lunedì 20 dicembre 2010

EQUILIBRIUM - Rekreatur


Una band ancora in equilibrio…

Nome Album: Rekreatur
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 18 Giugno 2010
Genere: Folk Metal/Viking Metal

Introduzione:

Il bel disegno evocativo della copertina ci presenta gli Equilibrium del 2010. La giovane band ha all’attivo, con questo nuovo lavoro, solo 3 album, ma ha saputo, incredibilmente, ritagliarsi un posto di ampio spessore nel panorama del folk metal mondiale. E’ infatti impossibile rimanere attoniti di fronte al loro capolavoro e predecessore Sagas, un album tanto pompato nella produzione quanto capace di evocare atmosfere folk di notevole spessore e coinvolgimento. Dopo l’uscita di Sagas, alcuni problemi di line-up hanno minato la band (in primis, la dipartita del singer Helge Stang), ma questo non sembra aver colpito troppo la bontà del songwriting di questi ragazzi tedeschi. Con questo nuovo Rekreatur, infatti, abbiamo fondamentalmente il connubio e la riproduzione delle idee che hanno fatto grandi l’esordio Turis Fratyr ed il già citato Sagas, senza apportare grosse modifiche al sound corposo e corale della band. Tuttavia il lavoro, come vedremo meglio in sede di track-by-track, presenta delle nuove ottime idee ed arrangiamenti, accompagnati però da vari episodi meno riusciti e con un minor potenziale rispetto agli episodi nei dischi precedenti. D’altro canto, i fan sfegatati del gruppo tedesco difficilmente rimarranno delusi dalle avvincenti melodie e dall’evocativo impianto sinfonico-corale da loro proposto, ormai diventato un chiarissimo ed ineguagliabile marchio di fabbrica (assieme al cantato in lingua madre) nella loro musica. La Nuclear Blast, è risaputo, offre sempre al proprio pubblico delle band molto valide e spesso molto interessanti, tra le quali rientrano anche questi Equilibrium, che nonostante la finora breve esistenza, sono riusciti a portare una buona percentuale di freschezza nell’affollato mercato del power europeo dall’impianto folkloristico. Detto questo, non mi resta che consigliarvi l’ascolto di questo valido album ed augurarvi di restare affascinati da quanto proposto dalle atmosfere e dalla musica degli Equilibrium.


Track By Track:

L’apertura dell’album è affidata a “In Heiligen Hallen”, song perfetta per aprire le danze e far intendere che i cambi di line-up non hanno danneggiato il modus operandi della band. La canzone si protende attraverso una struttura decisamente power-speed, su un tappeto sinfonico-folkloristico notevole, impreziosita da decelerazioni, accelerazioni, numerosissimi stop’n’go e altrettanto numerosi cambi d’atmosfera, che rendono il brano sublime ed elegante, all’altezza di quanto già proposto dalla band in passato. Il timbro vocale del nuovo cantante segue la scia del precedente singer, con numerosi cambi tra stili scream e growl. La successiva “Der Ewige Sieg” ripropone le stesse coordinate stilistiche del brano precedente, ma, essendo più breve, risulta di maggior impatto e, quindi, più diretta. Il brano (scelto, non a caso, come primo singolo) si apre con delle melodie folkeggianti, accompagnate da un roccioso riff di chitarra e da improvvise cavalcate accelerate, fino all’esplosione melodica del ritornello. Un brano quindi, ancora una volta, riuscito e godibilissimo fin dal primo ascolto. Un’introduzione sinfonica ed un riff lento e pesante aprono le danze di “Verbrannte Erde”, cavalcata lenta e possente dove i ritmi vengono quindi rallentati, in favore di arrangiamenti sinfonici battaglieri ed evocativi. A pressare maggiormente l’atmosfera ci pensa il growl di Robert Dahn, che, a lungo andare, a mio avviso, risulta essere fin troppo esageratamente cavernoso per songs come questa. Buono il ritornello, che presenta delle aperture melodiche maggiormente rilassate rispetto alle strofe. Ci pensa “Die Affeninsel” a riportare in auge le fulminanti classiche ritmiche velocizzate della band: dopo alcuni suoni, tipicamente folk, il brano si apre con un riff granitico e roccioso, aprendo la strada ad un up-tempo dalle azzeccate melodie, ma che non riesce a spiccare sul resto, probabilmente anche a causa di refrain o pezzi che non riescono a farsi ricordare come dovrebbero, rendendo così il brano piuttosto anonimo ed amaro nella sua pur spensierata scorrevolezza. Il viaggio prosegue con “Der Wassermann”, song dall’impianto epico e trionfante. Alcune lievi partiture sinfoniche aprono questo mid-tempo dalle aperture melodiche ariose e vincenti. Dopo un breve stacco folk nella metà del brano, la canzone prende velocità per poi rallentare nuovamente nella superba parte finale, incredibilmente epica e trionfante, condita da melodie fresche, solari ed avvincenti. Quindi, dopo una leggera ed apparente dispersione nel susseguirsi iniziale, il brano, determinato da tasselli e riff imprescindibili l’uno dall’altro, risulta riuscitissimo ed avvincente. “Aus Ferner Zeit” è una lunga suite di nove minuti e mezzo di durata, caratterizzata dagli elementi comuni presenti nel sound della band. L’incedere è inizialmente accattivante, i ritmi tornano ad essere accelerati (con accenni di fulminei blast beats), le melodie folkeggianti impreziosiscono sempre la struttura generale (altrimenti piuttosto monotona). Questo brano prende forza, appunto, attraverso le numerose melodie e tramite rallentamenti particolarmente melodici ed evocativi, ma perde un po’ di freschezza durante il suo proseguimento, dove alcune parti sembrano essere state infilate quasi come riempitivo, risultando così piuttosto forzate. E’ il caso, per esempio, dei vari riff suonati senza accompagnamenti sinfonici, posti nella seconda metà del brano. Quindi, alla fine dell’ascolto, non risulta una song particolarmente efficace, a causa di un’eccessiva protrazione poco studiata e, quindi, meno avvincente rispetto ai brani precedenti. Decisamente meglio con la seguente “Fahrtwind”, dal tiro inconfondibilmente marchiato Equilibrium, con velocità d’esecuzione al fulmicotone e melodie trionfanti. Impossibile, con pezzi come questo, non tornare con la mente alla vecchia Blut Im Auge di Sagas, vera perla tra tutti i brani partoriti dalla band. Quindi, un ottimo brano che, date le sue caratteristiche, si presta perfettamente per fungere da potenziale futuro singolo. La lunga “Wenn Erdreich Bricht” potrebbe essere definita la ballad del disco (ballad nell’accezione “equilibriumista” del termine, intendiamoci). Si presenta, infatti, come un mid-tempo epico ed evocativo che non riesce, tuttavia, nell’intento di catturare nella dovuta maniera l’attenzione dell’ascoltatore, forse per un eccessiva ripetitività e per un growl sempre particolarmente esagerato per il genere proposto (secondo il mio parere), soprattutto se abbinato a riff ariosi e, a loro modo, “zuccherosi”. La song viene chiusa da un inciso femminile (da parte dell’ospite Gaby Koss, ex soprano degli Haggard) su base sinfonica, ma ciò non basta per risollevarne l’attenzione. Ed eccoci alla fine, con la lunghissima strumentale (13 minuti) “Kurzes Epos”, che ricalca le orme di Mana, lunga suite strumentale di chiusura di Sagas. Gli ingredienti sono gli stessi, ovvero melodie ed orchestrazioni vincenti e pompose, affreschi epico-battaglieri, accelerazioni-decelerazioni ed atmosfere nordiche ad accompagnare il tutto. E’ palese l’intento dei nostri di rievocare il vecchio brano succitato, ed in fin dei conti, pur non aggiungendo nulla di nuovo all’album ed alla discografia, la suite risulta piacevole ed abbastanza scorrevole nei suoi interscambi umorali e d’atmosfera, senza dilungarsi in partiture troppo dispersive. In conclusione, siamo dinnanzi ad un nuovo album riuscito e ricco di sfumature, a cui non si può negare qualche piccolo scivolone stilistico. Ma questi scivoloni di certo non intaccano minimamente la qualità della band ed il suo innato…equilibrio.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

La grande forza della band è sempre stata quella di riuscire a sorprendere con arrangiamenti bombastici e ultra-pomposi, accompagnati da semplici ma freschissime melodie, su una base tecnica di tutto rispetto, ma che non spicca per doti particolarmente eccelse. Scordatevi assoli di chitarra o divagazioni simili; troverete solo una doppia cassa che viaggia alla velocità di un treno, accorpata a ritmiche precise e potenti, ma mai solistiche. Pertanto, il nuovo drummer Tuval  Refaeli, la bella bassista Sandra Völkl e le due asce proseguono su territori sicuri e precisi, senza sbavature e senza gloria. Ciò che colpisce, nuovamente, sono gli arrangiamenti folk-sinfonici, che riescono sempre a sorprenderci e ad immergerci nella mitologia degli Equilibrium. Mi sembra giusto spendere due parole sul nuovo cantante Robert Dahn: semplicemente un animale da palco, possiede un timbro scream meno acuto del suo predecessore, e sembra prediligere il growl rispetto allo scream. Con tutta onestà, preferivo il vecchio singer, possessore di uno scream più tagliente ed incisivo. Inoltre, come già detto,  Robert tende ad esagerare nella corposità del growling, rendendo la sua partitura spesso fuori luogo rispetto alla musica. Senza disquisire sulla notevole bontà compositiva della band e sulla buonissima produzione, concludiamo dicendo che Rekreatur è una “creatura” riuscita, inferiore a Sagas ma, forse, rispetto a quest’ultimo, più scorrevole ad un primo ascolto (ed anche più breve). L’immagine di copertina non è certo un capolavoro, ma i suoi colori freddi e l’atmosfera gelida rendono giustizia a quanto composto dalla band. Non conosco il tedesco, pertanto non posso avere voce in capitolo sulle liriche, anche se c’è da aspettarsi che siano fortemente basate, come sempre, sulla mitologia germanica, tanto cara ai nostri. C’è solo da augurarsi che gli Equilibrium non si adagino troppo sul successo di Sagas e che sperimentino sempre di più attraverso il loro sound, ma, intanto, gustiamoci un degno ritorno per una band in continua crescita stilistica.


Tracklist:

01. In Heiligen Hallen
02. Der Ewige Sieg
03.
Verbrannte Erde
04. Die Affeninsel
05. Der Wassermann
06. Aus Ferner Zeit
07. Fahrtwind
08. Wenn Erdreich Bricht
09. Kurzes Epos


Voto: 8/10


 

martedì 14 dicembre 2010

FREEDOM CALL - Legend Of The Shadowking

Che squillino le trombe!


Nome Album: Legend Of The Shadowking
Etichetta: SPV
Data di uscita: 01 Febbraio 2010
Genere: Power Metal



Introduzione:

“Ti piacciono i Freedom Call?” “Chi, quelli delle trombette?” Ormai le poche persone che ne hanno sentito qualche brano riconoscono in questo modo la band power metal tedesca. Una band nata dalla mente del batterista dei Gamma Ray (Daniel Zimmermann) e dell’amico Chris Bay, che dal lontano 1999 in poi è riuscita a sfornare album validissimi, seppur fortemente basati ed ispirati ad un canonico power metal di stampo epico e decisamente “gioioso”. Caratteristiche che hanno fatto loro conquistare un posto d’onore nel movimento dell’happy metal europeo. Ora, perché le fantomatiche “trombette”? Inutile negare che il loro ricorso al suono delle trombe ha spesso scatenato ilarità da parte dei defenders più accaniti, forse per un loro largo ed imponente utilizzo, soprattutto nei primi tre album. Ma proprio questo suono, a volte al limite del bizzarro, che dà un pesante tocco di pomposa epicità a molti pezzi della band, è diventato un assoluto marchio di fabbrica, targando a fuoco capolavori come i primi 3 album (“Stairway To Fairyland”, “Crystal Empire” e “Eternity”, veri masterpieces dell’“happy-trumpet-power metal”). Bizzarro o meno, la band ha visto crescere a dismisura i fans e i consensi, pur non brillando mai per prestazioni live troppo impegnate o precise, ma sicuramente distensive e coinvolgenti. Il segreto della band consiste nel trovare sempre soluzioni molto azzeccate, veri e propri inni di battaglia dal “tiro” ineccepibile e fottutamente power, aiutati da cori magniloquenti e trionfanti, senza bisogno di ricorrere a divagazioni prog, assoli del secolo, o chissà che altro. Un gruppo puro, indubbiamente, nato per divertimento e per divertire, con tasselli discografici da ascoltare e riascoltare, in giornate tristi, per ritrovare la voglia di vivere. Dopo il buonissimo Circle Of Life (maggiormente orientato verso granitici mid-tempos) e lo scarso Dimensions (dove non v’è traccia delle usuali trombe), tornano nel 2010 con Legend Of The Shadowking, che si presenta, purtroppo, come un altro piccolo passo falso, anche se, in fin dei conti, meno falso del suo diretto predecessore. L’idea lirica è basata su un concept (il quinto della band) che ruota attorno alla storica figura di Re Ludovico II di Bavaria, ma il problema fondamentale è che la musica non fa respirare alcuna aria storica od epica, e questo credo sia un elemento fondamentale nella creazione di un concept storico come questo. L’ispirazione in questi ultimi anni, pertanto, sembra essere venuta meno, rispetto all’epoca delle trombette. Che quindi quest’ultime dessero loro la giusta ispirazione? Se così fosse, non dovremmo esitare a rivolerle indietro nel loro sound:  ingombranti e goliardiche… ma dannatamente Freedom Call!


Track By Track:

Album power + concept storico: cosa meglio di questo binomio può prestarsi ad una bella introduzione sinfonica superbamente arrangiata? Ma qui, di un intro non se ne vede neanche l’ombra: l’attacco diretto è aperto da un incisivo coro su “Out Of The Ruins”, un up-tempo tipicamente power metal. Velocissima, la traccia si staglia su ritmiche battagliere e melodie, tutto sommato, convincenti, che sfociano nell’epico refrain da cantare (come al solito) a squarciagola. Pur essendo priva di tastiere e trombe (ma pregna di cori), rappresenta un’ottima opener, assolutamente convincente, dove lo spirito della band sembra essere rinato. La successiva “Thunder God” cambia subito registro: trattasi di una song più lenta dall’impostazione quasi hard rock, che di power ha davvero poco, se non il refrain, corale e abbastanza convincente. La canzone è in sé piuttosto banale nella struttura, e non lascia segni particolari, ma scorre facilmente anche per la sua breve durata. L’annesso videoclip è, d’altro canto, una cosa davvero orribile, punto. Le cose non vanno meglio con la seguente cavalcata “Tears Of Babylon”, dove compaiono le uniche trombe (rieccole!) dell’album. Anche per questo, è il brano che più richiama il passato, ma lo fa stancamente, con un ritornello ed un incedere generale che, francamente, più scontato di così non potrebbe essere. Per fortuna ci pensa “Merlin – Legend Of The Past” a risollevare l’attenzione. Esplode con un coro oscuro, prosegue in un up-tempo dalle soluzioni musicali azzeccate, per poi sfociare in un refrain epico ed evocativo. Quindi, un ottimo brano (il migliore dell’album, a mio parere) che, guarda caso, è isolato dalla storia del concept (pur essendo, paradossalmente, un concentrato d’atmosfera non indifferente). Un coro asciutto lancia nelle orecchie la successiva “Resurrection Day”, altro up-tempo che alterna delle serratissime strofe, piuttosto scarne e scontate, ad un irresistibile ritornello dai toni happy e molto riuscito, in cui spiccano le consuete doti del drummer Dan, sempre velocissimo, tecnico e preciso. Da notare l’ispirato e veloce assolo di chitarra centrale. Il trittico seguente è rappresentato da una certa atmosfera oscura e plumbea, abbastanza inusuale per la band, rappresentando un discreto esperimento (già iniziato sul precedente Dimensions con The Blackened Sun): si parte con l’introduzione acustica di “Under The Spell Of The Moon”, mid-tempo dall’impianto musicale al limite del gothic, con un Chris Bay che, nel buon refrain accompagnato da drammatici cori e melodie oscure, si cimenta in partiture stranamente baritonali (inusuali per il suo timbro e la sua estensione generalmente elevata) ricordando di striscio il singer degli HIM Ville Valo. In definitiva è un brano piacevole, ma sicuramente non è nulla di sorprendente a livello di songwriting generale. Un po’ meglio la seguente “Dark Obsession”, impreziosita da un’introduzione sinfonica e da inquietanti melodie corali e pianistiche. Anche se rallenta nel buon ritornello, l’incedere del brano è decisamente più granitico e stuzzicante rispetto al brano precedente. Segue “The Darkness”, un titolo abbastanza banale per una buona canzone. Dopo una partenza piuttosto lenta ed oscura, la song sfocia in un mid-tempo dove troviamo delle strofe aggressive e di ottima fattura, impreziosite da ottimi inserti vocali, bridge e ritornello che assumono dei toni quasi gothic, e alcuni inserti elettronici in vicinanza del finale. Tutto sommato quindi si tratta di tre canzoni differenti rispetto al classico stile della band, e l’esperimento risulta riuscito più che degnamente. Si torna a pestare sull’acceleratore con la seguente “Remember!”, un titolo che è tutto un programma: come se i Freedom Call volessero farci “ricordare” qual è il loro genere musicale, attaccano con un coro che sfocia in un up-tempo di stampo classicamente power. Tuttavia la canzone non riesce a brillare, e perde forza soprattutto a causa di strofe banali senza un minimo di innovazione e di un refrain trascurabile e assai poco coinvolgente. Il successivo interludio “Ludwig II” non aggiunge nulla di rilevante all’economia del disco, trattandosi di un breve brano pseudo-sinfonico recitato in lingua madre, preludio alla successiva “The Shadowking”: brano dal taglio piuttosto “sbarazzino” e ritmato, che scorre via senza troppi impedimenti attraverso evocative strofe ed un buon ritornello. La seguente ballad pianistica “Merlin – Requiem”, riprende, come si evince dal titolo, il ritornello della precedente “Merlin – Legend Of The Past” in chiave lenta e sinfonica. La sua breve durata non permette di apprezzarne troppo i contenuti e sarebbe risultata un brano più vincente se fosse stata sviluppata maggiormente. Ma, al di là di questo, risulta comunque un piacevole intermezzo. “Kingdom Of Madness” sembra essere una di quelle song fatte apposta per i live: lo dimostrano un incedere di stampo decisamente hard rock-stradaiolo, un buon ritornello azzeccatissimo per i concerti, ed un (quasi imbarazzante) intermezzo, dove gli strumenti proseguono su una base stazionaria e il ritornello viene ripetuto varie volte, come capita spesso in concerti live dominati da un pubblico sovrano. Chiude l’album una poco degna di nota “A Perfect Day”, che, dopo una buona introduzione dal sapore folk rock, si perde in strofe rockeggianti e in un ritornello eccessivamente allegro e mieloso. Si chiude così, in modo piuttosto inconcludente, la leggenda del re delle ombre, assieme a questo album altalenante che ci dimostra dei Freedom Call in discreta forma, spesso carenti nel lato del songwriting. Questa volta quindi, cari Dan Zimmermann & soci,  niente squilli di tromba.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

La band tedesca non si è mai elevata troppo rispetto agli standard imposti da questo genere, a livello puramente tecnico. Anzi, se proprio dobbiamo essere sinceri, da questo punto di vista, non è mai spiccata, poiché i suoi punti di forza sono decisamente altri. Ma, nonostante questo, possiamo citare il frontman Chris Bay, dal timbro vocale piuttosto morbido e freddo, tutt’altro che aggressivo, ma dotato di un’ottima tecnica vocale e di un’estensione notevole (come dimostra in questo album), oltre che di un certo camaleontismo nel saper interpretare brani di atmosfere differenti. Un singer sicuramente adatto per la proposta del quartetto. Inutile ribadire la bravura del drummer Dan Zimmermann (anche se in tempi recentissimi ha lasciato la band), che i più conoscono soprattutto per il suo operato nei ben più importanti Gamma Ray. C’è da dire però che, nei Freedom Call, il suddetto batterista non è mai riuscito ad esprimere al meglio tutte le sue potenzialità. Per il resto, chitarra e basso svolgono un preciso lavoro, anche se piuttosto standard, senza riuscire a spiccare. Oltre alla discutibile bontà del songwriting, inoltre, mi sento di segnalare che anche la produzione non brilla, tendendo spesso ad oscurare le chitarre (già di per se caratterizzate da un suono scarno) in favore della voce di Bay, facendo perdere impatto e potenza ai brani. Per quanto riguarda la copertina, si tratta di una bellissima immagine che ritrae una sorta di statua di Re Ludovico II, con un mare baciato dalla luna sullo sfondo. I colori sono freddi ed evocativi, perfettamente calzanti con la storia narrata. Quindi eccoci qui, con queste 14 canzoni, fin troppo brevi e spesso mal sviluppate, ma decisamente dirette, che non riescono a farci respirare la giusta atmosfera epica che un concept come questo meriterebbe. Peccato. Intanto cerchiamo di godere dei pochi brani davvero notevoli all’interno di questo album, mentre attendiamo con impazienza che anche i FC abbiano nostalgia del loro stesso passato e tornino a stupirci con le tanto amate-odiate trombette.


Tracklist:

01. Out Of The Ruins
02. Thunder God
03. Tears Of Babylon
04. Merlin – Legend Of The Past
05. Resurrection Day
06. Under The Spell Of The Moon
07. Dark Obsession
08. The Darkness
09. Remember!
10. Ludwig II – Prologue
11. The Shadowking
12. Merlin – Requiem
13. Kingdom Of Madness
14. A Perfect Day


Voto: 6,5/10

mercoledì 1 dicembre 2010

GAMMA RAY - To The Metal!

Coerenza e classe...

Nome Album: To The Metal!
Etichetta: EarMusic/Edel Germany
Data di uscita: 29 Gennaio 2010
Genere: Heavy/Power Metal


Introduzione:

Dopo il tanto bello quanto canonico sequel del loro album più popolare (Land Of The Free), torna una delle realtà più seguite ed apprezzate nel campo del power metal teutonico. Quello, per intenderci, grezzo, graffiante, di stampo prettamente heavy e quindi condito da poche tastiere. Tornano i Gamma Ray, con il sempre adrenalinico leader Kai Hansen (in passato, primo chitarrista degli Helloween e vero inventore del power metal, già dai tempi di Walls Of Jerico e dei due Keeper), che, anche in questo album, dà prova delle sue capacità di compositore di heavy metal ed esecutore. Tornano con un album interessante (anche se non particolarmente brillante per quanto riguarda nuove idee originali), che, diversamente dalle aspettative, è riuscito a colpirmi fin dai primi ascolti. La formula vincente di questa band è sempre stata quella di non cambiare mai, frutto della consapevolezza di aver scritto sempre un fottutissimo power metal condito da heavy (nella loro discografia sono moltissimi i richiami a Judas Priest ed Iron Maiden) e, come si suol dire, formula vincente non si cambia. Pertanto, rieccoci qui, con questo nuovo (si lo so, ormai ha quasi un anno, ma è comunque un prodotto del 2010!) album dallo stampo coerentemente “gammaraiano”, dove, ancora una volta, non troviamo innovazioni o restyling di alcun tipo, ma solo puro power metal, come Kai ci ha sempre abituati. Quindi, intuile dire che si tratta di qualcosa di indubbiamente già sentito, e chi è alla ricerca di novità stilistiche farebbe bene a rimanere alla larga da questo prodotto. Tuttavia i Gamma riescono, pur restando in canonici stilemi, a catturare, grazie probabilmente ad un’attitudine e ad un “tiro” che poche altre band riescono ad avere nel loro campo. Infatti, da grande fan del power metal (oltre che del metal nella sua totale generalità), io per primo riconosco che il mercato di questo sottogenere è affollato ed ormai saturo di band. Band tecnicamente sempre validissime, ma a cui manca il giusto spirito accattivante per essere in grado di essere vincenti. E questo spirito non manca di certo ai Gamma Ray.


Track By Track:

Non poteva esserci incipit migliore di una splendida “Rise”, song in perfetto stile Gamma Ray: intro pulita, strofe indimenticabili ad un’elevata velocità d’esecuzione, arrangiamenti sempre graffianti ed accattivanti. Il ritornello particolarmente melodico si impregna in testa per non uscirne più. Quindi un’ottima partenza che richiama gli ultimi lavori della band (Majestic e LOTF 2, giusto per fare un paragone diretto). Il seguito è affidato ad una song di facile impatto, la piuttosto classica “Deadlands”. L’impianto generale è improntato verso un heavy-power molto caro alla band tedesca. Le melodie nel refrain ammiccano verso delle soluzioni meno ricercate rispetto al precedente brano e quindi più immediate, ma, ciò nonostante, rimane comunque un brano di grande impatto ed orecchiabilità, con alcuni inserti più velocizzati ed un assolo di chitarra sparato a mille. Rallentano i ritmi, per lasciar spazio all’incedere prettamente hard rock-heavy metal della successiva “Mother Angel”, sicuramente un buon brano, anche se piuttosto canonico (soprattutto il refrain) e fin troppo standard. Buona e melodica la parte solistica, accompagnata da lievi partiture di tastiera. In fin dei conti, si tratta di un brano piacevole da ascoltare, seppur scontato, che di certo non farà gridare al miracolo per innovazioni particolari. Il livello qualitativo dell’album si alza con la struggente “No Need To Cry”, una ballad corposa lenta e melodica, che riporta alla mente grandi lenti della band come Lake Of Tears. Accompagnata da un piglio orchestrale e pianistico delicato e perfettamente incastrato nella struttura, la canzone si sussegue tra momenti altamente emozionanti (come il ritornello e la sezione d’assoli), “rovinati” forse, a livello atmosferico, solo da un bizzarro intermezzo acustico, cantato dal bassista Dirk Schlächter. Questo interludio, particolarmente allegro, stacca troppo dal resto dell’atmosfera emozionante e malinconica della canzone, risultando pertanto un po’ fuori dal contesto. Tuttavia, dopo vari ascolti, riuscirete ad abituarvici. Segue un altro ottimo brano, il più oscuro dell’album: “Empathy”. Trattasi di un buonissimo mid-tempo particolarmente aggressivo e carico di pathos, come si intuisce anche solo dalla semplice introduzione in chitarra pulita. Non brilla certo per troppa originalità in ritmiche o struttura, ma questo brano è comunque in grado di colpire positivamente l’ascoltatore. Se non altro perché è un pezzo abbastanza inusuale nello stile della band. Arriviamo all’unico vero anello debole del full lenght, la title-track “To The Metal”: un brano che lascia l’amaro in bocca da quanto scontato e piuttosto inutile all’economia dell’album. Diciamocelo, hanno voluto fare una classica tamarrata, come si intuisce già dall’eloquente titolo, inserendo un brano di chiaro stampo heavy metal anni ’80. La riproposta dello stile dei noti  Manowar è lampante, e, certo, lo scialbo ritornello non aiuta a farci apprezzare questa song dallo scorrere, quindi, piuttosto banale. Passiamo oltre con “All You Need To Know”, song particolarmente cattiva nel suo incedere, il cui intro è affidato a dei riff feroci ed aggressivi. La canzone vede la partecipazione, nel ritornello, del mitico ex-Helloween Micheal Kiske alla voce (come già accadde su Land Of The Free), ma, nonostante la sua presenza, il ritornello, a causa di una sua eccesiva “zuccherosità” fa perdere forza al brano. “Time To Live” riprende le redini della band, cavalcando su sentieri heavy-power non particolarmente veloci. Il brano si sussegue senza troppa originalità, ma il suo ritornello catchy e il suo incedere lo rendono dannatamente coinvolgente, spingendo l’ascoltatore ad ulteriori ascolti. La seguente “Shine On” viene introdotta da un virtuosismo di basso, e prosegue tra strofe malvagie e violentissime (con Kai Hansen tramutato in un Rob Halford incazzatissimo), ritornelli più ariosi e corali, precisi intermezzi solistici di basso e chitarra. Un buonissimo brano quindi, molto diretto e dalla rapida scorrevolezza. Alcuni suoni di tastiera introducono la conclusiva “Chasing Shadows”, un brano power metal abbastanza standard e canonico che però, come al solito, possiede un tiro ed un piglio azzeccatissimo per non scivolare nel baratro della banalità. Doppia cassa incessante, ritmiche serrate e sottili tappeti tastieristici condiscono questo brano, che acquista ancora più spessore a partire dalla strana e particolare sezione di assoli (ne compare anche uno di tastiera, lanciato a folle velocità, insolito per la band). Perciò, senza tanti fronzoli, questi dieci brani di To The Metal ci consegnano i Gamma Ray del 2010: dei musicisti preparati, con molta esperienza ed in ottima forma, in grado di regalarci ancora, dopo tutti questi anni, dei notevoli episodi musicali.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

To The Metal è quindi un album buono, che di certo non mancherà di soddisfare i palati affamati di power “made in Germany”, o meglio, il power “made in Kai Hansen”. Parliamo proprio di lui, l’internazionalmente noto “zio Kai”, l’inventore indiscusso del power metal con i suoi ex-Helloween, leader instancabile e totalmente devoto alla fiamma dell’heavy metal: anche in questo disco, la sua prestazione canora è intrigante e maligna. Pur non essendo tecnica, la sua voce riesce sempre a trasmettere, proprio perché il suo timbro è immediatamente riconoscibile. Fenomenale nelle frequenze alte ed oscura nella frequenze basse, è un trademark nel sound della band, e, di certo, dona quel qualcosa in più ai brani (un po’ come Hansi nei Blind Guardian, insomma). Dan Zimmermann, asso indiscusso dietro alle pelli e macchina da guerra in sede live, riempie alla perfezione e non manca di inserire qualche passaggio più tecnico e più studiato, rispetto ad una canonica doppia cassa sparata a mille. Henjo Richter, chitarrista dal faccino tutt’altro che plumbeo, ci propina impareggiabili assoli di chitarra, ispirati e, come sempre, ottimamente eseguiti. Ed infine Dirk Schlächter, si riconferma bassista completo sia dal punto di vista tecnico che ritmico, eseguendo degnamente il suo sporco compito. Tralasciando le consuete ottime produzioni e i suoni perfettamente bilanciati in fase di mixaggio, la band, è superfluo ribadirlo, tecnicamente ci sa fare e lo dimostra anche in questo nuovo lavoro. La copertina è, a mio avviso, una delle più belle e cariche di colori tra quelle utilizzate per un disco dei Gamma Ray, e risulta decisamente azzeccata per il titolo dell’album ed i suoi contenuti musicali. Capolavoro della band? Album dell’anno? No, sicuramente no. Resta un album godibilissimo di sano e saziante power metal europeo, dall’inizio alla fine (ok, sorvolando sulla title-track), con buonissimi episodi ed altri un po’ meno convincenti. Un album che non spicca, come già detto, per originalità, non spicca per idee nuove e non mancherà di dare numerose sensazioni di deja vù, ma che vince sul lato carismatico ed è in grado di farci muovere la testa e le dita a ritmo. E, permettetemi di dirlo, dai grandi Gamma Ray pretendiamo proprio questo, e nulla di più.


Tracklist:

01. Rise
02. Deadlands
03. Mother Angel
04. No Need To Cry
05. Empathy
06. To The Metal
07. All You Need To Know
08. Time To Live
09. Shine Forever
10. Chasing shadows


Voto: 7,5