lunedì 24 ottobre 2011

MALEVOLENTIA - Ex Oblivion


Nere sinfonie d’oltralpe…

Nome Album: Ex Oblivion
Etichetta: Epictural Production
Data di uscita: 30 Marzo 2011
Genere: Symphonic Black Metal

Introduzione:

Anche in Francia sanno fare black metal. E’ proprio il caso dei Malevolentia, promettente band d’oltralpe nata nel 2003 ed autrice di due album, il discreto esordio Contes et Nouvelles Macabres (datato 2005) e questo nuovo Ex Oblivion, parto più maturo e frutto di una sapiente tecnica e composizione maturata dal quintetto durante gli ultimi anni. No, non avete capito male leggendo i titoli: la peculiarità di questa band è proprio la ferrea volontà di voler usare la lingua madre nelle loro composizioni. Avreste mai detto che una lingua così morbida come il francese, potesse adattarsi ad un genere spietato ed estremo come il black metal sinfonico? I Malevolentia sono la risposta alle vostre diffidenze. Come se non bastasse, alla voce godono della maligna presenza di Spleen, una ragazza dalle scream vocals evocative e strazianti (nel senso buono del termine), aggiungendo quel qualcosa in più alla proposta del combo. Al di là di queste interessantissime novità, inconsuete per un gruppo black, la musica dei Malevolentia (non abbiatemene a male per l’abusato paragone in questo campo) è fortemente influenzata dai maestri del genere, i norvegesi Dimmu Borgir, nonché da altre band di rilievo come Dragonlord e (molto in lontananza) i britannici Cradle Of Filth. Pertanto, anche alla luce della difficoltà d’evoluzione di un genere molto stretto ed inquadrato come il sympho-black, anche la band francese soffre di una palpabile mancanza d’inventiva, salvo proporci brani estremamente coinvolgenti e dotati comunque di una già apprezzabilissima maggior originalità generale rispetto ad altre band musicalmente affini. Quindi, bisogna partire ad ascoltare i Malevolentia partendo proprio da questo presupposto, senza impallarsi di fronte ad un riff sentenziando la sua estrema somiglianza con i più blasonati Dimmu o compagnia. Le somiglianze ci sono e sono palesi, è vero, ma se voi, amanti delle sinfonie oscure e solenni del sympho-black, siete rimasti delusi dalle recenti altalenanti uscite dei succitati Dimmu Borgir, fate un favore a voi stessi: staccatevi dal filone più conosciuto e “commerciale” del black sinfonico e concedete un ascolto a questi meritevoli ragazzi francesi. Non rimarrete delusi nel constatare quanta veemenza riescono a sprigionare, così come comprenderete quanto esistano, come loro, molti talenti spesso sconosciuti al grande pubblico, ma dannatamente validi, a volte anche molto più di tanti più blasonati act del settore.


Track By Track:

La seconda creatura dei francesi si apre con un’introduzione, breve e sinfonica, come di consueto si usa fare nella maggioranza delle releases di black metal sinfonico. “Ex Libris Oblivionis” ha quindi il dovere di aprire l’opera nella maniera più classica possibile, attraverso un minuto di inquietanti sinfonie e cori che ricordano ben presto i maestri Dimmu Borgir più recenti e sinfonici. Già con l’opener “Serpent De La Corde”, i Malevolentia ci sbattono in faccia un tremendo riff che ben delinea lo stile e le caratteristiche del loro sound. Un uso imponente (ma sapiente) del blast-beat, melodie di stampo horror, volte a definire un lugubre senso di inquietudine nell’ascoltatore, partiture sinfoniche, mai troppo invadenti, a servizio di riff assassini nel classico stile black metal. Questi saranno gli ingredienti di base che ritroveremo in questo Ex Oblivion, tra cui spicca la voce della singer Spleen, tagliente e sofferta come poche. Infatti, anche con la seguente “Martyrs”, dopo una breve introduzione corale, veniamo letteralmente travolti da una furia di metallo nero, con tempi velocissimi ed un alto tasso di garantita angoscia musicale. Bellissimi gli interventi corali in varie parti del brano, a sottolineare l’atmosfera cupa già creata dagli altri strumenti. Non concedono un solo secondo di respiro, fino al break di pianoforte che ci conduce alla conclusione dei 6 minuti di questo lungo e spietato brano. L’ombra dei Dimmu torna prepotentemente con la seguente “A L’Est D’Eden”, brano dotato di buonissime melodie, anche se, inevitabilmente, non troppo originali. Stesso discorso per il bellissimo stacco sinfonico centrale: atmosferico e perfetto nel contesto, ma già abusato e stra-abusato da miliardi di gruppi sulla Terra. Come impone lo stile, giunge anche per Ex Oblivion l’ora dell’intermezzo sinfonico: arrangiamenti orchestrali ben fatti, con perizia e classe, si sfogano in due minuti di epiche sinfonie cinematografiche, battagliere ed inquietanti, degne di film a tematica storica o fantasy (Il Signore degli Anelli, giusto per farne un esempio). Tutto questo prende il nome di “Dies Irae”. Un arpeggio distorto apre il capitolo seguente, intitolato “Dagon”. Le coordinate stilistiche sono le medesime dei brani precedenti, ma si intravede qui una maggiore personalità nel saper creare un senso di angoscia disarmante, attraverso voci sofferte e disperate e attraverso alcune plumbee melodie. Azzeccato lo stacco thrash, localizzato più o meno a metà brano, così come i mai invasivi arrangiamenti orchestrali. Una song riuscita e leggermente differente dal resto del lavoro. Dei possenti brass d’orchestra aprono “Nyarlathotep”, per poi sfociare negli ordinari riff classicamente black metal, costruiti su tempi fulminei, chitarre veloci e batteria al fulmicotone. In mezzo a tanta cattiveria, c’è sempre uno spazio per la melodia, come dimostrano i vari stacchi melodici lungo il brano. Canzone nella media stilistica dell’album. La title-track “Ex Oblivion” apre le danze con lugubri suoni di pianoforte, melodie oscure e maledette e voci demoniache, narranti di incubi e immaginari orrorifici e “lovecraftiani” (nel testo si fa riferimento a Chtulu), con un apparente rallentamento dei tempi d’esecuzione, salvo poi riprendere velocità e brutalità nel corso del brano. Abbiamo tra le mani una song riuscitissima ed originale, grazie anche ad alcuni inserti più thrash-oriented. Ancora aperture dinamiche ed ultraveloci con la penultima “La Nonnet Et L’Incube”, song da annoverare tra le più riuscite dell’album, assieme a “Martyrs” e la title-track. Non fraintendetemi, lo stile e le cadenze sono identiche a quelle dei brani precedenti, e, da questo punto di vista, abbiamo ormai capito che chiedere ai Malevolentia di scrivere qualcosa di innovativo è una richiesta, giustamente, troppo esosa. Tuttavia alcuni riff più ricercati e ragionati lasciano spazio ad una maggiore attenzione da parte dell’ascoltatore, per non parlare dello stupendo crescendo finale, in cui la nostra Spleen si diletta in alcuni lamenti di piacere/sofferenza, mentre le chitarre e la batteria si rincorrono in un vortice sonoro senza via di fuga. Brano oppressivo ed angosciante all’inverosimile. Arriviamo al finale con “La Geste Du Corbeau”, introdotto da un carillon e da soffusi cori. Il brano per quanto piacevole, scorre lungo partiture già sfruttate nelle tracce precedenti, nonostante la presenza di un assolo di chitarra ben fatto (ne avessero aggiunto qualcuno in più, sicuramente non avrebbe guastato all’economia dell’intero lavoro) e di alcune interessanti parti di basso sotto un imponente e claustrofobico blast-beat. Magniloquente e ben costruita anche la bella coda sinfonica, che sfuma nel vuoto della disperazione: un sentimento cantato con frenesia e sofferenza in questo bellissimo e promettente album dei Malevolentia.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Indubbiamente questi Malevolentia rappresentano una bella scoperta ed una nuova realtà da tenere d’occhio nel panorama black. Abbiamo già più volte sottolineato gli inevitabili, quanto scontati, paragoni con la band norvegese di Shagrat, ed indubbiamente l’intero platter ne risente molto, essendo dotato delle classiche caratteristiche sonore del black sinfonico, genere diventato grande e diffuso presso il grande pubblico metal proprio grazie alle opere dei Dimmu Borgir. Tuttavia i 5 francesi, nel marasma incontenibile di quelle che sono le miliardi di band-fotocopia dei Dimmu, riescono nell’intento di donare maggiore spessore e personalità alla propria proposta (o almeno nelle sensazioni). Partiamo dalla “dolce” presenza di Spleen, una singer dallo scream nitido ma non troppo acuto, spesso volto all’interpretazione disperata e decadente più che all’estensione. Una frontwoman davvero notevole ed impressionante per come riesca a donare quel qualcosa in più di personale a dei brani altrimenti più stantii. Le due asce Arbaal e Apathy sciorinano riff veloci e precisi, forse inevitabilmente poco personali, ma comunque necessari per la resa dell’isterismo black. La sezione ritmica si muove con velocità e perizia tecnica, con un martellante Thyr alla batteria, che imbastisce soprattutto fulminei blast-beats e “tu-pa tu-pa” d’ordinanza, senza variare troppo nell’inventiva, ma di sicuro convincente in termini di perfezione esecutiva. Il basso di Tzeensh è presente seppur poco dinamico, spiccando in rare occasioni all’interno dell’album. La produzione non eccelle in pomposità, ma risulta comunque nitida, enfatizzando maggiormente il suono delle chitarre. Infine, esemplari ed ottimamente arrangiate risultano le orchestrazioni, in grado di sottolineare cupe atmosfere che fanno sostegno a testi devoti, soprattutto, ad un immaginario horror e d’incubi notturni. A testimonianza di ciò, basta guardare l’immagine di copertina. Immagine che, a parer mio, poteva essere curata maggiormente, ma questo poco importa poiché dinnanzi abbiamo un lavoro spesso scontato o ripetitivo nelle strutture musicali, ma dannatamente riuscito nell’intento di essere oscuro ed angosciante fino al midollo. Consigliato.


Tracklist:

01. Ex Libris Oblivionis
02. Serment De La Corde
03. Martyrs
04. A L’Est D’Eden
05. Dies Irae
06. Dagon
07. Nyarlathotep
08. Ex Oblivion
09. La Nonnet et L’Incube
10. La Geste Du Corbeau


Voto: 8/10

martedì 18 ottobre 2011

HAMMERFALL - Infected


Quando il martello perde la mira…

Nome Album: Infected
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 20 Maggio 2011
Genere: Heavy Power Metal

Introduzione:

Signore e signori, diamo il benvenuto all’atteso ritorno di una delle band più importanti nel panorama heavy moderno, gli Hammerfall! A distanza di due anni da No Sacrifice No Victory, gli svedesi di Goteborg tornano con un album di classico heavy metal, ottimamente prodotto e ottimamente suonato. La copertina e l’annesso titolo avevano destato, prima dell’uscita del full-lenght, una certa curiosità circa il possibile cambio di rotta che la band avrebbe potuto assumere. Insomma, vedere, dal 1997 ad oggi, sempre il nostro caro templare-martellatore sulle loro copertine ed improvvisamente ritrovarsi una mano insanguinata stile Resident Evil o altri videogame survival horror, certamente qualche sospetto lo ha destato. Ad ascolto effettuato però, possiamo dire che, nonostante ovvie variazioni dal punto di vista lirico (meno fantasy e più sociale nelle tematiche), la pasta rimane la stessa: le stesse strutture e gli stessi arrangiamenti del passato vengono infatti ripresi ancora una volta, stroncando sul nascere la possibilità di avere tra le mani degli Hammerfall finalmente diversi e cambiati. E’ storia risaputa ormai, come gli Hammerfall siano sempre stati (troppo) coerenti con se stessi durante la loro carriera, portandoli spesso ad inequivocabili autocitazioni, attraverso riff di puro stampo heavy-power metal e strutture che definire classiche è un eufemismo. Insomma, quello che rappresentano i Manowar nel continente americano, lo fanno gli Hammerfall in Europa (proclami sul “true heavy metal” a parte). Tant’è che anche questo nuovo Infected, musicalmente, viaggia sulle stesse coordinate stilistiche delle uscite precedenti. Non staremo certo a soffermarci su questo, poiché, se la musica è ben fatta ed esaltante, per quanto ripetitiva possa essere, è pur sempre innegabilmente degna di nota (lo testimoniano alcuni loro vecchi album, tra cui l’esordio Glory To The Brave o Legacy of Kings). Se i due album precedenti, in fin dei conti, sono risultati essere due platter discreti e nella media compositiva del gruppo svedese, il problema qui è che molte delle 11 canzoni del nuovo album, purtroppo, non riescono a centrare l’obiettivo, risultando spesso dispersive e deconcentranti. Che le idee stiano seriamente iniziando a scarseggiare? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che, a prescindere da questo, ci sarà qualcuno che troverà questo Infected come un nuovo capolavoro tra i tanti della band. Obiettivamente parlando, mi permetto di discostarmi da questa fazione di persone, perché se è vero che qualche riff e qualche song sono degne del passato marcato Hammerfall, altre certamente sfigurano e non rientrano in quest’ultima categoria. Il cambio di tematiche, quindi, non è servito a dissuaderci. Pare proprio che il martello stia perdendo la mira, e ci auguriamo che in futuro possa essere in grado di riprendere il giusto equilibrio.


Track By Track:

Un’introduzione atipica ci catapulta subito in un’atmosfera da videogame horror, con tanto di segnali d’allarme in un ipotetico laboratorio scientifico da cui è appena scappata qualche creatura infettata dal puntuale morbo del morto vivente o via dicendo. Tempo qualche secondo e gli Hammerfall del 2011 ci sbattono in faccia il potente riff di “Patient Zero”, mid-tempo d’apertura di questo nuovo Infected. La partenza merita un plauso, i riff sono intriganti e da indubbio headbanging e la song in questione prosegue su binari sicuri, tra sprazzi più melodici e accelerazioni forse un po’ forzate. Un brano nella media degli ultimi lavori in studio degli svedesi. Le cose iniziano a concretizzarsi con la seguente “Bang Your Head”, eloquente fin dal titolo persuasivo. Un brano più semplice e più diretto, forse per questo più vicino alla classica produzione Hammerfall: tempi veloci, riff in pieno stile heavy metal. Song carina e scorrevole, ma incapace, senza dubbio, di aggiungere alcunché a quanto già sentito negli ultimi 20-30 anni e purtroppo lo scialbo intermezzo semi-acustico non aiuta nell’intento. Stuzzicante, anche se standard, l’assolo centrale di chitarra. Arriviamo al singolo apripista dell’album, correlato ad un video con tanto di zombie che inseguono gli Hammerfall stessi: “One More Time”. I riff di chitarra sono potenti,  abbastanza accattivanti e come tali anche il ritornello non sfigura, ma, purtroppo, l’impressione generale è quella di avere tra le mani un brano incapace di decollare, assemblato in maniera piuttosto scarna e sbrigativa negli arrangiamenti (tra l’altro, era totalmente evitabile l’inutile ed inadeguato intermezzo di pianoforte). Quindi, anche dopo ripetuti ascolti, lo stimolo è sempre quello di skippare una song inconcludente e poco riuscita, nel suo complesso. Molto meglio con la seguente “The Outlaw”, dotata di un ottimo riff e velocità sostenuta. Un’ottima power metal song graffiante e spietata, degna del miglior passato Hammerfall. Azzeccato l’evocativo bridge ed il ritornello rallentato, nonché l’ottimo assolo dell’axeman Pontus Norgren. La struttura semplice la rende scorrevole nonché immediatamente memorizzabile nelle sue melodie, fino al bellissimo finale più energico ed armonico. Un ottimo pezzo quindi, che fa da preludio all’immancabile ballad acustica: questa volta è il turno di “Send Me a Sign”. Chitarra acustica e voce assoluti protagonisti nella prima parte del brano, fino alla ripresa dell’ultimo ritornello, con batteria e chitarre distorte sul finale. La voce di Joacim Cans tesse melodie su melodie, accompagnata dal delicato tocco di un arpeggio acustico. L’evocativo refrain rende il brano abbastanza interessante, anche se alla fine dell’ascolto non percepiamo quella sensazione di compiutezza e carica emotiva che ci si aspetterebbe da una ballad. Se poi teniamo anche conto che non si tratta di un brano scritto dagli svedesi, ma di una cover dei Pokolgép (gruppo ungherese), la song diventa ulteriormente trascurabile nell’analisi globale del disco. Finalmente si torna a pestare sull’acceleratore con “Dia De Los Muerto”, brano dai connotati power, con tanto di doppia cassa martellante e ritmiche velocizzate, con melodie a tratti cupe e a tratti più ariose. Anche in questo caso la struttura risulta semplice e classica nella sua impostazione, ma ciò non toglie che il brano sia valido e piacevole. L’assolo di chitarra non è particolarmente innovativo e magari qualcosa in più poteva essere tirato fuori dalla mente di Norgren, che si limita a proporre tapping velocizzati e lente melodie armonizzate. L’unica virgola è il finale: piuttosto insipido, ci dà la sensazione di essere stato abbozzato in un lasso di tempo breve, senza prendersi troppo la briga di elaborarlo ed arrangiarlo in maniera più degna, lasciandoci l’amaro in bocca. Peccato, perché il pezzo in se è semplice ma buono. “I Refuse” è un altro classico pezzo alla Hammerfall, un mid-tempo carico d’adrenalina negli accattivanti riff del chitarrista-fondatore Oscar Dronjak. L’incedere è marziale e piuttosto classico, senza strafare in soluzioni troppo contorte o sperimentali (dagli svedesi, abbiamo capito che non ci si può aspettare più di questo), anche se va segnalato almeno l’intento di cambiare un minimo le carte in tavola e sperimentare qualche piccola soluzione nuova, grazie ad un ritornello strano, stantio, cupo e controverso. Potrà piacere o non piacere, ma almeno l’attenzione si desta per l’ascolto di qualche soluzione melodica diversa rispetto allo standard. Proseguiamo l’album con “666 – The Enemy Within”, dove, dopo un’atipica introduzione con tanto di suoni elettronici di tastiera, ancora una volta abbiamo riff di chitarra piuttosto insipidi e privi di inventiva, mal incastrati tra loro, rendenti quindi il brano scialbo e poco scorrevole. “Immortalized” ci presenta finalmente dei riff e delle ritmiche più interessanti, pur rimanendo fortemente ancorata all’heavy sound degli svedesi. Questo sano mid-tempo non farà certo gridare al miracolo, ma gode di una certa scorrevolezza nel suo incedere. Godibili anche l’intermezzo e il veloce assolo di chitarra centrale. Resta quindi un brano discreto, anche se gravato dalla pecca di un’ulteriore senso di incompiutezza nell’arrangiamento e nella costruzione. A risollevare il tiro ci pensa “Let’s Get It On”, che fin dall’introduzione ci fa palesemente capire che il suo intento sia quello di fare faville in sede live. La portata è tipicamente heavy vecchia scuola, con una veloce cavalcata a supportare la strofa, fino al refrain di stampo hard rock-heavy in pieno stile Hammerfall. Niente di nuovo, non una sola struttura leggermente innovativa, solo fottutissimo ed esaltante heavy metal che vi ritroverete a canticchiare sotto la doccia. La conclusiva e lunga “Redemption” chiude in maniera discreta e nulla di più questa nuova altalenante fatica di Dronjak e soci, presentandoci un brano dai toni epici, con organo in primo piano. La semplice strofa semi-acustica apre la strada ad un ritornello carico e pomposo, con un ottimo Joacim Cans sugli immancabili acuti. Interessante il lungo intermezzo solistico, che sfocia poi nei riff finali consegnandoci così gli Hammerfall del 2011: band che, a giudicare da questo Infected, forse ha bisogno di un lungo esame di coscienza per ritrovare la rotta ed il tiro giusto. Glory To The Brave insegna, ragazzi.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Ahi ahi, questa volta i templari dell’heavy hanno toppato alla grande. A parere di chi scrive, gli Hammerfall hanno dato alla luce il peggior album di tutta la loro discografia. A conti fatti, solo una canzone è veramente degna di nota in tutto e per tutto, ovvero “The Outlaw”, mentre, per il resto, siamo sommersi da una marea di riff (alcuni ottimi, alcuni discreti) che soffrono però del tremendo difetto di non essere modellati ed assemblati con gusto, perizia compositiva e personalità, e ciò rende l’album piuttosto trascurabile. A fine ascolto, manca infatti lo stimolo giusto per poter tornare ad ascoltare questi 11 brani. La negatività di questa uscita si scontra con un’ovvia produzione potentissima e pulita, e con un tasso tecnico comunque buono e di spessore. Joacim Cans, alla voce, si snoda sempre sulle stesse linee vocali del passato, talvolta soffrendo della mancanza di una dinamica “metal” necessaria per dare la giusta aggressività ai brani. Oscar e Pontus, alle due asce, eseguono a puntino il loro compito, il primo macinando riff su riff, sempre semplici ma potenti e graffianti, ed il secondo capace in varie occasioni di sorprendere con ottimi solos ispirati, tecnici e veloci. La sezione ritmica non si scomoda più di tanto ed il basso di Fredrik Larsson si attiene a seguire le ritmiche di chitarra, pompando a dovere le frequenze basse senza uscire dal proprio schema. Lo stesso dicasi per la batteria di Anders Johannson, anche se più di una volta si dimostra più coinvolto e dinamico rispetto ai vecchi lavori. Detto in altri termini, il packaging (produzione, tecnica, grafica ecc…) di questo nuovo Infected è perfetto, ma al suo interno non c’è nulla: manca la sostanza, manca l’anima che movimentava il coerente heavy metal di dischi come Legacy Of Kings o Crimson Thunder. Cari Hammerfall, quella mano insanguinata in copertina, per quanto bella, non basta per dissuaderci: attendiamo che il buon vecchio martellatore si riprenda a dovere, riportando in auge idee ripetute e riprese quanto volete, ma che almeno siano ben fatte. Diamo un sei di incoraggiamento, anche per la coerenza che la band si trascina dietro dagli esordi, ma se l’intento era quello di creare del metallo contagioso, stavolta non potevano scegliere un titolo più sbagliato di questo “Infected”. 


Tracklist:

01. Patient Zero
02. Bang Your Head
03. One More Time
04. The Outlaw
05. Send Me A Sign
06. Dia De Los Muertos
07. I Refuse
08. 666 – The Enemy Within
09. Immortalized
10. Let’s Get It On
11. Redemption


Voto: 6/10

mercoledì 12 ottobre 2011

Live Report: EDGUY, Alcatraz, Milano, 10-10-2011

Live Report – EDGUY
 (+ Kottak)
Alcatraz, Milano, 10-10-2011

Un grande evento ha toccato il suolo lucido dell’Alcatraz, in quel di Milano, il giorno 10 Ottobre. Questo giorno ha visto come indiscussa protagonista una delle band più amate del power metal tedesco e mondiale: “ladies and gentleman, welcome to the freak show”! Gli Edguy sono tornati, puntuali, dopo due anni dalla tappa al Rolling Stones del 21 Gennaio 2009 (tappa a cui il sottoscritto era presente) a supporto del riuscito e stuzzicante “Tinnitus Sanctus”. E’ un periodo roseo per la band di Fulda, forte del successo del neo-nato “Age Of The Joker”, album vario, ricco di sfumature ed incredibilmente fresco (link recensione: http://recensionimetalfil.blogspot.com/2011/09/edguy-age-of-joker.html). Il tour di supporto del suddetto album, quindi, tocca anche la storica location milanese per una data che i presenti difficilmente riusciranno a dimenticare. Ad accompagnare il carismatico leader Tobias Sammet e compagni ci pensano i Kottak, nientemeno che la band di James Kottak, l’attuale batterista degli immensi Scorpions, presentandosi con la sua band personale nelle differenti vesti di chitarrista e vocalist dall’energia prettamente rock’n’roll. La scelta di far aprire lo show dei tedeschi ai Kottak non può che suscitare perlomeno un po’ di curiosità: la musica proposta dal drummer, infatti, sta al metal quanto una banana sta aalla verdura, ed è un semplicissimo ma efficace (almeno dal vivo) punk tinteggiato di hard rock stradaiolo e graffiante. Fatta questa premessa, vediamo un po’ come si è svolto uno dei migliori concerti del 2011.  
Arriviamo davanti ai cancelli del locale intorno alle 17, il tempo meteorologico è semplicemente perfetto: non ci si ritrova a sudare (diamine, siamo anche a ottobre) e nemmeno a dover patire freddi gliaciali, non v’è traccia di vento e la temperatura, insomma, è giusta per non affaticare troppo corpo e mente. Tutto procede come da programma: la coda all’esterno si fa via via più numerosa, finchè alla 19 i cancelli aprono al pubblico. Possiamo così accedere al locale. Tempo una mezz’ora circa e sul palco si presentano i KOTTAK! I ritmi si fanno subito accesi ed il pubblico inizia a percepire l’atmosfera del concerto, incitando ed applaudendo il quartetto americano. Certo, ci vorrà qualche canzone per smuovere il numeroso pubblico dell’Alcatraz, che, inizialmente, sembra essere quasi assente, spaesato per una musica così fuori dagli standard metallici (immagino che più di un metallaro abbia storto il naso, dinnanzi al punk rock della formazione). Ma, in fondo, si tratta nient’altro che di sottigliezze, a dimostrazione che l’amicizia tra Scorpions ed Edguy va ben oltre una mera questione di etichette musicali. James dimostra di avere esperienza sul palcoscenico, lanciandosi in performance sciolte e decise, per quanto semplici dal punto di vista esecutivo. La formazione appare affiatata, in particolare un ottimo Francis Ruiz dietro alle pelli. I 45 minuti a disposizione per l’opening act, quindi, si dispiegano senza forzature e con grande feeling, tra momenti di divertimento (magliette di Katy Perry che nascondo in sequenza altre t-shirts di Edguy, Scorpions e Kottak), esecuzioni alla batteria da parte dello stesso James e palloncini che volano tra il pubblico. Tra gli episodi più riusciti abbiamo brani come “Rock ‘n’ Roll Forever” e “Scream With Me” (entrambi dall’album “Rock ‘n’ Roll Forever”), “So Disconnected” e la conclusiva “Time To Say Goodbye”, pescate dal nuovo lavoro in studio “Attack”. Insomma, i Kottak infarciscono i presenti con una buona dose di energico ed adrenalinico punk rock per scaldare la folla. Simpatici, bravi e coinvolgenti…almeno on stage.
Un quarto d’ora circa di cambio palco ed alle 21 salgono in scena i joker del power metal, gli attesi EDGUY! Introdotti da musiche da circo e dal consueto intro narrato di Tobias, la band parte alla grande con “Nobody’s Hero”, pezzo tirato e heavy presente nell’ultimo nuovo album. Il delirio è cominciato, diventando fin troppo incivile nelle prime due songs, a causa di alcuni ignoti “pogatori” che altro non fanno che disturbare la magia dello show (insomma, ammettiamolo: ormai il pogo, più che un divertimento, sta diventando un fastidio, soprattutto in luoghi così piccoli e densi di gente). Inciviltà a parte, i brani si susseguono con una carica incredibile: segue la power hit “The Arcane Guild” sempre da AOTJ ed è già ora di quel super-classico magistrale ed epico che porta il nome di “Tears Of A Mandrake”. Dalla prima all’ultima canzone, il pubblico in visibilio lascia il fiato ad ogni ritornello, trasformando l’Alcatraz in un coro imponente e divertito come non mai. Tra un classico e l’altro, Tobi si rende assoluto protagonista, trascinando la folla come un giullare carico d’energia, attraverso battute sul nostro presidente del consiglio, sul merchandise esposto fuori dal locale, sull’heavy metal, su Bon Jovi nonché sui grandi Iron Maiden, omaggiati spesso durante il corso della serata. Che dire, Tobias e compagni si sanno divertire e fanno divertire, ed in questo sta la vera forza ed emozione che solo un loro concerto sa sprigionare. Come si fanno a trattenere i sorrisi quando, nell’intermezzo dell’incredibile “Robin Hood”, al posto della narrazione presente su disco, Tobi si lancia nella narrazione di “Seventh Son of a Seventh Son” dei Maiden? Solo lui, animo mattatore, poteva fare una cosa del genere! Tra le performance migliori sono da ricordare “Ministry Of Saints” (con incontenibile risata di Tobi durante tutto il brano), la divertentissima “Rock Of Cashel” (avreste dovuto esserci per capire quanta allegria sa sprigionare), il solito gioco con il pubblico prima del dirompente hard rock di “Lavatory Love Machine”, la vecchia ma immortale “Vain Glory Opera”, con divertenti richiami a “The Final Countdown” degli Europe, e il primo encore, ovvero l’immancabile e richiestissima a gran voce “Babylon” che, come al solito, fa impazzire il pubblico milanese, a testimonianza di quanto accadde anni fa con la suddetta song, proprio a Milano. In questa canzone Tobi cita “Eagle Fly Free” degli Helloween, cantata sul refrain, e prima dell’acuto finale, gli Edguy, tra uno sketch e l’altro, deliziano il pubblico con alcuni minuti di cover di “Hallowed Be Thy Name” e “The Trooper” delle leggende dell’heavy. Decisamente uno dei momenti più intensi e divertenti dell’intera serata. I ragazzi sono decisamente in forma, e sorprende come Tobias, nonostante una recente laringite che ha costretto la band a saltare tre date tedesche del tour, sia ancora più sicuro e preciso rispetto al passato. Gli acuti sono perfetti e la sua prestazione generale è davvero dotata di maestria e gran classe: alla faccia della laringite! Bravo anche Jens Ludwig, dall’impeccabile e graffiante lavoro alla chitarra solista. Il resto della band si muove con precisione e professionalità sui propri strumenti (su tutti un Felix Bohne dietro alla pelli, protagonista di un bel drum solo, quest’anno basato sulla sigla dell’A-team…geniale!), senza disdegnare il divertimento ed il coinvolgimento, sempre presenti (nonché fondamentali) per gli Edguy. Anche i suoni sono risultati decisamente buoni, senza troppa esagerazione nei volumi e ben bilanciati per tutti gli strumenti.
In conclusione, i grandissimi Edguy hanno dato prova di essere ancora sulla cresta dell’onda, di essere in forma più che mai e decisi a spaccare il mondo, con la sola forza delle loro note e del loro naturale ed irresistibile senso del divertimento. Più che un concerto, un vero e proprio spettacolo, come giustamente dovrebbe essere uno show come questo. Grazie Edguy per aver dimostrato, ancora una volta, che la musica deve saper prima di tutto divertire ed entusiasmare, e per avermi regalato il più bel concerto a cui abbia mai partecipato…e sono convinto di non essere l’unico a pensarla in questo modo. Inciviltà a parte, una giornata davvero memorabile.   


Setlist :

01. Intro
02. Nobody’s Hero
03. The Arcane Guild
04. Tears Of A Mandrake
05. Pandora’s Box
06. Rock Of Cashel
07. Lavatory Love Machine
08. Behind the Gates to Midnight World
09. Superheroes
10. Robin Hood
11. Drum solo
12. Ministry Of Saints
13. Vain Glory Opera
14. Babylon
15. King Of Fools