attuale. At The Gates, In Flames, Hammerfall, Evergrey ecc… sono nomi importanti per lo sviluppo del melodic death metal, del power metal e via dicendo. Ripescando ed innovando tutti questi elementi, spuntano da tale città anche questi nuovi Amaranthe, esordienti ufficialmente in questo 2011, sotto l’ala protettrice della Spinefarm (che ha dato fede anche ad affermate band come Children Of Bodom, Sonata Arctica e Nightwish). In realtà, di nuovo c’è ben poco sulla scena: infatti i nostri sono tutti giovani ragazzi che hanno già avuto esperienze varie nel campo metal. La bella singer Elize ha alle spalle una militanza nei tour dei Kamelot, il cantante Jake ha operato nei Dream Evil, Olof Mörck ha prestato i suoi servigi chitarristici nei bellissimi Dragonland e Morten ha pestato le pelli nei deathster melodici Mercenary. Da questa riuscita unione di talenti, nasce una band che unisce la furia del death melodico, di scuola svedese, con robusti inserti elettronici e, soprattutto, con ritornelli zuccherosi, estremamente immediati e d’impatto, coadiuvati dalla presenza di ben tre voci nell’organico: maschile-femminile-growl. Il risultato, credetemi, è sbalorditivo: una volta che gli Amaranthe si ficcano in testa, è difficile riuscire a rimuoverli. A testimonianza di questo è sufficiente ascoltare l’intero lavoro d’esordio omonimo. Insomma, nel marasma del metal moderno, che spesso aggiunge solo polvere ad una scena tragicomicamente grossolana e priva del giusto spirito, gli Amaranthe osano e colpiscono quanto dovuto, grazie ad un metallo estremamente nuovo (i true-metal-heads ne stiano lontani il più possibile) e coinvolgente, dotato di brani brevi e dalla struttura semplice. Come già accennato, posso ben comprendere come certi metalheads cresciuti a Megadeth, Manowar e Judas Priest (ne cito tre a caso) possano trovare ostiche e ripugnanti certe sonorità, ma in fondo sappiamo bene che se il metal continua a vivere è anche perché è un genere in grado di evolversi costantemente. Se continuasse ad evolversi attraverso gruppi come gli Amaranthe, sarebbe oro colato.


Track By Track:

12 tracce, 43 minuti. Tanto basta per far capire di che pasta sono fatti questi Amaranthe. Partenza alla grande con l’attacco di “Leave Everything Behind”, brano introdotto da riff che ripescano il meglio dei Children Of Bodom più melodici. Già con questo brano, vengono messe in risalto le caratteristiche del sound propostoci: riff melodic-death, sapiente e continua alternanza tra voci sporche e voci pulite, chitarroni ribassati di ottomila toni, sound potente e cristallino, inserti elettronici e refrain melodici ed estremamente orecchiabili, il tutto concentrato in pochi minuti di brano. Sentire per credere! L’esordio prosegue con il singolo da classifica “Hunger”: elettronica e dinamismo ritmico in primo piano, una strofa accattivante e ruffiana, fino ad un’esplosione di melodia nel veloce ed incisivo ritornello. Ciò che salta all’orecchio durante l’ascolto della song e dell’intero album, sono le abilità tecniche del chitarrista (e maggior compositore) Olof Mörck, capace di assoli puliti ed ottimamente strutturati nelle melodie, forti di sweep-picking e giochini tecnici tutt’altro che semplici. Dopo il contagio a cui “Hunger” vi ha sottoposto (ho perso il conto di quante volte l’ho riascoltata), arriva “1.000.000 Lightyears” a scuotere nuovamente le nostre viscere: il brano in questione gode, ancora una volta, di ritmiche dinamiche e mai stantie, di un occhio attento per la melodia ricercata e stuzzicante, e dei consueti intrecci vocali (caratteristica portante della band). Molto gradevole l’intermezzo centrale di stampo metalcore, seguito da ottimi (seppur brevi) solos di chitarra. L’intro simil-dance di “Automatic” non deve trarre in inganno. E’ infatti solo un alternativo modo per introdurre la canzone più catchy di tutto il disco: la strofa accattivante e potente lascia presto spazio ad un bel crescendo che sfocia in un refrain corale e fin troppo contagioso. Molto facilmente, vi ritroverete a canticchiare il ritornello di “Automatic” sotto la doccia o mentre siete in auto. Per quanto semplice e, se vogliamo, elementare, è un brano davvero riuscito, corposo quanto basta. Possiamo maggiormente godere, in questo brano, del chitarrismo di Olof, grazie ad un assolo leggermente più lungo. Stessa formula per “My Transition”: una song di fronte alla quale è, ancora una volta, impossibile restare indifferenti. La potenza del sound e gli intrecci strumentali, così dinamici e mai banali, rendono il tutto davvero coinvolgente. Ancora una buonissima prova di Olof ed il brano prosegue con sicurezza fino alla propria conclusione. Forse quest’ultimo episodio non ha lo stesso appeal dei brani precedenti, ma poco importa. La band dimostra anche una propensione verso brani smaccatamente più lenti e commerciali con la successiva “Amaranthine”: si tratta, infatti, di una romantica ballad, introdotta da un soave pianoforte che ci trasporta in un ritornello di matrice pop, abusato a stra-abusato chissà da quante bands e popstars. Nonostante questo, ritengo “Amaranthine” una delle song più belle dell’album: infatti, il brano non disdegna lievi atmosfere elettroniche ed aperture più orientate verso il metalcore (l’incursione del growl di Andreas è da manuale). In più, la carica vocale dei crescendo dei cori e la splendida voce di Elize conferiscono a questa ottima ballad un’aurea estremamente sensuale ed accattivante. L’attacco improvviso di “Rain”, desta subito l’attenzione ripresentando l’anima più metalcore degli Amaranthe. Il brano ha degli ottimi spunti e gode di un perfetto connubio di potenza e melodia, senza dimenticare i sempreverdi innesti elettronici (a momenti sembra di sentire una colonna sonora di qualche action-movie holliwoodiano). Tuttavia, il brano in questione è forse quello più trascurabile del lotto, vista la somiglianza strutturale dei vari brani fin qui ascoltati e la sua propensione verso sonorità vicine al bistrattato nu-metal. Le soprese non finiscono, perché la techno si impossessa della band in “Call Out My Name”, brano venato da contaminazioni industrial-elettroniche piuttosto imponenti e decisamente riuscite nel contesto. L’incedere è incredibilmente coinvolgente, a metà tra il metal moderno e sonorità techno-dance. I più aborreranno queste sonorità, così evidentemente moderne, ma chi non disdegna in alcun modo la sperimentazione nel metal, avrà certamente modo di apprezzare questo bellissimo ed accattivante brano. “Enter The Maze” ripresenta gli Amaranthe sotto una veste più melodica, con un brano dalle sonorità sempre seducenti e particolarmente catchy nell’incedere generale, abbastanza vicino a certe song prodotte dalla discografia più recente dei Nightwish (senza i pomposi sfarzi sinfonici dei finlandesi). Ottimi gli intrecci ritmici della strofa, così come la scelta delle melodie in bridge e refrain. Diversa dall’impianto classico dell’album è invece “Director’s Cut”, canzone particolarmente ritmata e dotata, al contempo, di melodie cadenzate che creano un’atmosfera, a suo modo, malinconica. Da segnalare, ancora una volta, lo splendido assolo in crescendo ad opera di Mörck. Dopo questo bel brano, scorrevole e molto piacevole, è il momento della penultima “Act Of Desperation”, dalla strofa, in tutta sincerità, abbastanza simile a quanto già ascoltato in qualche brano precedente. La forza del brano, però, sta nei sincopati ed originali intrecci ritmici insediati tra chitarra, basso e batteria, nel particolare ritornello. Davvero ben riuscita, grazie anche ad un’ennesima ottima prova solistica del chitarrista e dell’ottimo operato vocale dei tre singers: in particolare Elize, con la sua voce alta e potente, raggiunge alti picchi di intensità. A chiudere il tutto ci pensa una canonica “Serendipity”, brano piacevole che scorre liscio come l’olio tra suadenti melodie e consuete ritmiche metalcore. Bello il ritornello, emotivo ed anche un po’ ruffiano, così come risulta azzeccato lo stacco metalcore centrale. Un brano, quindi, nella media che conclude una gran bella prova, in questo 2011 ricco di uscite discografiche. Definitelo come volete: adulatore, commerciale, pop, ma ciò non toglie che Amaranthe sia anche un disco estremamente immediato, ricco di idee, sfarzoso negli arrangiamenti e, soprattutto, dotato della rara capacità di rimanere scolpito in testa, dalla prima all’ultima nota.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Una bella sorpresa questi Amaranthe, devo ammetterlo. Spesso non sono personalmente incline ad approcciarmi a musiche troppo modernizzate; tuttavia, pensando di trovarmi ad ascoltare un album di gothic metal moderno e pomposo (il nome della band e la presenza di Elize in copertina mi avevano fatto pensare ad un clone degli osannati Nightwish), mi sono imbattuto invece in canzoni brevi e dirette, istantanee, ritmiche e melodiche, dal sapore metalcore condito con intrecci vocali davvero ben fatti ed interessanti. Come accennato più volte, segnalo prima di tutto il chitarrista Olof Mörck, condottiero spietato tra riff ricercati ed assoli tecnici ed ottimamente studiati, vera sorpresa per un gruppo del genere. Mi ha poi colpito il drummer Morten Løwe Sørensen, dotato anch’esso di un alto tasso di tecnica esecutiva, capace di andare alla ricerca di pattern ritmici tutt’altro che superficiali, ricchi invece di molte sfumature. Il bassista Johan Andreassen esegue il suo canonico lavoro, relegato un po’ nell’ombra di quella che è la caratteristica principale degli Amaranthe, ovvero i tre frontman al microfono: Andreas Solveström, bravissimo ed espressivo nelle harsh-growl vocals, Jake E, cantante dalla timbrica giostrata su tonalità medio-alte, per la verità non sempre convincente, ma comunque ben adeguato nel contesto, e la graziosa Elize Ryd, dotata di una suadente timbrica di stampo pop (in altre parole, non lirica), espressiva e decisamente adatta al genere proposto. I tre cantanti giocano sugli intrecci vocali, sui cambi umorali delle varie song, dando una dinamica non indifferente ad ogni brano proposto. Certo, in Amaranthe non è tutto rose e fiori, ovvero si riscontra più che facilmente una certa propensione all’utilizzo di strutture, in fin dei conti, semplici e tra loro molti similari. Ma c’è da dire che il dinamismo vocale, gli arrangiamenti non lasciati al caso ed i minutaggi ridotti delle song fanno si che chi ascolti questo lavoro non abbia molte possibilità di annoiarsi. Come poi ho già detto, sarà difficile scrollarvi di dosso questi brani e questi ritornelli. La copertina non è un capolavoro, ma gode di colori carichi, presentandoci la band in tutto il suo splendore, con la Ryd al centro della foto (mossa puramente commerciale?) e la produzione iper-nitida dona un sound potente e pungente ad ogni pezzo. Si sente che gli Amaranthe provengono già da diverse esperienze, perché un’opera prima come questo omonimo lavoro non è da tutti. Mi auguro di ritrovare lo stesso spessore anche nel loro prossimo album, magari con composizioni più differenti tra loro, ma sempre con la stessa impetuosa energia che gli Amaranthe sanno sprigionare.


Tracklist:

01. Leave Everything Behind
02. Hunger
03. 1.000.000 Lightyears
04. Automatic
05. My Transition
06. Amaranthine
07. Rain
08. Call Out My Name
09. Enter The Maze
10. Director’s Cut
11. Act Of Desperation
12. Serendipity


Voto: 8/10

sabato 26 novembre 2011

Live Report: OPETH, Alcatraz, Milano, 24-11-2011

Live Report – OPETH
 (+ Pain Of Salvation)
Alcatraz, Milano, 24-11-2011


Dopo due anni di assenza dalla nostra patria, con l’ottima prestazione (a cui il sottoscritto era presente) al Mediolanum Forum, in occasione del Progressive Nation Tour, torna una delle metal band più osannate nel nostro Bel Paese. Tornano infatti sul palco dell’Alcatraz gli svedesi Opeth! La band prosegue il proprio tour di supporto al nuovo arrivato “Heritage”, toccando anche il locale milanese per l’unico show italiano previsto. Ad aprire la serata, Mikael Åkerfeldt e soci hanno deciso di portare con se un'altra particolare band della scena prog metal attuale, ovvero i loro connazionali Pain Of Salvation. Come i fan avranno avuto modo di ascoltare, il nuovo parto in casa Opeth, “Heritage” (la mia recensione al seguente link: http://recensionimetalfil.blogspot.com/2011/11/opeth-heritage.html), si discosta in toto dal death progressivo a cui la band ci ha abituato, presentandoci, invece, un lavoro totalmente ispirato al prog rock anni ’70, tanto amato dal leader del gruppo. Pertanto, le caratteristiche che hanno dato vita a questa nuova creatura, vengono riproposte anche in questo lungo tour. E’ a tale causa che possiamo quindi additare la mancanza del superbo growl di Mikael, a favore di un limpido clean vocalism. La setlist è quindi stata concentrata su quei brani dotati interamente di voce pulita, senza alcun accenno al buon vecchio growl del leader. Questo ha giocato non poco sulla resa del concerto. Musicalmente i nostri sono stati perfetti, ineccepibilmente mastodontici nell’esecuzione e nel coinvolgimento, ma alcune scelte hanno portato, inevitabilmente, a rendere il concerto troppo prolisso in alcuni tratti. Non fraintendetemi, è stato un concerto meraviglioso, sotto molti punti di vista, ma dare almeno un po’ di spazio anche alla discografia più maligna e death-oriented del combo avrebbe sicuramente giovato al pubblico ed avrebbe reso lo show unico, come quello propostoci due anni or sono. 
La data è già da alcuni giorni sold-out, come si prevedeva già dall’inizio della prevendita ed infatti, arrivati alla location poco prima della 19 senza grossi problemi di parcheggio, si prospetta dinnanzi a noi una folta coda  di fans che prosegue lungo le pareti dell’Alcatraz. Apertura cancelli puntuale alle 19, ed in poco tempo il locale si riempie a dovere, accogliendo circa 3000 persone (prendiamo con le pinze questa mia personale stima). Intorno alle 20 arrivano sul palco gli ospiti della serata, i progster PAIN OF SALVATION. Ammetto, fin da ora, che non ho un’ampia conoscenza al riguardo della  discografia di questa band, ormai attiva dagli albori degli anni ’90, con otto album alle spalle, tra cui il recente “Road Salt II”. Il pubblico milanese sembra apprezzare particolarmente la band, attraverso un calore che, generalmente, ci si aspetterebbe per un headliner, segno che anche i POS erano particolarmente attesi, oltre chiaramente agli Opeth. Una bizzarra introduzione ci conduce attraverso la cinquantina di minuti messa a disposizione per la band di Daniel Gildenlow. Lo show della band sembra orientato verso dei pezzi decisamente trascinanti, ma più facilmente accostabili ad un rock sperimentale, piuttosto che ad un prog metal esageratamente tecnico. Poco male, perché i pezzi sono molto validi, a volte dinamici e coinvolgenti, altre volte più lenti e costruiti. Gli svedesi dimostrano di essere particolarmente spigliati e di avere confidenza col palcoscenico, frutto d’anni di esperienza, presentandoci un Johan Hallgren (al suo ultimo tour con i POS) alla chitarra davvero dinamico e coinvolgente. La bella idea di contrapporre più voci principali nel sound rende la proposta  alternative-sperimentale variegata e particolare. Tra le varie song, spiccano la tostissima “Ashes”, la ballad “1979” e la rockeggiante “Linoleum”. Bravi questi Pain Of Salvation, capaci di uno show gradevole e trascinante. Per chi, come me, ha sentito davvero poco di questa band, è stata un’ottima occasione se non altro per sentire della buona musica dal vivo.
Giusto il consueto tempo necessario per il cambio palco, ed ecco che, sulle note della canzone del Popul Vuh Maya “Through Pain To Heaven” compaiono sul palco gli attessissimi Opeth! Basta un accenno del nuovo singolo “The Devil’s Orchard” e l’Alcatraz diventa un fragoroso boato all’unisono. La band appare, fin da subito, in ottima forma, così come i suoni sono perfetti ed ottimamente bilanciati. La setlist è chiaramente basata soprattutto sull’ultimo controverso “Heritage” (funziona quasi meglio dal vivo che su disco), ed il resto tocca vari episodi dalla discografia precedente, forzatamente selezionati per evitare il cantato in growl. Questa scelta si riversa nel fatto che i due capolavori Orchid e Morningrise vengono completamente ignorati, purtroppo, così come il bellissimo Ghost Reveries e molta parte della vecchia discografia. Nella prima parte dello show abbiamo, quindi, l’ottima riproposizione della nuova perla oscura “I Feel The Dark”, della toccante “Face Of Melinda” (un vero capolavoro), senza dimenticarsi di citare l’immensa ed emozionante “Porcelain Heart”, nel cui intermezzo viene suonato un grandissimo assolo di batteria di Martin Axenrot, giocato soprattutto su un’impressionante dinamica e sulla tecnica esecutiva del drummer, piuttosto che su alte velocità. Già con “Nepenthe” (una song simil-jazz presente sul nuovo album) gli animi si raffreddano non poco, proseguendo anche attraverso un successivo set acustico, in cui la stranissima “The Throat Of Winter” (canzone uscita come colonna sonora del videogioco “God Of War”) poteva essere evitata e sostituita con qualche episodio più celeberrimo (una “Harvest” a caso…). Dopo l’ulteriore dose di delicatezza con la pur bellissima “Credence”, l’incalzante “Closure” chiude il set acustico, ed il resto è tutto un insieme di brani atti a risollevare le sorti di uno show divenuto lento nel suo corso. L’hard rock della nuova “Slither”, la magniloquenza della splendida “A Fair Judgement” (con un potente e plumbeo rallentamento sul finale) e il prog metal di “Hax Process” sono eseguite magistralmente, trasportandoci direttamente all’encore finale di “Folklore”, stupendo brano di “Heritage”. Åkerfeldt scherza, come sempre, con il proprio pubblico, trasformandosi inevitabilmente nel mattatore della serata, citando spesso Eros Ramazzotti per scatenare l’ilarità del pubblico dell’Alcatraz e presentando in modo allegro i membri della sua poliedrica band. I singoli musicisti sono ormai garanzia di seria professionalità e a livello esecutivo non sbagliano un colpo: rimango sempre personalmente colpito dall’operato del bassista Martin Mendez, un autentico mostriciattolo delle 4 corde, dinamico nelle movenze e preciso nell’esecuzione. Le singole canzoni sono di per se splendide, eteree e sognanti, come da sempre gli Opeth ci hanno abituato. Resta da capire se questa propensione verso sonorità più soft sia una direzione intrapresa in modo definitivo, o se sia solamente un momento che Åkerfeldt e soci sentivano il bisogno di vivere in questo modo, pur attraverso scelte che non hanno certamente accontentato tutti (a volte tra il pubblico era palpabile una certa disapprovazione, in merito alla scelta dei brani proposti).
Un concerto quindi strano, difficilmente catalogabile come uno show propriamente metal, ai quali siamo abituati noi metallari. A me personalmente è piaciuto molto, è bastato rendersi semplicemente conto che quella sera all’Alcatraz non stava suonando una metal band a tutti gli effetti. Tuttavia, sono il primo ad additare qualche decisione avventata nella scelta dei brani centrali. Sono convinto che qualche episodio storico cantato in growl come “The Night And The Silent Water”, “Demon Of The Fall” o la maestosa “Blackwater Park” avrebbero letteralmente fatto crollare l’Alcatraz. Ma, ahimè, così non è stato: signori, questi sono gli Opeth del 2011, fautori di una musica sempre eccellente, ma votata (almeno per adesso) ad un lato più leggero e ricercato. Death metal o meno, chi dei presenti ama la musica e ama la band, di certo ricorderà lo show di stasera come un concerto memorabile.


Setlist:

01. Through Pain to Heaven (Intro)
02. The Devil's Orchard
03. I Feel The Dark
04. Face of Melinda
05. Porcelain Heart (with Drum Solo)
06. Nepenthe
07. The Throat of Winter
08. Credence
09. Closure
10. Slither
11. A Fair Judgement
12. Hex Omega
13. Folklore

martedì 22 novembre 2011

OPETH - Heritage


Eredità progressiva…

Nome Album: Heritage
Etichetta: Roadrunner Records
Data di uscita: 20 Settembre 2011
Genere: Progressive Rock

Introduzione:

Tra le uscite più attese in ambito progressive metal, dopo il succoso Iconoclast dei Symphony X e dopo l’attesissimo come back dei Dream Theater, con il virtuoso Mike Mangini dietro le pelli, annoveriamo in questa classifica anche il ritorno di una band amatissima in Italia, autrice di autentici capolavori del death progressivo macchiato di atmosferiche bordate anni ’70: stiamo parlando, indubbiamente, degli Opeth, la geniale band svedese capeggiata dal prolifico Mikael Åkerfeldt. Dal 1995, la band ha saputo sfornare degli album validissimi, in una costante ricerca della sperimentazione in bilico tra il death/doom metal ed i famosi e stupendi stacchi acustici, che hanno fatto grande questo combo di ottimi musicisti. Il precedente Watershed (2008) ha visto la band ammorbidire molto la composizione, a favore di un uso sempre più cospicuo di clean vocals e chitarre pulite, dando vita ad un capolavoro di consueta gran classe. Quest’anno la band ha deciso di stupire ancora una volta, dichiarando, prima della sua uscita, che Heritage non sarebbe stato un album metal. Il pensiero è andato subito al magico Damnation (2003), gioiello totalmente acustico,  amatissimo dai fans. Quindi, a conti fatti, come suona Heritage? Anche questa decima uscita degli svedesi è intrisa di gran classe ed ambiziosa capacità compositiva, ma, forse per la prima volta in questa lunga carriera, l’album fatica a decollare. Musicalmente siamo dinnanzi ad una decina di brani indubbiamente ispirati alla scena progressive anni ’70, tanto amata dal leader della band.  Regnano perciò chitarre acustiche e classiche, incursioni di batteria jazz, distorsioni vintage e un mood generale oscuro e psichedelico, come mai prima d’ora. Tuttavia, di fronte a cotanta elegante prelibatezza, il grave difetto di Heritage è quello di essere, in molte circostanze, un album forse troppo intimista, risultando lento e di difficile assimilazione in più di un’occasione. Intendiamoci, è un album indubbiamente valido, capace di suscitare inebrianti emozioni sonore, ma spesso manca di quel giusto appeal che ha fatto la fortuna dei grandi capolavori del passato. Va riconosciuto agli Opeth il coraggio per aver voluto sperimentare in modo così estremo e l’essere stati in grado di stupire l’audience ancora una volta. Ne è uscito un buon esperimento. Ci può stare, dopo più di sedici anni di carriera e dopo nove album in studio: ma, sinceramente, mi auguro di poter tornare al più presto a risentire i vecchi Opeth, così come abbiamo imparato ad amarli.


Track By Track:

Il primo tassello di questo controverso album è la title-track. “Heritage” è una delicata prestazione di pianoforte e contrabbasso, quest’ultimo suonato dal bassista Martin Mendez. Una piccola introduzione strumentale, dove solo questi due strumenti sono i protagonisti, incaricati di introdurre la particolarità stilistica di Heritage. L’opener vera e propria, nonché videoclip, è l’acida “The Devil’s Orchard”, brano simbolo degli Opeth del 2011. Stop’n’go, cambi di tempo, stacchi, rallentamenti, riprese e suoni che fluiscono in un unico vortice sconnesso di idee, senza dare bado a facili forme-canzoni, spesso estranee al contesto Opeth. Sei minuti di stranezza intrisa di idee allucinate e, a loro modo, geniali, in una piena atmosfera progressive, con tanto di hammond e chitarre dotate di distorsioni corrosive. Canzone sconnessa, da riascoltare per capirne la vera essenza. Il seguente “I Feel The Dark” è il brano migliore dell’album, a mio avviso, nonché quello più vicino alle prestazioni acustiche del passato di Åkerfeldt e soci. Giocata su un rapido arpeggio di chitarra classica, la song si sviluppa con un bel crescendo ed un ottimo arrangiamento, dipanando arpeggi ed atmosfere cupe, sempre con un’intrigante pacatezza esecutiva. Gli stacchi centrali danno un vigore maggiore alla canzone, con comparsa della distorsione e (per poco) della doppia cassa. Bellissimo brano, certamente particolare, ma dannatamente intrigante. “Slither” è un tuffo nel passato, a quel sound da cui l’heavy metal prese le mosse. Non abbiamo grosse difficoltà a ricondurre questa song alle cose migliori fatte da Deep Purple ed altri grandi musicisti di quegli anni. La batteria viaggia spedita per un bellissimo brano di hard rock settantiano. Non avevamo mai sentito Åkerfeldt in questa veste, ma la sua voce si sposa perfettamente con l’atmosfera graffiante creata dalla canzone. Brano breve e d’impatto, che si congeda con un bel finale d’arpeggio acustico. Il brano più lontano dalle produzioni Opethiane mai scritto dal leader Åkerfeldt. Il punto debole di Heritage è raggiunto a mio parere con “Nepenthe”, brano calmissimo, di una delicatezza disarmante nel suo proseguimento. Tralasciando qualche stacco centrale più dinamico e progressivo, il brano si staglia su partiture jazzate e soffuse, fin troppo estenuanti nella loro quiete esecutiva. Più che un brano vero e proprio, a tratti sembra di assistere ad una jam session. Ne risulta un brano troppo difficile da capire, lento nella sua progressione e, quindi, un po’ noioso ed inconcludente. Decisamente più accattivante “Haxprocess”, dove, ancora una volta, sono le chitarre classiche a farla da padrone, dando linfa ad un bel lento dotato di stupende melodie, a volte lente e riflessive, altre volte più velocizzate e dinamiche, ma sempre dotate di gran classe e di una spiccata vena settantiana. Il brano, nonostante la sua lentezza e i suoi vari cambi d’atmosfera, risulta davvero valido e composto in maniera impeccabile. Una lunga ed onirica sequenza d’arpeggio chiude questi sette imperdibili minuti di delicatezza targata Opeth. Da segnalare l’impeccabile lavoro di basso del bravissimo Martin Mendez. Le visioni musicali più distorte e schizoidi di Åkerfeldt prendono forma negli otto minuti di “Famine”, brano alquanto pretenzioso e di lenta comprensione. Difficile descrivere un brano del genere, dove una prima sognante parte di pianoforte, coadiuvata dalla calda voce del singer, lascia presto spazio a dei riff prog-rock allucinati e totalmente fuori da ogni schema, comprese incursioni di flauto sullo stile di Ian Anderson (Jethro Tull). I numerosi e sconnessi cambi d’atmosfera complicano l’assimilazione di un brano decisamente atipico ed estremamente eterogeneo. Ogni giudizio diventa soggettivo: c’è gente a cui piacerà da impazzire, c’è gente a cui non piacerà affatto. Altro controverso brano a firma di Åkerfeldt. “The Lines In My Hand” rialza il tiro aggiustando la rotta, con una song breve ma ispirata, con le consuete chitarre classiche a dettare arpeggi di notevole spessore. Entrano lievi distorsioni a disegnare una canzone dai toni particolareggiati, a metà tra un hard rock “deep-purpleliano” ed un atmosfera simil-orientaleggiante. Molto bella la parte finale, più aggressiva e vigorosa. Brano molto piacevole e sorprendente. “Folklore” è un’altra lunga perla di questa indecifrabile uscita discografica. Per circa otto minuti veniamo accompagnati da bellissime e soffici melodie arpeggiate, su un tappeto di hammond ed atmosfere settantiane. Una chitarra acustica ci introduce alla parte finale del brano, dotata di una saltellante sezione ritmica, facente da solida base per un incedere melodico ed atmosferico, con voce di Åkerfeldt e cori in lontananza che ci conducono verso il fade-out finale. Ottima la prova solista di Fredrik Åkesson. “Folklore” è un brano davvero notevole, in grado di stupire per cotanta capacità inventiva, annoverandosi tra i migliori di Heritage. Conclusione affidata all’atmosferica e morbidissima closer “Marrow Of The Earth”: sono le chitarre a parlare, a dettare l’emozione che solo gli Opeth riescono a regalare con i loro meravigliosi arpeggi e con le loro favolose malinconiche melodie. Niente voce, niente distorsioni. Entrano in seguito batteria e tastiera, sempre all’insegna della delicatezza, portando questo piccolo gioiello della musica alla sua conclusione. Il giudizio altalena tra alcune song valide ed altre meno. Ma quando sono valide, il capolavoro è sempre il giusto epiteto per suggellare ciò che esce dalla penna dei magici Opeth.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

La qualità c’è, l’eleganza e la classe pure. La tecnica è palpabile, così come l’ottima composizione. Verrebbe da chiedere cosa manca a questo Heritage per essere ascritto come un altro dei capolavori della band. Finora, solo il death-oriented Delivarance (2002) ha subito la stessa sorte, ovvero quella di essere considerato un valido lavoro, ma non all’apice dei rimanenti masterpieces. Ma qui l’intento è diverso fin dal principio, perché diversa è la musica che gli Opeth hanno provato (o meglio, rischiato) di proporre. Il mio personale consiglio, da fan sfegatato della band in questione, è quello di non soffermarsi ad ascoltare brevemente Heritage, per poi screditarlo in una manciata di pareri negativi, ma di coglierlo attimo dopo attimo, per capirne l’anima e l’essenza, partendo già con l’idea che qui dentro vige qualcosa di insolito rispetto alle consuete mega-suite di death progressivo. Ciò che esce e si impone è il lato più jazz e sperimentale, che affonda le radici nel prog-rock d’annata. Mikael Åkerfeldt sfoggia clean vocals calde e sentimentali, ripudiando, per l’occasione, il catacombale growl degli estri death. Le chitarre sussurrano decadenti e melanconiche armonie, fenomenali nei loro intrecci melodici, con i buoni interventi solisti dell’ex-Arch Enemy Fredrik Åkesson. La batteria del “timido” Martin Axenrot vola leggiadra su bizzarri tempi spesso jazzati, il bass-man Martin Mendez conferisce, come sempre, quel qualcosa in più alla completezza delle partiture Opethiane, ed infine le stesure tastieristiche, divise tra il dimissionario Per Wiberg e la new entry alle keys Joakim Svalberg, sottolineano con decisione l’anima prog-rock del disco, senza necessità di stupire in eccessi virtuosistici. Ripeto allora, cosa c’è che non va? E’ forse la copertina, in perfetta linea con lo stile “vecchio” del disco? No, anche quella è ricca di colori e dettagli. Particolare, anche se non eccezionale. E’ la produzione? Figurarsi, perfetta anche quella per il contesto. E’ semplicemente il fatto che qualche brano non funziona a dovere. Le canzoni, oggettivamente parlando, spesso non sono amalgamate con la solita maestria che contraddistingue la band svedese. Sono costretto a ripetermi: è un disco da capire, che possiede un suo perché. Io agli Opeth perdono tutto, anche qualche piccola svista all’interno di Heritage, un’opera valida e sufficientemente gustosa. Ma allo stesso tempo auspico un ritorno ai bei tempi dei maestosi Morningrise o Blackwater Park. Intanto, appuntamento  all’Alcatraz il 24 Novembre…


Tracklist:

01. Heritage
02. The Devil’s Orchard
03. I Feel The Dark
04. Slither
05. Nepenthe
06. Haxprocess
07. Famine
08. The Lines In My Hand
09. Folklore
10. Marrow Of The Earth


Voto: 7,5/10