sabato 20 ottobre 2012

TEZZA F. - The Message (Written by PAIUZ)

Ciò che segue è la recensione del mio nuovo disco solista, scritta dal mio amico e neo-dottore in informatica Paiuz! Nel ringraziarlo per il suo tempo, vi auguro buona lettura!

- Fil -

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THE MESSAGE 
(...A STORY OF AGONY, HOPE AND FAITH...)




Introduzione:

Finalmente! Dopo anni di duro lavoro e di grande attesa per i fans, il Geologicmetal Filippo Tezza, porta alla luce il suo  concept album di stampo power metal, genere a lui molto caro a cui ha dedicato tutto se stesso, come tutti i suoi lavori dopo tutto.
Il progetto TEZZA F. nasce nel 2006, anno in cui l'artista milita nella sua thrash/power metal band underground SOUL GUARDIAN (scioltasi nel 2012) come cantante e chitarrista. Si tratta di un progetto solista in cui Filippo può dare sfogo alla sua passione per il power metal ed il metal melodico senza porsi limiti. Nel 2007 esce il primo album di TEZZA F., "FIRE STILL BURNS", registrato in casa e senza aiuti esterni, come capiterà anche per il secondo album "WINTER OF SOULS" del 2008. Entrambi i lavori sanno di power metal melodico, con chitarre, basso, tastiere e voci suonati da Filippo (la batteria è una drum-machine), lunghi e variegati anche se registrati in maniera piuttosto scadente.
Nel 2008 inizia la scrittura del terzo album, il quale si concluderà nel 2011. Si tratta di un concept album in cui viene narrata una storia, inventata da Filippo, che tocca argomenti personali ed interiori, con alcuni riferimenti autobiografici. L'album, dopo un anno e mezzo di registrazioni negli home-studio del suo amico Nicolò (The Tower), è finalmente pronto, nel giugno 2012: si intitola "THE MESSAGE" e presenta un sound, una tecnica, uno stile compositivo e una registrazione decisamente superiori e più precisi rispetto al passato, grazie anche all'aiuto di Nicolò (il quale registra, tra l'altro, tre assoli di questo album, nei brani "Wings Of A Tragedy", "This Shining Flame" e "Outside"). Per la batteria si affida sempre ad una drum-machine opportunamente programmata, così come ad alcune orchestrazioni, per dare al disco un tocco più sinfonico.

"The Message" è una storia piuttosto singolare: la vicenda di un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, che viene salvato dalla sua autodistruzione per opera del padre, che dal mondo dell'aldilà, trova il modo di comunicare con lui ed aiutarlo a non disperarsi, a non lasciarsi andare, ma a ritrovare la fede e la forza di vivere ancora. In un primo momento si crede pazzo, sente queste voci che lo tormentano e che non sembrano giovare al suo stato d'animo. Grazie ad un atto di fede, però,  si ricrede e decide di dare ascolto a queste voci, di fidarsi del padre che tanto ammirava e che ora non c'è più. Riesce così a ricominciare a vivere. Dopo molti anni, si sente finalmente in pace con sé stesso e pronto a riabbracciare i suoi cari, contento di aver dato ascolto all'angelo di suo padre e di aver ritrovato la fede che un tempo aveva perduto.

TEZZA F. partorisce così un primo concept album dalle varie sfaccettature che, a differenza dei Silence Oath, la one-man-band black metal del nostro geologo, con questo disco spazia dal classico heavy metal inglese alle melodie del metal teutonico di chiaro stampo power, ma senza cadere nel banale. A tratti le influenze black si fanno sentire, con qualche parte cantata in growl con un tappeto ritmico che lo accompagna alla grande. Molto ben fatto direi, un po' come qualche pezzo recente dei Rhapsody of Fire, dove il buon Lione si è destreggiato a cantare in growl. Spezza leggermente e da una carica decisamente notevole: approvato!
Interessante inoltre come le varie influenze musicali di Filippo rendano questo lavoro un calderone di idee e di spunti combinati alla perfezione, per un gruppo che meriterebbe di essere definito tale, non solo una one-man-band. Lo stile dei Blind Guardian, il gruppo preferito in assoluto al caro Fil, è molto presente nelle melodie della voce e nei bridge. La ritmica di batteria classica del power metal con la chitarra che accompagna, la tastiera intenta in una melodia leggera (vedi il brano "Outside") richiamano molto il sound dei Gamma Ray e dei vecchi Helloween. "Outside" tra l'altro si può considerare come il brano singolo di questo disco; racchiude un po' tutte le sonorità power che Filippo ha messo nell'album.
Insomma, un album decisamente interessante per diversi aspetti e vari motivi. A primo ascolto non lascia il segno e non è proprio immediato, ma più si presta attenzione ai particolari e più piace tutto il lavoro.

Tengo a precisare una cosa molto importante! Se siete dipendenti dalla qualità del suono, allora non ascoltate questo, come molti altri dischi autoprodotti da giovani con pochi mezzi, magari perchè non tutti gli strumenti sono suonati da persone ma sono campionati. Ci tengo a sottolinearlo, poiché questo disco va ascoltato per le idee, che sono tante e notevoli. Giudicare un disco autoprodotto e svalutarlo solo perché non ha la copertina disegnata da un artista o perché non è registrato come Dio comanda, lo trovo da persone poco intelligenti. Si possono sentire le svariate influenze dell'artista, senza mai parlar di plagi o di riff troppo simili a canzoni già famose.
Insomma, un miscuglio di idee che finalmente vedono la luce grazie a "THE MESSAGE", la vena power del Fil che, giustamente, deve avere uno sfogo!


Track by track:


Quies Aeterna (Intro)

Intro del disco, un inizio quasi solenne col piano che la fa da padrone. L'idea è quella di una storia che sta per iniziare; l'ascoltatore deve solo mettersi comodo ed entrare nell'ordine di idee che sta per ricevere qualcosa. Semplice e diretta, niente di complicato, ma è molto efficace la melodia di pianoforte e sono decisamente splendidi gli accordi con gli strings in sottofondo. Forse un po' troppo lunga per la sua semplicità; si poteva accorciare un pochino, ma è comunque notevole.


Wings of Tragedy

Opening melodica e veloce, sound collaudato nei Soul Guardian più volte, che ha sempre funzionato e Filippo, quanto a opening, non ha mai deluso. Per non andare distanti col nome, qui si sente alla grande la vena dei bardi teutonici, che regala ispirazione a Filippo per un bridge tra cori e un ritornello che è davvero bellissimo. Notevole l'uso della voce, infatti, in questi punti, la quale,  con pochi effetti ma scelti bene, seppur sempre semplici, dà la grinta giusta a tutta la canzone. Un’impronta che comunque rimane anche nel ritornello, in pieno stile Blind Guardian, con la chitarra che esegue la melodia semplice e diretta della voce. Ottima la melodia dell'assolo, eseguito da Nicolò con passaggi velocissimi che dialogano con la tastiera, anch'essa molto veloce, sempre presente sotto come tappeto melodico (novità che devia alla grande dalle classiche canzoni dei bardi e quindi regala innovazione che, seppur piccola, lascia intendere sempre che non ci sono copiature, ma solo ispirazione mai banale!

Fading Lightless

Canzone piuttosto strana, con diversi cambi di riff e di melodie. Dopo un inizio di tastiera molto allegro e dal suono squillante (a mio avviso anche troppo, ma comunque rende l'idea; con uno strumento vero ovviamente sarebbe un'altra cosa), arriva la chitarra con la voce; parte in modo quasi classico, se vogliamo, ma il cambio di voce nel bridge e i diversi effetti applicati la rendono particolare. Qui c’è la prima sfumatura in growl per le liriche, con passaggi non lineari e totalmente diversi dai cori. A tratti, sembra quasi stia per dare un tocco moderno al brano, con qualche effetto sulla voce, ma poi la canzone si riprende in percussioni spedite col doppio pedale. L'assolo parte veloce e poi torna sul melodico e lento, ricordando molto vagamente i vecchi Rhapsody, ma senza tante orchestrazioni. Un buon pezzo anche questo; tanti cambi di chitarra che si incastrano bene. Da ascoltare bene prima di giudicarlo.

Caelorum Signa (Interlude)

Brano che conclude la precedente canzone, in malo modo a mio avviso; si poteva eseguire un po' meglio, ma non è comunque male. Questo intermezzo prepara ad uno dei brani più belli del disco.

Whisper Symphony

A mio avviso, un brano meraviglioso che contiene tutto quanto: le melodie, la velocità del power, le influenze black nelle parti in growl e in alcuni tratti nella batteria, riff oscuri come in certi passaggi dei Rhapsody of Fire… spettacolare! Un pezzo di punta del disco, se non il migliore! La canzone parte dritta e lanciata dall'intro precedente, tastiera melodica, chitarra semplice e tappeto di batteria. Qualche fraseggio di chitarra e via con la tastiera che rallenta un po', ma dura poco, perchè ripartono chitarra e batteria, con, in questo punto, sonorità di certi brani dei Rhapsody of Fire. Cantato che inizia, accelera e sfocia nella parte più black in growl, preludio per un ritornello epico e melodico. La tastiera in sottofondo esalta la voce, che si lascia trasportare letteralmente dalla canzone. Assolo eccellente, poi, che stacca alla grande, rendendo il momento più morbido. Melodia ottima e che smorza la carica, altrimenti renderebbe troppo tirato il brano. Anche qui, però, dura poco e si torna al bridge e al ritornello che accelerano nuovamente. Altro cambio, entra la tastiera che rallenta nuovamente per un altro assolo, molto bello anche questo, che si conclude con la batteria in accelerazione alla RoF, e via di nuovo su bridge e ritornello, per chiudere la canzone. C'è poco da dire, ascoltare per credere.


My Face in the Mirror

Brano introspettivo, come ci suggerisce anche il titolo, dal sound più oscuro rispetto ai precedenti. L'inizio è molto cupo e teatrale, se vogliamo usare paroloni, però è di grande effetto. Prosegue così per un paio di minuti, strumentale, poi inizia la parte cantata, con a tratti una doppia voce. Ritornello incalzante con fraseggi di chitarra e tastiera. Anche qui la vena black si fa sentire e non solo per la voce, ma anche nel sound generale, rendendola appunto più teatrale; direi che è questa la caratteristica principale del pezzo. Grande scream a metà canzone; prova che Filippo, seppur con la voce più portata a sonorità medio-basse, si dimostra  versatile e capace di fare di tutto.


At the Dawn of a New Day

Una carica esplosiva! Diretta e senza troppi giri di parole, accordi decisi e melodia orecchiabile. Anche questa traccia presenta numerosi elementi dei raggi gamma e non manca mai il sottofondo di tastiere a dare quel tocco in più. Pezzo davvero notevole nella sua semplicità, nella prima parte della canzone, ma il meglio di sé lo da negli ultimi minuti, mostrando un bellissimo cambio di direzione. Duro, cattivo, ma mai fuori luogo. Uno dei brani preferiti dal Fil, dove (come in altre tracce) riesce a mescolare tantissimi elementi. Un brano veloce che appassiona immediatamente chi lo ascolta e che trasmette una grande carica.


This Shining Flame

Come in ogni buon disco, deve esserci un pezzo lento, una pussy-ballad che si rispetti per smorzare la tensione, per riprendere fiato… "This Shining Flame" è a tutti gli effetti così. Non si può dire certo che sia una ballad strappalacrime, ma comunque riesce nell'intento di dare fiato al disco, di farlo respirare. Guarda caso, il Fil comunque ci mette sempre qualche cosa di "cattivo". Passaggi di accordi distorti belli aperti, con qualche colpo di doppio-pedale e un ritornello che richiama la voglia di cantarla. Insomma, tanti spunti interessanti anche qui. Sicuramente il pezzo più semplice del disco, magari non eccelso, ma comunque adatto a tutto il progetto. Nota di merito al bellissimo assolo melodico nel finale in grado di sfruttare bene i cambi di accordi.


Outside

In ogni album esiste una canzone che viene bollata come singolo. "Outside" è perfetta per l'occasione! Il brano si apre allegro con la tastiera e degli accordi aperti, in ripresa dal finale della canzone precedente; bellissimo l'attacco, e quando il Fil inizia a cantare, la semplicità e la melodia coinvolgono l'ascoltatore. Il ritornello non è proprio dei più epici, di quelli che fanno urlare il pubblico, ma è comunque buono e ancora meglio è la sezione strumentale dopo di esso. Melodia e eccellenti scambi tra chitarre. Verso la fine, la canzone rallenta con un sottofondo di archi e tastiere per ritornare a bomba sul ritornello. Di grande effetto, per brani di questo genere, è l'alzare di un tono il giro finale e piazzare uno scream per chiudere il tutto: uno schema classico che funziona sempre. La traccia numero nove ci prepara a quella che è la suite finale.


In Nomine Patris (Interlude)

Intro solenne di breve durata, che prepara l'atmosfera per l'immensa suite del disco.


The Message

Diciotto minuti! L’apertura, che ricorda vagamente le melodie di una nota suite dei Dream Theater dai quaranta minuti, si evolve in passaggi che effettivamente ricordano quelli delle suite dei gruppi progressive metal moderni, ma i riff rimangono sempre sul genere power del disco. Moog in sottofondo, tipico del prog anni '70, ma la chitarra è chiaramente heavy più moderno. Nel primo movimento della suite, si può gustare un'ottima melodia di voce che si destreggia egregiamente con la chitarra, specie nel ritornello che ci regala un'ottima melodia accompagnata da un buon tappeto di batteria. Anche qui, la presenza, a tratti, di voce in growl in sottofondo, per certi passaggi non guasta mai. Ottima la sezione strumentale verso i sei minuti di canzone. Assolo che chiude la prima parte di questa grande traccia. Al settimo minuto e mezzo abbiamo l'inizio di un nuovo movimento di questa suite: arpeggio lento e voce dai toni più rassicuranti. In certi momenti mi ha ricordato i Muse. Questa parte più tranquilla non rallenta troppo la traccia, e sembra quasi un'altra canzone. Altro assolo, altro regalo. Dopo l'eccellente solo della prima parte, anche in questo secondo movimento ci si lascia trascinare da una parte strumentale, più breve, dove il protagonista però è il piano. Semplice e senza troppe pretese, ma ottima per cambiare. Notevoli i cori di ritornello sul finire del movimento che lanciano, all'undicesimo minuto, la terza parte dell'opera. La canzone riprende ad accelerare e torna al sound progressive alla Dream Theater, verso il tredicesimo minuto. Si apre nuovamente il ritornello melodico della prima parte, per ricaricare le pile… e poi? Boom! Si rallenta nuovamente sul finire della canzone. Fatto male? Assolutamente no! Epico questo finale; ricorda vagamente la ballad "This Shining Flame", ma è gustoso, a suo modo, perché regala tantissime idee. L'uso dei cori, l'inserimento della batteria… tutti elementi davvero notevoli se ascoltati senza badare troppo alla qualità del disco. Tirando le somme si può dire che questa suite sia perfettamente riuscita, lunga al punto giusto e con i cambi inseriti perfettamente in modo da non perdere troppo il filo del discorso. Forse nel passaggio dalla prima alla seconda parte ci si può un attimo distrarre, ma riascoltando il brano qualche volta, si può confermare che invece va bene così!


Beyond the Gates of Heaven (Outro)

Conclusione perfetta di tutto il lavoro. Bellissima la voce narrante, leggermente black metal come effetto, davvero bella. Rende davvero tutto più epico.



Voto: 7,5/10

martedì 31 luglio 2012

STORM CORROSION - Storm Corrosion


STORM CORROSION

Etichetta: Roadrunner Records
Data di uscita: 22 Maggio 2012
Genere: Progressive Ambient

Introduzione:

Capita spesso, nel nostro ricco mondo musicale, di assistere a collaborazioni tra grossi esponenti della scena internazionale. I monicker Demons & Wizards, Cain’s Offering, Primal Rock Rebellion,  giusto per fare degli esempi, o il consistente progetto Avantasia, vi dicono qualcosa al riguardo? Sicuramente si. Molto più raro è, invece, poter assistere ad una collaborazione artistica così intimista ed emozionale come quella che ha coinvolto due grandi esponenti del prog moderno, ovvero il leader e fact-totum degli Opeth, Mikael Akerfeldt, ed il leader e fact-totum dei Porcupine Tree, Steven Wilson. Due personalità in netta sintonia tra loro, come dimostrano le collaborazioni da ormai molti anni su album come il maestoso “Blackwater Park”, o come dimostrano soprattutto le recenti rispettive ultime uscite: “Heritage” degli Opeth (recensione a questo link: recensionimetalfil.blogspot.it/2011/11/opeth-heritage.html) e “Grace For Drowning” dello Steven Wilson solista. Si tratta di due lavori fondamentalmente di progressive rock, dove non c’è alcuno spazio per il death-metal targato Opeth. I due artisti sentono che è finalmente giunto il momento di collaborare, di dare vita a qualcosa di inaspettato, con spasmodica attesa e consenso dei fan di questi due genialoidi frontman: il risultato è questo progetto e album “Storm Corrosion”, un ideale terzo capitolo di una trilogia progressive rock iniziata proprio con Akerfeldt da una parte e Wilson dall’altra. Come si poteva intuire, di metal qui non c’è neanche l’ombra, tant’è che nemmeno le distorsioni sono consentite; non vi è nemmeno il groove del rock, ma a dominare sono gli intenti psichedelici del progressive più cupo: “Storm Corrosion” è un manifesto del disagio interiore, svelato attraverso passaggi musicali grigissimi di tastiere progressive e delicatissime chitarre acustiche, appena pizzicate. Non ci sono ritornelli, non ci sono brani nel vero senso del termine, ma solo sei lunghi episodi che fungono da ideale colonna sonora di un’angoscia nascosta  che timidamente si rivela, nota dopo nota, su un tappeto ambient/atmosferico non indifferente. Diciamocelo pure, da due menti come quelle dei due musicisti coinvolti ci si aspettava qualcosa di strano, ma, onestamente, non si sarebbe potuto nemmeno pensare ad un lavoro di tale entità, così sfacciatamente intimista e controverso. Per apprezzare questo disco, servono indubbiamente tanti ascolti, preferibilmente di sera, senza distrazioni, per apprezzare ogni singola sfumatura proposta; ma, soprattutto, serve una predisposizione adatta e la consapevolezza che in “Storm Corrosion” non c’è nulla che ti faccia muovere la testa a ritmo. Non è facile riuscire ad ascoltare questo disco, né tantomeno ad apprezzarlo totalmente, ma se cercate qualcosa di diverso ed ambiguo, lasciatevi tentare da questo affliggente vuoto…


Track by Track:

Il primo vagito è “Drag Ropes”, di cui è stato realizzato un videoclip che, accompagnato alla musica, ostenta una certa ansia nell’ascoltatore. Dei lievi archi atmosferici introducono la voce calda di Akerfeldt, sempre più a suo agio negli anni con il clean-singing. Fino a metà brano è un susseguirsi di chitarre acustiche delicate, ma coinvolgenti nella propria oscurità, suoni molteplici, tastiere che entrano ed escono come fantasmi, il tutto giocato su un’atmosfera onirica, soffusa e disturbante. La seconda metà del brano prosegue la proposta con un maggior vigore tra strani fraseggi di chitarra ed inquietanti cori, archi e pianoforte accompagnati solo da un charleston che detta il ritmo. Non c’è alcuna logica, solo sentimenti che si susseguono in modo istintivo, e così sarà anche per le restanti cinque tracce. La title-track “Storm Corrosion” si assesta anch’essa sui dieci minuti di durata. Un arpeggio acustico accompagnato da echi di archi in lontananza funge da tappeto emotivo per le frasi leggermente sussurrate di Wilson. La traccia, dotata di una struttura più lineare, è sorprendente nella sua delicatezza, richiamando spesso alcuni dei più soavi capolavori degli Opeth più progressivi. Da metà brano, gli arrangiamenti si arricchiscono con ulteriori chitarre acustiche, archi, soffusi pianoforti, suoni di un’atmosfera malata ed inquietante (a tratti sembra quasi di stare in un film horror psicologico), prima di un finale delicatamente arpeggiato. Con la seguente “Hag” le intenzioni non cambiano di una virgola: ancora un brano, o meglio un pezzo di musica, giocato su chiaro-scuri musicali pregni di inquietudine repressa. Lievi chitarre pulite, tastiere dal sound vintage, un basso che pulsa, persone che ridono in lontananza: tutto ciò è presente in questa traccia, dove ad una parte iniziale più in sordina si contrappone un prezioso stacco oscuro tra tastiere e chitarre cupe e distorte, con tanto di virtuosa batteria a seguito. Un onirico episodio ancora una volta difficile da comprendere nella sua psichedelica schizofrenia. Inutile dire che la seguente “Happy” porta un titolo decisamente contrastante con quello che è il mood portante: un pacato sussurro di chitarra acustica che si intreccia con oscuri suoni e con le voci depresse e quasi estenuanti di Wilson e Akerfeldt. Prezioso nella sua semplicità il breve assolo sul finale del brano, il quale si assesta sui 5 minuti scarsi di durata (ed è la traccia più corta dell’album). Un altro lascito malinconico, ostentatore di disperazione ed angosce tradotte in note. Una chitarra scandisce una blanda ritmica vagamente accesa, su cui si innestano altri fraseggi acustici: è l’inizio di “Lock Howl”, un ritaglio di una soffocata sofferenza, un turbinio di suoni, atmosfere e passaggi acustici di grande spessore. Nemmeno le voci sono presenti; Akerfeldt e Wilson, con la sola forza degli strumenti, danno vita ad un brano fin troppo intimo ed illogico per poter essere apprezzato totalmente, ma gli echi progressive rock dei suoni e dei leggeri ritmi donano comunque un contorno affascinante e psichedelico ad una traccia davvero particolare ed insolita, secondo gli intenti del progetto. Arriviamo così al finale, pronti per i restanti dieci minuti di “Ljudet Innan”, dove un particolare falsetto di Akerfeldt introduce un brano molto cupo e rilassante; perfino le pause e i silenzi assumono un’inaspettata importanza in questa musica così soffusa ed ambient, perfetta per una terapia mentale. Qualche tremolante accordo ogni tanto, piazzato nei punti giusti, guida il brano tra tastiere come sempre soffici e dal suono vintage, molto caldo ed avvolgente, tra ritmi leggerissimi e bei solos di clean guitars, in pieno stile prog-rock d’annata. Così si conclude “Storm Corrosion” un (unico?) album di un progetto senza confini e senza barriere, nato soprattutto dall’amore nutrito da due grandi musicisti per il progressive e per gli anni d’oro di questo genere musicale.


Considerazioni Conclusive:

Ammetto senza remore che non è facile assumersi il compito di giudicare un disco del genere. Già solo dover mettere un’etichetta là sopra non è stato facile: “progressive ambient”, dice tutto e dice niente, data l’indescrivibile aurea atmosferica creata in diversi momenti del lavoro. E’ complicato classificare e dare dei giudizi per un disco come “Storm Corrosion”, poiché tutto dipende dal modo e dall’umore con cui vengono ascoltati questi cinque pezzi di malinconia: un giorno potreste essere da soli di notte, senza voglia di dormire, e “Storm Corrosion” vi potrebbe apparire come un piccolo capolavoro, mentre facendo girare il disco in un altro momento qualsiasi della giornata, con i muratori che sparano decibel su decibel con le trivelle, con i clacson delle auto e gli uccellini che cinguettano, il medesimo disco potrebbe apparirvi noioso, scialbo, perfino irritante. Questo è il motivo per cui, ora più che mai, mi trovo in difficoltà a digitare un numero da 1 a 10, ed ecco perché là sotto vi ritrovate un bel “s.v.” (senza voto). Un’opera troppo strana, complessa, caotica ma ben chiara nei suoi intenti, per poter essere ridotta ad un numero. Se non amate sperimentalismi d’avanguardia ed idee totalmente aperte alla ricerca musicale, allora lasciate perdere senza indugi “Storm Corrosion”; in caso contrario, provate a dargli un ascolto in modo concentrato e potreste trarne delle gradevoli sorprese. Musicalmente, gli arrangiamenti ed i lavori alle chitarre di Wilson e Akerfeldt sono sempre di un certo rilievo artistico, mentre le voci fungono da abbellimento, più che da motori portanti dei brani, data la loro scarsa presenza. E’ giusto anche accennare alle pur ridottissime parti di batteria (il più delle volte solo un piatto che accompagna il tutto), suonate da Gavin Harrison. Azzeccato il lavoro di copertina, in pieno stile rock anni ’70, che con i suoi colori accesi ed infernali esprime bene il disagio riscontrabile in questi sei sorprendenti lunghi pezzi. Senza dubbio, “Storm Corrosion” farà discutere tutti; ci sarà chi lo esalterà come uno degli apici creativi dell’essenza progressiva dei due artisti coinvolti e chi invece sarà pronto a cestinarlo come il peggiore disco dell’anno. In entrambi i casi, Akerfeldt e Wilson hanno dimostrato coraggio nel saper esplorare i confini delle proprie emozioni, senza alcun tipo di blocco o di barriera. Io ho apprezzato questo disco, poiché l’ho assorbito a piccole dosi nei giusti momenti emotivi, perciò mi sento di consigliarlo a chi sia aperto a tutta la musica suonata con cuore ed umiltà; ribadisco però la mia contrarietà ad esprimere un voto concreto, visti i sentimenti indiscutibilmente stocastici ed aleatori suscitabili dall’ascolto di un disco come “Storm Corrosion”.


Tracklist:

01. Drag Ropes
02. Storm Corrosion
03. Hag
04. Happy
05. Lock Howl
06. Ljudet Innan


Voto: s.v./10

lunedì 23 luglio 2012

SONATA ARCTICA - Stones Grow Her Name


STONES GROW HER NAME

Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 18 Maggio 2012
Genere: Power Metal

Introduzione:

Nel colorito mondo del power metal, si sa bene che esistono band che nella loro carriera portano avanti coerentemente il loro marchio e, con una qualità bene o male sempre discreta, si assestano sul loro sound (Iron Savior, Gamma Ray, giusto per fare qualche esempio); poi ci sono quelle band che preferiscono inserire sempre qualcosa di innovativo ad ogni uscita discografica, riuscendo nell’intento di catturare sempre e comunque l’attenzione di devoti fans (Blind Guardian, ecc…), ed infine ci sono quelle band intente a stupire con novità e con variazioni di stile, senza però riuscire ad essere pienamente apprezzate lungo tutta la loro carriera. In quest’ultima categoria rientrano senza dubbio i finlandesi Sonata Arctica: la band esplose come una bomba nel mercato power europeo con tre album di classico power metal melodico scandinavo, ma forte di un songrwriting roccioso ed originale, a partire dal sublime “Ecliptica” del lontano 1999. Dopo “Reckoning Night” (2004), un album più sperimentale ma ugualmente stupendo ed ispirato, la band inizia un nuovo corso col controverso “Unia” (2007): spariscono la doppia cassa e lo speed-power che fece grande questa band, mentre le partiture e le strutture vengono infarcite di prog e divagazioni strumentali molto ricercate. La voglia di freschezza esercitata in “Unia” non funziona però a dovere, rendendo il disco di difficile digeribilità, così come accade al seguente “The Days Of Grays” (2009), che tenta parzialmente di recuperare alcuni stilemi del vecchio corso, non riuscendo nei suoi intenti. Alla luce di questo, il nuovo parto “Stones Grow Her Name” restituisce una band su una giusta rotta? Solo in piccola parte. I Sonata Arctica, infatti, ci propongono alcune tracce finalmente meno prolisse, più immediate e dirette, come da tempo non si sentivano uscire dai loro strumenti. Assieme a queste, però, non mancano farciture pseudo-sperimentali che provano in tutti i modi a stupire, ma che in fin dei conti ci lasciano ancora l’amaro in bocca. Manca realmente la freschezza in questa band; c’è la volontà di voler andare fuori dagli schemi per non ripetersi (scelta giusta e rispettabile), ma manca la capacità di trovare le soluzioni giuste per farlo. Considerato tutto ciò, “Stones Grow Her Name” risulta essere un’occasione sprecata. Non tutto l’album è da scartare, certamente, ma non posso nascondere un filo di delusione per una band che aveva molto da dire e da insegnare a tanti suoi colleghi, ma che spesso si perde nei meandri di una sperimentazione che, forse, non le appartiene.


Track by Track:

I Sonata Arctica si ripresentano sul mercato con “Only The Broken Hearts (Make You Beautiful)”, un mid-tempo semplice ed immediato che riporta subito in mente l’album “Reckoning Night”. L’introduzione elettronica lascia spazio a belle melodie di chitarra supportate da un tappeto atmosferico di tastiera, che sfociano senza tanti riempitivi nel bel refrain. Nulla di nuovo in realtà, ma il brano funge molto bene da apripista. “Shitload Of Money” viene introdotta da un riffing quasi industrial, per poi proseguire su binari heavy-hard rock nella strofa. Siamo dinnanzi ancora una volta ad un classico mid-tempo in stile Sonata Arctica: immediato e roccioso, come da un po’ non si sentiva uscire dalla penna dei finlandesi. Come al solito, spiccano alcuni arrangiamenti di tastiera molto curati che impreziosiscono un brano semplice ma ancora efficace. Insomma, ancora una canzone piacevole e di facile ascolto. Soavi note di pianoforte introducono il veloce riffing di “Losing My Insanity”. Sembra incredibile, ma pare quasi che la band sia finalmente tornata sui propri passi, poiché anche per questa traccia il riferimento più lampante è quel “Reckoning Night” che fece da spartiacque stilistico tra il power melodico degli esordi e il power-prog sperimentale degli ultimi anni. Torna la doppia cassa, le casse dello stereo si riempiono di cori, melodie, un ritornello arioso e convincente, assoli ben fatti. Questa song è, ancora una volta, un episodio godibile seppur poco originale, soprattutto nel riffing. “Somewhere Close To You” è giostrata su un riff di chitarra piuttosto aggressivo, ma il ritornello non riesce a catturare appieno l’attenzione, rendendo il brano abbastanza trascurabile ed in fin dei conti piuttosto piatto e poco convincente. Dopo questo mezzo passo falso è il turno del singolone “I Have Right”, probabilmente uno dei brani più commerciali scritti dalla band. Eteree melodie di tastiere convergono in un mid-tempo/ballad dal sapore ruffiano e catchy. Le atmosfere oscure create dal pianoforte garantiscono, nonostante tutto, un certo fascino al brano e riconsegnano un episodio gradevole, ma non eccezionale nelle strutture e negli arrangiamenti. Manca ancora la proverbiale “botta”, quel brano in grado di catturare e di far scatenare tutta l’adrenalina metallica: lo stesso difetto che ha contrassegnato “Unia” e “The Days Of Grays”. Peccato che il resto della tracklist, da questo punto, consegni dei brani meno gradevoli di quelli fin qui ascoltati, a partire da “Alone In Heaven”, un altro mid-tempo che mostra delle buone idee negli arrangiamenti e discrete scelte melodiche ma scade in un ritornello poco convincente. Più o meno lo stesso discorso vale per la seguente “The Day”, dove delle buone idee vengono sfruttate probabilmente male e convergono in un brano decisamente sperimentale (sarebbe stato perfetto su un disco come “Unia”) ma privo di mordente. Belle le atmosfere create da tastiera e chitarra acustica, ma manca una linea-guida, un motivo che dia senso al brano, il quale anche in questo caso va a scivolare proprio su un ritornello scialbo e passivo. Proprio dove l’eccessiva lentezza dei pezzi inizia a pesare sull’economia del disco, ecco arrivare lo sfarzo di “Cinderblox”, un esempio deciso di country-metal! I mandolini (o simili) dominano le strofe accompagnate da chitarre elettriche e batteria veloce. Un altro brano sicuramente sperimentale, coraggioso, simpatico e gradevole, che perlomeno alza il tiro del disco dando un po’ di freschezza alla proposta. Ecco giungere alla ballad mielosa e ruffiana, immancabile nei dischi di Kakko e Co., che risponde al nome di “Don’t Be Mean”: una buona ballad old-school, che ricorda molto da vicino le testimonianze romantiche dei primi Europe. La chitarra acustica ed il pianoforte tessono un tappeto delicato e corposo, su cui si innesta la convincente prova vocale di Kakko. Ben riuscito è l’assolo di violino centrale. Ricordate la mitica ed aggressiva “Wildfire” su “Reckoning Night”? Bene, ora i Sonata Arctica cercano di darle un seguito con due pezzi a mio avviso non riusciti come “Wildfire II - One With The Mountain”, dove riff di chitarra aggressivi non riescono a supplire scelte melodiche troppo morbide e scontate. La struttura del brano è pregna di parti che non riescono a dare continuità al pezzo (compresa la reprise della melodia del pezzo originale), rendendo difficile la concentrazione. Questo pezzo troppo caotico, nell’indifferenza lascia spazio alla conclusiva “Wildfire III - Wildfire Town, Population: 0, dove vale lo stesso discorso della traccia precedente: il brano gode di stacchi aggressivi micidiali, che non vengono però sfruttati a dovere. Siamo infatti dinnanzi ad un brano poco sicuro, ancora caotico e troppo pretenzioso, che scorre per 8 (in realtà 6) lunghi minuti senza riuscire a catturare l’attenzione. Inevitabile quindi la sensazione di incompiutezza finale.


Considerazioni Conclusive:

Ad ascolto concluso, rimane quindi ben poco di sostanzioso in questo nuovo atteso lavoro della band finnica. Manca la scintilla, la miccia che permetta ad un album metal di esplodere d’adrenalina e di potenza, pertanto SGHN resterà probabilmente sepolto nella polvere del tempo. I musicisti sono indubbiamente ottimi esecutori: se pensiamo al chitarrista Elias Viljanen e al tastierista Henrik Klingenberg è facile constatare come siano particolarmente abili con i propri strumenti, sia in fase solistica, melodica o anche in ambito di accompagnamento. La sezione ritmica di Marko Paasikoski al basso e Tommy Portimo alla batteria, si assesta invece su capacità precise ma abbastanza ordinarie, senza strafare, come sempre i due musicisti hanno mostrato nel corso degli anni. Il vocalist e mastermind Tony Kakko gode ancora di un’ottima qualità interpretativa e trascina bene il carrozzone, ma sembra abbia perso mordente rispetto ai vecchi album. Insomma, era dannatamente più convincente in album come “Silence” o “Winterheart’s Guild”. E’ il songwriting a peccare ancora una volta però: qualche brano piacevole c’è, ma molte canzoni sono lente, poco dinamiche, spesso stanche e non aiutano a dare virilità a SGHN, il quale, brano dopo brano, inizia a stancare l’ascoltatore. Il percorso della band intrapreso con “Unia” e in parte con “Reckoning Night” viene quindi parzialmente continuato anche con questo nuovo album, ma non c’è nulla da fare: anche in questo nuovo disco manca l’estrema immediatezza e velocità di tracce come “Full Moon”, “San Sebastian” o “Wolf & Raven” o se non altro la freschezza compositiva di un brano come “White Pearl, Black Oceans...”. Onestamente, si sente anche la mancanza di un asso come Jani Liimatainen, l’ex-chitarrista della band. Se non altro, l’artwork risulta molto interessante e simbolico, ma chiaramente non basta per esaltare un album poco più che sufficiente. Se vi piace il nuovo corso della band, allora questo è un disco per voi. Se amate i veri Sonata Arctica, non perdete tempo con “Stones Grow Her Name” e tornate a sentirvi la vera qualità di “Ecliptica”.


Tracklist:

01. Only The Broken Hearts (Make You Beautiful)
02. Shitload Of Money
03. Losing My Insanity
04. Somewhere Close To You
05. I Have Right
06. Alone In Heaven
07. The Day
08. Cinderblox
09. Don’t Be Mean
10. Wildfire II - One With The Mountain
11. Wildfire III - Wildfire Town, Population: 0


Voto: 6,5/10

domenica 24 giugno 2012

PATHFINDER - Fifth Element


FIFTH ELEMENT

Etichetta: Sonic Attack Records
Data di uscita: 26 Maggio 2012
Genere: Symphonic Power Metal

Introduzione:

Tornano in pista i Pathfinder, una giovane band ancora poco conosciuta proveniente dalla Polonia, che sfodera il suo secondo disco in carriera e secondo capitolo di una saga fantasy iniziata con il buonissimo esordio “Beyond The Space, Beyond The Time” del 2010. Per chi non li conoscesse, i  Pathfinder suonano un complesso power metal neoclassico, con abbondanti ed essenziali partiture sinfoniche, su un tappeto di velocità d’esecuzione elevatissima. Si potrebbero quasi definire come un riuscito incontro tra la potenza e velocità dei Dragonforce e la magniloquenza musicale dei nostri Rhapsody. Presentazioni a parte, il nuovo “Fifth Element” non delude le aspettative ed anzi si rivela essere decisamente superiore rispetto al pur brillante e difficile esordio. Intendiamoci, i lavori della band polacca non sono estremamente originali, poiché molte dello loro soluzioni musicali hanno già trovato spazio nei vecchi lavori dei Rhapsody o sono, comunque, già piuttosto sentite nell’ambito del power neoclassico-sinfonico, ma, nonostante ciò, i loro brani riescono a colpire per un’innata freschezza e potenza. Un’altra caratteristica lodevole che li distacca dal filone di un canonico sympho-power è l’utilizzo frequente di blast-beats e partiture più estreme (limitatamente al genere proposto, ovviamente), comprese di vocals variegate, a volte anche fuori luogo. Insomma, i Pathfinder non si sono mai astenuti dal cercare di sperimentare comunque qualche soluzione differente e più malsana rispetto al classico filone sinfonico e “Fifth Element” non è da meno: gli elementi del primo disco ci sono tutti, la velocità, le scale virtuosistiche, la sinfonia pomposa, le strane partiture vocali, le sfuriate estreme, ma, in generale, il songwriting registra un netto miglioramento. Infatti se in BTSBTT avevamo dei brani costruiti ad arte e dalle strutture complesse, è anche vero che molte cose facevano fatica a rimanere in testa, mentre in FE ogni brano ha un suo perché ed è contraddistinto da un ritornello chiave che rimane in testa fin dai primi ascolti, pur permanendo le strutture complesse e gli arrangiamenti orchestrali elaborati (anche quest’ultimi ulteriormente migliorati dall’esordio). Insomma, per farla breve, i Pathfinder restano una band da tenere seriamente sott’occhio nel panorama del power metal sinfonico; speriamo solo che la loro grande fantasia musicale e le loro capacità tecniche fuori dal comune riescano ad essere notati degnamente dal grande pubblico, ma con queste premesse è difficile pensare al contrario. Li attendiamo per la fatidica prova del terzo disco, intanto sono ampiamente promossi.


Track by Track:

Si parte con un’immancabile introduzione sinfonica che avvia il concept del quinto elemento, “Ventus Ignis Terra Aqua”, in cui una profonda voce si prodiga in improbabili narrazioni, alla maniera di Christopher Lee con i Rhapsody. La musica che accompagna il parlato è chiaramente di stampo sinfonico e ben si cala nel suo ruolo di apripista per preparare l’ascoltatore, anche se va detto che non è certo un’introduzione esemplare. Tralasciato questo trascurabile dettaglio, si entra nel vivo con la lunga title-track “Fifth Element”, in cui i polacchi si destreggiano alla grande tra partiture sinfoniche, virtuosismi veloci ed oscuri (nella parte solistica), stacchi di pianoforte e numerose parti di blast-beat fulmineo, come accade nel maestoso ritornello. Lungo i nove minuti del brano, non si può non notare come i Pathfinder siano grandi esecutori e compositori dalle idee spesso geniali e particolari. Come nel disco precedente, anche in questo caso le voci sono indescrivibili e non sempre totalmente apprezzabili, tra un cantato ordinario, screams in falsetto messi qua e là e parti in pseudo-screaming. Gli arrangiamenti strumentali sono strabilianti, così come saranno lungo tutto l’album. Chiusa quest’ottima power song, il seguito prende nome di “Ready To Die Between Stars”, un’altra ottima song di power orchestrale e possente, forse più canonica, ma indubbiamente coinvolgente nelle sue repentine evoluzioni e nei suoi arrangiamenti orchestrali potenti ed essenziali. Molto bello ed emozionante è il velocissimo e corale ritornello, così come in tutto il corso del brano le linee vocali riescono ad essere davvero convincenti. Spettacolare infine tutta la parte solistica centrale: in stile Dragonforce nella prima metà, con scambi eccellenti tra chitarre e tastiere, ed in stile Rhapsody nella seconda metà, tra epiche ed oscure melodie. Insomma, un brano davvero eccellente, che lascia spazio ad un altro stupendo pezzo dal titolo “The Day When I Turn Back Time”: l’introduzione ricorda i Turisas più recenti di “The Varangian Way” con dei cori epici e profondi, mentre da li a poco il tutto si ridimensiona in un contesto power suonato a velocità elevatissime. Magistrali la magniloquente strofa ed il favoloso refrain, epico, emozionante e malinconico, con un lodevole crescendo orchestrale. Un brano che non sbaglia una nota e fa centro ancora una volta, candidandosi come vero capolavoro dell’intero album. “Chronokinesis” è aperto da una sezione orchestrale magistrale e profondissima, per poi svilupparsi in strofe veloci, ma meno memorabili e più canoniche. Il vero punto di forza del brano è il refrain, che si apre potente ed arioso, dando un tocco di solarità alla proposta della band, tra le consuete parti di batteria al fulmicotone ed arrangiamenti sinfonici sempre in primo piano, senza soffocare le chitarre. “March To The Darkest Horizon” è il brano più cadenzato e battagliero dell’intero album, in cui una trionfale strofa dal sapore manowariano porta ben presto ad un convincente ritornello corale e guerriero, su una splendida cavalcata metallica. Come di consueto, la parte solistica risulta costruita a dovere, in grado di catturare l’attenzione e di mantenere alta la tensione, anche quando i ritmi si stoppano in un preziosissimo stacco di suggestivo pianoforte con voce femminile. Otto minuti di metal trionfale e battagliero davvero magistrale ed estremamente riuscito. Cade a pennello la ballad “Yin Yang”, dove a parlare sono solo un delicato pianoforte e dei leggiadri archi, che accompagnano uno splendido duetto tra il singer Szymon ed una voce femminile, un po’ com’era accaduto con la ballad “Undiscovered Dreams”, dal primo disco. Il brano mette in risalto tutta l’anima melodica dei Pathfinder, senza voler strafare e rimanendo quindi ancorato a melodie ed arrangiamenti semplici, ma efficaci nello spezzare il ritmo di un album fin qui accesissimo. Ad essere puntigliosi, il finale poteva essere giostrato in maniera più degna, ma, onestamente, si tratta di una virgola in mezzo a tanta magnificenza. La sezione orchestrale lascia maggiore spazio alle chitarre con il power velocissimo e dragonforciano di “Elemental Power”, brano introdotto da sognanti melodie di tastiera e giocato su uno splendido ritornello sparato a velocità supersoniche, su un ottimo tappeto melodico. Non mancano i consueti stacchi di blast-beats di batteria, che rendono tutta la proposta leggermente più aggressiva ed accattivante. Immancabile la spettacolare battaglia solistica tra le chitarre di Gunsen/Karol e la tastiera di Slawek, ulteriormente sottolineate dalla velocità estrema del brano. Ancora una canzone basata su alte velocità è “Ad Futuram Rei Memoriam”, la quale, dopo una delicata introduzione sinfonica, si lancia in fulminei blast di batteria e sweep di chitarra-tastiera. La qualità è ancora una volta estremamente buona, anche se nel complesso il brano non brilla alla pari delle tracce precedenti, nonostante un memorabile refrain fulmineo ed estremamente melodico. L’ultimo tassello di questo fantastico album è “When The Sunrise Breaks The Darkness”, che gode ancora di un ritornello carico di enfasi, di orchestra e di malinconia. Degni di nota sono anche le varie strofe ed i bridge (mi hanno ricordato qualcosa dei francesi Fairyland) ed i sottili arrangiamenti ben fatti che pervadono tutto il brano. Un classico brano di symphonic power sparato a folli velocità, tra melodie eccezionali ed arrangiamenti sopraffini, perfetto per chiudere degnamente un capolavoro come “Fifth Element”. “Vita” è infine un trascurabile outro che richiama il tema della title-track, ma aggiunge ben poco a quanto già detto egregiamente dalle tracce precedenti.


Considerazioni Conclusive:

Perdonate il mio costante elogio, ma qui siamo di fronte al capolavoro symphonic-power del 2012, a meno che non ne spunti fuori un altro nel restante mezzo anno a disposizione (vedremo cosa combina Turilli!). Insomma, una così giovane band che solo al secondo album mette in mostra una tale magnificenza musicale, non può che essere ammirata con stupore ed apprezzamento, al di là del genere proposto: a tal proposito, se odiate il power sinfonico e pomposo, lasciate comunque perdere quest’album, poiché accontenta solo un certo target, ma lo fa dannatamente bene. Nelle fila della band polacca troviamo degli autentici mostri, tra cui i chitarristi Gunsen e Karol Mania che si mettono in mostra tra riff veloci e precisi e virtuosismi solistici degni dei migliori shredders; Szymon Kostro è colui che da voce ai Pathfinder, dimostrando una spiccata personalità ed una buona tecnica, dando comunque il meglio di sé nelle tonalità medie, mentre i suoi screams acuti, a volte, possono sembrare anche fuori contesto; Slawek Belak si occupa delle tastiere e di tutto il possente ed epico comparto d’orchestrazione: inutile dire che il suo contributo è essenziale e sbalorditivo nella capacità di arrangiare minuziosamente tanti suoni e tanti strumenti orchestrali diversi (per quanto, credo, siano sintetizzati) e i suoi solos velocissimi e gustosi hanno una dichiarata influenza neoclassic-power; Arkadiusz Ruth, oltre ad aiutare Slawek nelle orchestrazioni, riesce a mostrarsi in qualche occasione grazie ad alcuni brevi assoli di basso, sottolineando la sua grande capacità tecnica; infine il nuovo drummer della band, Kacper Stachowiak, mette in mostra tutta la sua abilità con passaggi velocissimi, potenti ed aggressivi, dimostrandosi un batterista davvero disumano, a tratti. La produzione ha il grande pregio di riuscire a mettere sotto la giusta luce tutti i singoli strumenti, senza penalizzare alcun suono o alcuna frequenza, risultando in un ottimo lavoro di audio engineering; ad essere puntigliosi, il suono della batteria non è eccellente e risulta forse un po’ scarno, avrebbe forse reso maggiormente con un suono differente. All’opera sul disegno della copertina troviamo un certo Felipe Machado Franco…lo ricordate? Basta pensare agli ultimi due album dei Blind Guardian e alle recenti produzioni dei Rhapsody: esatto, proprio lui. Infatti il suo stile è perfettamente riconoscibile anche nella bella cover di “Fifth Element” (notare l’uomo incappucciato e la sfera pseudo-energetica con gli anelli incastrati). Detto ciò, non posso che rinnovare i miei complimenti alla band polacca, creatrice di un album davvero curatissimo, inteso e corposo, valido sotto tutti i punti di vista. I Pathfinder sono dotati di tutte le capacità e le intenzioni per farsi conoscere degnamente in un prossimo futuro; diamo loro questa possibilità, perché se la meritano seriamente.



Tracklist:

01. Ventus Ignis Terra Aqua
02. Fifth Element
03. Ready To Die Between Stars
04. The Day When I Turn Back Time
05. Chronokinesis
06. March To The Darkest Horizon
07. Yin Yang
08. Elemental Power
09. Ad Futuram Rei Memoriam
10. When The Sunrise Breaks The Darkness
11. Vita


Voto: 9/10

sabato 16 giugno 2012

CRADLE OF FILTH - Midnight In The Labyrinth


MIDNIGHT IN THE LABYRINTH

Etichetta: Peaceville
Data di uscita: 21 Aprile 2012
Genere: Symphonic Gothic

Cosa sta combinando Dani Filth? Questa domanda sorge abbastanza spontanea nel momento in cui si ascoltano con attenzione i primi minuti di questo nuovo “Midnight In The Labyrinth”, il tanto atteso ed agognato album orchestrale dei maestri del gothic-black metal Cradle Of Filth. La band non necessita di particolari presentazioni, bene o male tutti la conosciamo, vista la grande importanza che comunque hanno avuto negli anni ’90 per lo sviluppo di un genere come il symphonic black metal. Ad oggi, infatti, la band del minuto singer britannico rimane una delle più saccheggiate per chi vuole suonare questo genere, assieme ai norvegesi Dimmu Borgir. Ma veniamo a questo album: per molto tempo si era parlato di questo progetto, tanto voluto dalla band e da Dani stesso. Eccolo qui, finalmente, presentato da una copertina non eccezionale ma che almeno riporta alla mente le belle atmosfere dark-gotiche di “Dusk…And Her Embrace”, capolavoro assoluto dei vampiri inglesi. Purtroppo, c’è da dire fin da subito che cotanta attesa non è stata ripagata degnamente: MITL è infatti un lungo concentrato sinfonico con alcune narrazioni che va a ripescare e ri-arrangiare soprattutto i brani più vecchi del combo (dai primi tre dischi), tralasciando le produzioni più recenti. In questo non c’è nulla di male, anzi, gli intenti sono buoni. Ma addentrandoci subito nel succo del platter, è proprio la musica stessa che non funziona: l’orchestra suona senza sfoderare tutta la sua potenza, gli arrangiamenti sembrano spesso privi del giusto mordente ed appaiono in molti casi sin troppo semplici per essere degni di un’intera orchestra sinfonica…a volte si ha quasi la sensazione che gli strumenti siano stata campionati con dei buoni VST piuttosto che suonati umanamente, poiché le giuste dinamiche e i chiaro-scuri orchestrali stentano ad uscire e vige una generale piattezza compositiva. A tutto ciò è doveroso aggiunge che le lunghezze dei brani di questo disco sono più o meno le medesime dei brani originali: giusto, direte voi, ma il problema è che il suono unico dell’orchestra e dei cori, a lungo andare, tende a stancare l’orecchio lungo i 78 minuti prolissi del primo disco (si, i dischi sono ben due, ma tralasciamo per un attimo il secondo); complice di ciò, senza dubbio, è la sterilità degli arrangiamenti e la frequente incapacità di renderli avvincenti e degni di una colonna sonora. Non tutto è da buttare, sia chiaro: le riproposizioni maligne ed oscure di “A Gothic Romance (Red Roses For The Devil’s Whore)” e “The Twisted Nails Of Faith”, per esempio, sono delle degne versioni orchestrali dei rispettivi brani omonimi, piccoli gioiellini sinfonici in grado di catturare l’attenzione in maniera adeguata. D’altro canto però, le sterili versioni di “Funeral In Carpathia” o “The Forest Whispers My Name”, dove tutta la carica nefasta e demoniaca delle versioni metalliche viene sgonfiata, lasciano seriamente l’amaro in bocca. Discorso a parte infine per l’inutile “Goetia (Invoking The Unclean)”, 13 minuti d’atmosfera oscura con narrazioni demoniache, mantra, suoni vari, sibili e quant’altro, il tutto su un tappeto ambient decisamente monotono. Insomma, un brano che francamente lascia seriamente perplessi. Ho accennato ad un secondo disco in “Midnight In The Labyrinth”, ma non aspettatevi nulla di appetitoso; se nel primo disco le versioni orchestrali sono accompagnate da alcune parti narrate da Dani (nel suo inconfondibile stile) e da Sarah Jezebel Deva (vecchia conoscenza in casa Cradle), nel secondo cd abbiamo gli stessi brani, ma senza narrazioni e in un ordine di tracklist differente: ora, spiegatemi il senso di questa operazione. Se non altro, chi non sopporta la voce del singer, potrà cercare almeno di guastarsi solo gli strumenti, ma, al di là di questo, l’inserimento del secondo disco risulta esser nient’altro che un trascurabile riempitivo. Per concludere, “Midnight In The Labyrinth” da una parte risulta essere un passo decisamente falso (o meglio, un’occasione che poteva essere sfruttata in modo migliore) nella carriera di una band che, onestamente, si era ripresa alla grande dopo il deludente “Thornography” (2006): ciò è avvenuto con due buonissimi album, con cui i Cradle hanno riacquistato credibilità compositiva e la giusta veemenza (“Godspeed On The Devil’s Thunder” del 2008 e “Darkly, Darkly Venus Aversa” del 2010, qui recensito a questo link: http://recensionimetalfil.blogspot.it/2010/11/cradle-of-filth-darkly-darkly-venus.html). Da un altro punto di vista, questa nuova uscita può essere intesa come un regalo ai fan più affezionati, i quali, presumo, avranno comunque qualcosa da ridire in merito a come sono state fatte le cose. A mio avviso, estremamente più interessante sarebbe stato ri-registrare qualche classico con l’ausilio non solo degli strumenti sinfonici, ma anche di chitarre distorte e batteria triggerata: versioni metal con orchestra avrebbero reso il discorso sicuramente più interessante. A conti fatti, è un album di cui non consiglio l’acquisto, a meno che non siate dei vampiri collezionisti di ogni uscita della band.Confidiamo nel prossimo disco di inediti.


Tracklist:

CD 1:

01. A Gothic Romance (Red Roses For The Devil’s Whore)
02. The Forest Whispers My Name
03. The Twisted Nails Of Faith
04. The Rape And Ruin Of Angels (Hosannas in Extremis)
05. Funeral In Carpathia
06. Summer Dying Fast
07. Thirteen Autumns And A Widow
08. Dusk And Her Embrace
09. Cruelty Brought Thee Orchids
10. Goetia (Invoking The Unclean)

CD 2 (versioni strumentali):

01. The Rape And Ruin Of Angels (Hosannas in Extremis)
02. Dusk And Her Embrace
03. Summer Dying Fast
04. The Twisted Nails Of Faith
05. Funeral In Carpathia
06. The Forest Whispers My Name
07. Cruelty Brought Thee Orchids
08. A Gothic Romance (Red Roses For The Devil’s Whore)
09. Thirteen Autumns And A Widow


Voto: 5/10

domenica 10 giugno 2012

DRAGONFORCE - The Power Within


THE POWER WITHIN

Etichetta: Electric Generation Records
Data di uscita: 16 Aprile 2012
Genere: Melodic Power Metal

Introduzione:

Volenti o nolenti, li conosciamo tutti. Questa band di cui mi accingo a parlare ha visto crescere la propria popolarità in maniera esponenziale negli ultimi dieci anni; che sia per le velocità ultrasoniche proposte, per gli assoli esagerati e spesso fuori contesto, per la loro concezione più aerobica che musicale del concerto, i britannici Dragonforce non sono mai stati particolarmente stimati dalla critica internazionale, riscontrando, tuttavia, apprezzamenti sempre più cospicui dagli ascoltatori di power metal, ma non solo. La band del pepato chitarrista Herman Li ha di recente affrontato l’abbandono dello storico frontman ZP Theart, che ha lasciato il gruppo nel 2010. A quattro anni di distanza dal discutibile “Ultrabeatdown”, tornano in campo nuovamente, con gli stessi ingredienti di sempre. Ma qualcosa è cambiato, in meglio: già dando un’occhiata al minutaggio, ci si rende conto che gli sbrodoli di 8-9 minuti, praticamente d’obbligo in ogni uscita post “Valley Of The Damned” (lo stupendo esordio del 2003), non sono presenti. Ebbene, ciò che potrebbe essere solo un semplice aspetto di secondo piano, si rivela una parte importante di quelli che sono i nuovi Dragonforce: “The Power Within” è di gran lunga il miglior lavoro partorito nell’intera storia della band, al pari dell’esordio. Rimangono le melodie curatissime, rimane la potenza e l’impatto delle chitarre; la supervelocità c’è ancora, ma solo in alcuni brani. Assieme a tutto ciò, notiamo la presenza di solos più ragionati, di una riduzione drastica di comiche keyboards alla Supermario, e la presenza di un paio di graditissimi mid-tempos; davvero una sorpresa per chi conosce bene la band britannica. Insomma, i Dragonforce sono cresciuti, si sono ridimensionati. Hanno aspettato quattro anni per ricaricare bene le batterie e per riorganizzare al meglio le idee, confluendo tutta questa nuova energia nel nuovo disco. Ora finalmente, con queste nove canzoni, sono degni di essere esaltati anche dalla critica e di essere apprezzati in toto per ciò che suonano, ovvero un elettrizzante power europeo, non sempre originale, non sempre eccezionale, ma estremamente melodico e potente, come è giusto che sia. In tutto ciò, una buona dose d’attenzione è posta su Marc, il nuovo giovane singer, che, a dirla tutta, non fa rimpiangere nemmeno per un attimo il discreto ZP, un cantante che non è mai riuscito a brillare nella musica del combo; ora, invece, anche il cantante ha un ruolo di spicco nella band. Bentornati Dragonforce, questa volta avete sorpreso positivamente!


Track by Track:

Qualche epica melodia e acuti su tonalità altissime introducono “Holding On”, il primo brano dei nuovi Dragonforce. La velocità di esecuzione del brano è davvero elevata, come i Dragonforce stessi ci hanno abituati negli anni passati, ma fin da subito notiamo che le sezioni strumentali inutili e ripetitive sono state drasticamente ridotte, dando finalmente giustizia al tocco supersonico della band. Finalmente riusciamo ad apprezzare meglio la potenza del gruppo, grazie ad una song energica ed accattivante, sia nelle strofe che nell’arioso refrain. Spicca l’esecuzione folle del drummer Dave e la convincente voce della new entry Marc. Un ottimo biglietto da visita, che lascia spazio alla successiva ancor più bella “Fallen World”, non troppo originale, ma epica nelle sue melodie e dallo stile inconfondibilmente Dragonforce, tra blast-beats e fraseggi velocissimi. Il ritornello è melodico e piacevolissimo, nella tipica tradizione power, grazie anche alle ottime linee vocali di Marc. Fin qui, nonostante lo stile sia ancora inevitabilemente legato al passato, il tutto è reso più scorrevole, grazie a minutaggi drasticamente ridotti e a partiture strumentali e virtuose più concentrate e finalizzate. Arriva la prima sorpresa con “Cry Thunder”, brano anticipato da un videoclip. Si tratta di un mid-tempo, allegro e saltellante, in cui Herman Li e soci si destreggiano bene tra curatissime melodie di chitarra pseudo-folkeggianti. Un brano indubbiamente privo di idee geniali o troppo originali, ma degno comunque di essere ricordato nella discografia del gruppo. La forza di questo mid-tempo sta nelle melodie fresche e scintillanti e nel buon refrain, creato appositamente per la dimensione live. Dopo questa gradita sorpresa, si torna a pestare l’acceleratore, questa volta in maniera meno estrema e virulenta, con un classico brano power europeo: “Give Me The Night”, nonostante un titolo dal sottofondo glam, riesce a convincere, ma non a stupire. Le chitarre sono perfette nei loro veloci e tecnici riff, così come le convincenti strofe ed il ritornello melodico e ruffiano garantiscono quattro minuti e mezzo piacevoli e godibili. Molto interessante la parte centrale, con accordi più lenti e cadenzati, prima di un bellissimo assolo di chitarra. Un delicato pianoforte introduce quella che apparentemente sembrerebbe una ballad: nulla di più sbagliato, perché “Wings Of Liberty” è in realtà un’altra bordata di power metal epico e velocissimo. Ritengo che i Dragonforce non abbiano mai creato un brano così intenso come questo; tutto suona incredibilmente potente ed è al posto giusto. Le melodie, la voce, l’accattivante incedere del brano, gli stacchi puliti, gli assoli: tutto ciò contribuisce a creare quello che ritengo essere il brano più bello in tutta la discografia della band. Probabilmente, a molta gente sembrerà un classicissimo brano power, ma “Wings Of Liberty” possiede qualcosa in più, un mood fresco e accattivante, capace di dare speranza e forza interiore anche al più depresso dei metallari. Bellissimo anche il curatissimo assolo centrale. Un brano di musica eccellente, consigliato a chi è in cerca di felicità e di voglia di vivere. Il successivo, è un altro ottimo brano che testimonia la rinnovata freschezza della band: “Seasons” si presenta come un altro mid-tempo graffiante e convincente fin dal primo ascolto, grazie a strofe aggressive e dirette e ad un refrain coinvolgente e passionale, dove Marc si adagia su linee vocali morbide e baritonali, ma perfette. Azzeccato l’intermezzo potente e melodico, prima di un perfetto e gradevole scambio solistico tra le chitarre e la tastiera. Il fading del brano ci porta alla successiva “Heart Of The Storm”, dove i Dragonforce ritornano a velocizzare la loro proposta, con un power metal veemente e repentino. Nonostante gli intenti delle ottime strofe ed i bei solos, il ritornello fatica a decollare, così l’intero brano tende ad assomigliare a tante vecchie canzoni del gruppo senza presentare molta varietà stilistica e senza il giusto mordente, presente maggiormente nei primi brani del disco. Dopo questo classicissimo brano alla Dragonforce, la band si ripropone con un altro brano power, meno veloce ma sempre infuocato, che perlomeno presenta però qualche spunto più interessante: “Die By The Sword” non gode di un refrain eccellente, ma ha dalla sua parte degli interessanti arrangiamenti di chitarra, delle strofe precise e convincenti ed uno stupendo intermezzo lento e malinconico, con un intervento solistico emozionante e particolarmente sentito, prima della spiazzante ripresa di velocità che conduce al finale. Dopo un brano degno di nota ma non trascendentale, arriviamo al finale con “Last Man Stands”. Nella breve introduzione di tastiere pare quasi di sentire i Linkin Park più elettronici e recenti (scusate l’ingombrante paragone), ma le cose virano ben presto verso un canonico power melodico e arioso, pregno di positività e speranza: del resto, i Dragonforce sono anche questo. Al di là della canonicità del pezzo, “Last Man Stands” non esagera con la velocità e gode di un buon refrain melodico e di un ottimo e perfetto crescendo solistico dei chitarristi e del tastierista. Arriviamo così agli acuti finali, che concludono degnamente questo ritrovato spirito della band britannica, esposto nei nove brani di questo pregevole come-back discografico. Delle varie bonus-tracks dell’edizione speciale, cito solamente la versione acustica di “Seasons”, un piccolo gioiellino in grado di far risaltare ancor di più arrangiamenti e melodie del pezzo originale.


Considerazioni Conclusive:

Colpo centrato per il combo britannico. Dopo un album piuttosto deludente, sotto molti aspetti, come “Ultrabeatdown”, TPW riesce a risollevare le sorti di una formazione che negli anni ha cercato di portare perlomeno una ventata nuova nel power, introducendo velocità d’esecuzione al limite dell’umano e suoni spesso grotteschi. Non si può nascondere che la monotonia nei loro pezzi stava iniziando a prendere il sopravvento; l’eccesso iniziava a diventare un irrinunciabile vezzo che andava inevitabilmente a soffocare la composizione e la qualità della musica. Per fortuna, ora sembra che Herman Li abbia finalmente capito che non serve essere così eccessivi per poter essere ricordati. Infatti l’operato suo e di Sam Totman alle chitarre si impone, come sempre, con potenza e precisione tecnica nelle complesse partiture ritmiche, mentre nei solos qualcosa è cambiato rispetto al passato; più melodia, più ricercatezza e meno miliardi di note sbrodolate a caso in una battuta. Perfino il basso di Frederic Leclercq assume un ruolo fondamentale e in moltissime occasioni funge da collettore tra un riff e l’altro attraverso repentini fraseggi di basso, che lasciano intendere una buona capacità tecnica (mai particolarmente dimostrata nel power melodico). Altro punto chiave è la tastiera: i suoni ridicoli pseudo-videogame anni ’80 sono praticamente scomparsi. Al loro posto i tappeti sinfonici e pianistici diventano maturi e fondamentali, senza scordare qualche ottima prova solistica, il tutto ad opera di un ispirato Vadym Pruzanov. Non si notano grandi differenze nel drumming di Dave Mackintosh, sempre preciso, dinamico e velocissimo, essenziale per gli intenti del gruppo. Le luci sono però tutte puntate su Marc Hudson, un classico power-metal-singer, dotato di tecnica, carisma, di estensione e del giusto calore esecutivo. La differenza con la sterilità di ZP si sente; Marc ha indubbiamente portato un’ulteriore grammo di freschezza nella band. La produzione è perfetta per la proposta: potente ma anche lievemente aggressiva nel suono delle chitarre, mentre sul versante artwork, la band dovrà ancora lavorare: così come molte precedenti, anche la copertina di TPW è davvero insignificante. Ma è il songwriting a fare davvero la differenza: tutto suona più equilibrato e ridimensionato, con una qualità compositiva in molti casi davvero matura ed elevata. Insomma, c’è molto di cui sperare per il futuro dei Dragonforce, ma intanto godetevi senza remore questo nuovo piccolo gioiellino del power moderno.


Tracklist:

01. Holding On
02. Fallen World
03. Cry Thunder
04. Give Me The Night
05. Wings Of Liberty
06. Seasons
07. Heart Of The Storm
08. Die By The Sword
09. Last Man Stands


Voto: 8/10