martedì 31 luglio 2012

STORM CORROSION - Storm Corrosion


STORM CORROSION

Etichetta: Roadrunner Records
Data di uscita: 22 Maggio 2012
Genere: Progressive Ambient

Introduzione:

Capita spesso, nel nostro ricco mondo musicale, di assistere a collaborazioni tra grossi esponenti della scena internazionale. I monicker Demons & Wizards, Cain’s Offering, Primal Rock Rebellion,  giusto per fare degli esempi, o il consistente progetto Avantasia, vi dicono qualcosa al riguardo? Sicuramente si. Molto più raro è, invece, poter assistere ad una collaborazione artistica così intimista ed emozionale come quella che ha coinvolto due grandi esponenti del prog moderno, ovvero il leader e fact-totum degli Opeth, Mikael Akerfeldt, ed il leader e fact-totum dei Porcupine Tree, Steven Wilson. Due personalità in netta sintonia tra loro, come dimostrano le collaborazioni da ormai molti anni su album come il maestoso “Blackwater Park”, o come dimostrano soprattutto le recenti rispettive ultime uscite: “Heritage” degli Opeth (recensione a questo link: recensionimetalfil.blogspot.it/2011/11/opeth-heritage.html) e “Grace For Drowning” dello Steven Wilson solista. Si tratta di due lavori fondamentalmente di progressive rock, dove non c’è alcuno spazio per il death-metal targato Opeth. I due artisti sentono che è finalmente giunto il momento di collaborare, di dare vita a qualcosa di inaspettato, con spasmodica attesa e consenso dei fan di questi due genialoidi frontman: il risultato è questo progetto e album “Storm Corrosion”, un ideale terzo capitolo di una trilogia progressive rock iniziata proprio con Akerfeldt da una parte e Wilson dall’altra. Come si poteva intuire, di metal qui non c’è neanche l’ombra, tant’è che nemmeno le distorsioni sono consentite; non vi è nemmeno il groove del rock, ma a dominare sono gli intenti psichedelici del progressive più cupo: “Storm Corrosion” è un manifesto del disagio interiore, svelato attraverso passaggi musicali grigissimi di tastiere progressive e delicatissime chitarre acustiche, appena pizzicate. Non ci sono ritornelli, non ci sono brani nel vero senso del termine, ma solo sei lunghi episodi che fungono da ideale colonna sonora di un’angoscia nascosta  che timidamente si rivela, nota dopo nota, su un tappeto ambient/atmosferico non indifferente. Diciamocelo pure, da due menti come quelle dei due musicisti coinvolti ci si aspettava qualcosa di strano, ma, onestamente, non si sarebbe potuto nemmeno pensare ad un lavoro di tale entità, così sfacciatamente intimista e controverso. Per apprezzare questo disco, servono indubbiamente tanti ascolti, preferibilmente di sera, senza distrazioni, per apprezzare ogni singola sfumatura proposta; ma, soprattutto, serve una predisposizione adatta e la consapevolezza che in “Storm Corrosion” non c’è nulla che ti faccia muovere la testa a ritmo. Non è facile riuscire ad ascoltare questo disco, né tantomeno ad apprezzarlo totalmente, ma se cercate qualcosa di diverso ed ambiguo, lasciatevi tentare da questo affliggente vuoto…


Track by Track:

Il primo vagito è “Drag Ropes”, di cui è stato realizzato un videoclip che, accompagnato alla musica, ostenta una certa ansia nell’ascoltatore. Dei lievi archi atmosferici introducono la voce calda di Akerfeldt, sempre più a suo agio negli anni con il clean-singing. Fino a metà brano è un susseguirsi di chitarre acustiche delicate, ma coinvolgenti nella propria oscurità, suoni molteplici, tastiere che entrano ed escono come fantasmi, il tutto giocato su un’atmosfera onirica, soffusa e disturbante. La seconda metà del brano prosegue la proposta con un maggior vigore tra strani fraseggi di chitarra ed inquietanti cori, archi e pianoforte accompagnati solo da un charleston che detta il ritmo. Non c’è alcuna logica, solo sentimenti che si susseguono in modo istintivo, e così sarà anche per le restanti cinque tracce. La title-track “Storm Corrosion” si assesta anch’essa sui dieci minuti di durata. Un arpeggio acustico accompagnato da echi di archi in lontananza funge da tappeto emotivo per le frasi leggermente sussurrate di Wilson. La traccia, dotata di una struttura più lineare, è sorprendente nella sua delicatezza, richiamando spesso alcuni dei più soavi capolavori degli Opeth più progressivi. Da metà brano, gli arrangiamenti si arricchiscono con ulteriori chitarre acustiche, archi, soffusi pianoforti, suoni di un’atmosfera malata ed inquietante (a tratti sembra quasi di stare in un film horror psicologico), prima di un finale delicatamente arpeggiato. Con la seguente “Hag” le intenzioni non cambiano di una virgola: ancora un brano, o meglio un pezzo di musica, giocato su chiaro-scuri musicali pregni di inquietudine repressa. Lievi chitarre pulite, tastiere dal sound vintage, un basso che pulsa, persone che ridono in lontananza: tutto ciò è presente in questa traccia, dove ad una parte iniziale più in sordina si contrappone un prezioso stacco oscuro tra tastiere e chitarre cupe e distorte, con tanto di virtuosa batteria a seguito. Un onirico episodio ancora una volta difficile da comprendere nella sua psichedelica schizofrenia. Inutile dire che la seguente “Happy” porta un titolo decisamente contrastante con quello che è il mood portante: un pacato sussurro di chitarra acustica che si intreccia con oscuri suoni e con le voci depresse e quasi estenuanti di Wilson e Akerfeldt. Prezioso nella sua semplicità il breve assolo sul finale del brano, il quale si assesta sui 5 minuti scarsi di durata (ed è la traccia più corta dell’album). Un altro lascito malinconico, ostentatore di disperazione ed angosce tradotte in note. Una chitarra scandisce una blanda ritmica vagamente accesa, su cui si innestano altri fraseggi acustici: è l’inizio di “Lock Howl”, un ritaglio di una soffocata sofferenza, un turbinio di suoni, atmosfere e passaggi acustici di grande spessore. Nemmeno le voci sono presenti; Akerfeldt e Wilson, con la sola forza degli strumenti, danno vita ad un brano fin troppo intimo ed illogico per poter essere apprezzato totalmente, ma gli echi progressive rock dei suoni e dei leggeri ritmi donano comunque un contorno affascinante e psichedelico ad una traccia davvero particolare ed insolita, secondo gli intenti del progetto. Arriviamo così al finale, pronti per i restanti dieci minuti di “Ljudet Innan”, dove un particolare falsetto di Akerfeldt introduce un brano molto cupo e rilassante; perfino le pause e i silenzi assumono un’inaspettata importanza in questa musica così soffusa ed ambient, perfetta per una terapia mentale. Qualche tremolante accordo ogni tanto, piazzato nei punti giusti, guida il brano tra tastiere come sempre soffici e dal suono vintage, molto caldo ed avvolgente, tra ritmi leggerissimi e bei solos di clean guitars, in pieno stile prog-rock d’annata. Così si conclude “Storm Corrosion” un (unico?) album di un progetto senza confini e senza barriere, nato soprattutto dall’amore nutrito da due grandi musicisti per il progressive e per gli anni d’oro di questo genere musicale.


Considerazioni Conclusive:

Ammetto senza remore che non è facile assumersi il compito di giudicare un disco del genere. Già solo dover mettere un’etichetta là sopra non è stato facile: “progressive ambient”, dice tutto e dice niente, data l’indescrivibile aurea atmosferica creata in diversi momenti del lavoro. E’ complicato classificare e dare dei giudizi per un disco come “Storm Corrosion”, poiché tutto dipende dal modo e dall’umore con cui vengono ascoltati questi cinque pezzi di malinconia: un giorno potreste essere da soli di notte, senza voglia di dormire, e “Storm Corrosion” vi potrebbe apparire come un piccolo capolavoro, mentre facendo girare il disco in un altro momento qualsiasi della giornata, con i muratori che sparano decibel su decibel con le trivelle, con i clacson delle auto e gli uccellini che cinguettano, il medesimo disco potrebbe apparirvi noioso, scialbo, perfino irritante. Questo è il motivo per cui, ora più che mai, mi trovo in difficoltà a digitare un numero da 1 a 10, ed ecco perché là sotto vi ritrovate un bel “s.v.” (senza voto). Un’opera troppo strana, complessa, caotica ma ben chiara nei suoi intenti, per poter essere ridotta ad un numero. Se non amate sperimentalismi d’avanguardia ed idee totalmente aperte alla ricerca musicale, allora lasciate perdere senza indugi “Storm Corrosion”; in caso contrario, provate a dargli un ascolto in modo concentrato e potreste trarne delle gradevoli sorprese. Musicalmente, gli arrangiamenti ed i lavori alle chitarre di Wilson e Akerfeldt sono sempre di un certo rilievo artistico, mentre le voci fungono da abbellimento, più che da motori portanti dei brani, data la loro scarsa presenza. E’ giusto anche accennare alle pur ridottissime parti di batteria (il più delle volte solo un piatto che accompagna il tutto), suonate da Gavin Harrison. Azzeccato il lavoro di copertina, in pieno stile rock anni ’70, che con i suoi colori accesi ed infernali esprime bene il disagio riscontrabile in questi sei sorprendenti lunghi pezzi. Senza dubbio, “Storm Corrosion” farà discutere tutti; ci sarà chi lo esalterà come uno degli apici creativi dell’essenza progressiva dei due artisti coinvolti e chi invece sarà pronto a cestinarlo come il peggiore disco dell’anno. In entrambi i casi, Akerfeldt e Wilson hanno dimostrato coraggio nel saper esplorare i confini delle proprie emozioni, senza alcun tipo di blocco o di barriera. Io ho apprezzato questo disco, poiché l’ho assorbito a piccole dosi nei giusti momenti emotivi, perciò mi sento di consigliarlo a chi sia aperto a tutta la musica suonata con cuore ed umiltà; ribadisco però la mia contrarietà ad esprimere un voto concreto, visti i sentimenti indiscutibilmente stocastici ed aleatori suscitabili dall’ascolto di un disco come “Storm Corrosion”.


Tracklist:

01. Drag Ropes
02. Storm Corrosion
03. Hag
04. Happy
05. Lock Howl
06. Ljudet Innan


Voto: s.v./10

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