martedì 13 settembre 2011

DEMONAZ - March Of The Norse


Quando un “Demone” vuol essere “Immortale”…

Nome Album: March Of The Norse
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 1 Aprile 2011
Genere: Viking Metal

Introduzione:

Stiamo per parlare di un personaggio noto, perlopiù, ai fans delle prime annate del black metal. Quello grezzo, satanico, privo di compromessi e, indispensabilmente, norvegese D.o.c. Tra questi gruppi dei primi anni ’90, ve n’era uno che sembrava esser più interessato al ghiaccio ed alla neve piuttosto che al satanismo consueto della suddetta scena. Erano (e sono) gli Immortal, band attiva ancora oggi, ma priva di un suo membro fondatore ormai dal 1997: l’ex-chitarrista Harald Naevdal, meglio conosciuto come Demonaz, che appunto in quell’anno fu costretto ad abbandonare la band madre e la chitarra stessa, a causa di una seria tendinite. Demonaz ha avuto modo, comunque, di esprimersi con gli stessi Immortal negli anni venturi, continuando a forgiare testi ed un prezioso supporto. Ma mancava qualcosa: per quest’uomo era necessario tornare ad esprimersi anche musicalmente ed in maniera più personale. Abbandonata la chitarra e conquistato il microfono, ecco che, dopo l’operato con la sua band (a nome Perfect Visions), il buon Demonaz dà alle stampe, in questo 2011, il suo primo lavoro solista, March Of The Norse. Musicalmente, quest’album è definibile come un incontro tra le atmosfere dei Bathory del primo periodo epico (da Blood, Fire, Death, per capirci) e la rudezza e potenza degli stessi Immortal. Tutto ciò si risolve in un coerente e fiero viking metal, dotato di epiche cavalcate dal tono certamente decadente ed oscuro, ma, al contempo, battagliero e sanguinolento. Nonostante certe idee siano di buona fattura, spesso si può notare come, in fin dei conti, l’originalità non regni particolarmente in casa Demonaz, rappresentando così una grave e costante pecca minante la comunque discreta musicalità dell’opera. Possiamo dare atto a Demonaz di aver voluto fortemente e giustamente ritornare sulle scene con una propria creatura, in seguito alla sfortuna che lo ha colpito con i compagni Immortal, e ciò porta a considerare quest’album come un lavoro semplice, diretto, nato con lo scopo di mettere in musica un’espressione libera, immediata e poco studiata. Questo è anche accettabile, ma sarà con i prossimi tasselli che il “cantautore” norvegese deciderà se la sua nuova creatura avrà davvero qualcosa di nuovo e sorprendente da dire. Il primo passo, nella neve del suo nuovo Blashyrkh, è stato mosso.


Track By Track:

Con l’introduzione “Northern Hymn” sembra di tornare indietro nel tempo, ai primi anni ’90, con un palese riferimento sonoro a Blood, Fire, Death del compianto Quorthon (Bathory). La chitarra acustica arpeggiata fa da sfondo ad un lugubre cantato malinconico, per non più di 50 secondi. Perfetta, dal punto di vista atmosferico, per introdurre il disco, quest’intro perde sul lato dell’originalità. Cercando il lato positivo, la possiamo intendere come un semplice omaggio al suddetto artista svedese (scomparso nel 2004) ma nulla di più. Partenza in quarta con “All Blackened Sky”, brano dall’incedere movimentato e marziale. Anche qui, il riferimento alle opere più epiche dei Bathory è chiaramente evidente, con tanto di cori “vichinghi” in sottofondo. Nonostante ciò, il brano scorre incisivo ed incalzante, anche grazie ad un riff thrash-oriented di ottima fattura nel refrain. Nemmeno la voce di Harald presenta particolari novità: sembra di sentire Abbath degli Immortal (ma guarda un po’ le coincidenze…), in versione leggermente più melodica, certamente, ma sempre con lo stesso stampo grezzo e soffocato, tipico del leader dei blackster “immortali”. La seguente title-track “March Of The Norse” è una song dal taglio più epico e battagliero, dotata di toni oscuri e melodie cadenzate, supportate da una ritmica incisiva, ma scontata. Una canzone, quindi, piuttosto discreta e nulla di più, che, nella sua brevità e nella sua scarna struttura, ci lascia un senso di incompiutezza. Non sembra nemmeno di cambiare traccia appena parte la seguente “A Son of The Sword”: stessa ritmica, stesso tempo, stesso accordo e stesso stampo melodico. Basta questo per capire che Demonaz non ha molta intenzione di variare la propria proposta, durante il corso dell’album. Si salvano il refrain, semplice e melanconico, ed il buon assolo centrale di chitarra, che riescono a dare un minimo di vigore ad un mood già piuttosto stanco e stantio. Ne risulta una song, tutto sommato, apprezzabile e ben digeribile. “Where Gods Once Rode” non sposta di una virgola i connotati ritmici del disco, ma, perlomeno, è in grado di donare un pizzico di brio in più, fin dalle prime melodie chitarristiche. Anche lo stesso Demonaz appare tentato da linee leggermente più melodiche, sempre controfacciate da una costante rudezza delle corde vocali. Un breve intermezzo acustico arpeggiato e con dei leggeri cori di sottofondo, spezza il ritmo, riprendendo le caratteristiche dell’intro dell’album. Il brano si dipana poi in assoli semplici e piuttosto anonimi fino alla chiusura. Niente da fare; alla fine, nemmeno questo pezzo riesce a risaltare. Neanche a dirlo, il ritmo e l’arrangiamento sono identici anche per la seguente “Under The Great Fires”, una lunga song di 6 minuti e mezzo che pare una continuazione delle song precedenti. Un po’ di speranza si intravede nella parte centrale, in cui spiccano anche dei solos particolarmente melodici ed armonizzati, in grado di riportare un minimo d’attenzione. Purtroppo, non bastano per controbilanciare l’esaustiva ripetizione dei pezzi. A questo punto la noia raggiunge un picco di saturazione. “Over The Mountains” di certo non aiuta, essendo anch’essa basata su strutture e ritmiche identiche ad altre già sentite nel corso dell’album. Qualche buona melodia, qualche buono spunto…ma tutto pare poco sviluppato e troppo stagnante. Un acustico breve e piuttosto insignificante intermezzo, “Ode To Battle”, apre la strada all’ennesima auto-citazione “Legends Of Fire And Ice”. Come avrete compreso, è inutile che vi parli della sezione ritmica, delle melodie, della struttura ecc…ormai avete capito l’andazzo generale. Anche qui troviamo qualche buona melodia ed un assolo finalmente degno di nota, il tutto coronato da un pezzo discreto e, a tratti, stuzzicante nel suo incedere, ma nulla di più di questo. La bonus track “Dying Sun” (nella varsione digipack) è uno strumentale scritto da Demonaz nel lontano 1998, riproposto oggi a conclusione di questo album. Almeno il ritmo cambia, trasformandosi dal consueto terzinato dei brani precedenti in un semplice mid-tempo. In questo ultimo tassello non compaiono chissà quali grandi idee, risultando anche piuttosto ripetitivo. Ci sono comunque qualche discreta melodia ed un pathos, a conti fatti, anche gradevole, ma il tutto volge verso un finale inconcludente, lasciandoci così l’amaro in bocca.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Il fatto di avere tra le mani un nome altisonante e, a suo modo, importante per un’intera scena musicale, non aiuta quindi a rendere degno di nota questo March Of The Norse. Insomma, conosciamo i connotati del classico viking metal senza compromessi, ma il nostro “demone” avrebbe sinceramente potuto sprecarsi un po’ di più, per trarne qualcosa di leggermente più appassionante e personale. Il coinvolgimento delle prime tracce lascia presto spazio alla noia, a causa di una sezione ritmica che pare scritta in 10 minuti senza un minimo di ritocco od arrangiamento. In questo, il batterismo di Armagedda ed il basso (praticamente inesistente) del leader degli Immortal Abbath non aiutano nell’impresa, proponendo uno scarso valore tecnico ed una precisione minima e sindacale. Lo stesso vale per le chitarre di Ice Dale, improntate su riff monotoni, identici a se stessi, anche se non mancano le occasioni di sentire qualche buon solo o qualche melodia azzeccata. Il vero problema, però, è il songwriting: Demonaz propone dei brani spesso stanchi, privi di spessore artistico e piuttosto statici nella loro costruzione. Non aiuta la voce dello stesso Demonaz, la quale, pur essendo adeguata al contesto sonoro da lui propostoci, risulta monocorde e, il più delle volte, decisamente inespressiva. Grezza e ruvida come una grattugia, soffre inoltre della spietata somiglianza con quella di Abbath, singer/chitarrista dei blackster Immortal. Il sound che fuoriesce dalla produzione è scarno, ma potente quanto basta, anche se dotato di un mixing approssimativo che fatica a mettere in risalto la sezione ritmica (probabilmente è una scelta voluta). In fin dei conti, un buon disegno di copertina ed un paio di canzoni riuscite non aiutano molto nell’ardua impresa di farci piacere quest’opera prima del singer norvegese. Demonaz ha peccato purtroppo di scarsa originalità e poca cura nell’estetica delle singole canzoni; do una sufficienza di incoraggiamento, con l’augurio che in futuro sia in grado di poter offrire qualcosa di più interessante e, soprattutto, vario. Ma per ora la cosa migliore da fare è tornare nel Blashyrkh…assieme agli Immortal. 


Tracklist:

01. Northern Hymn
02. All Blackened Sky
03. March Of The Norse
04. A Son Of The Sword
05. Where Gods Once Rode
06. Under The Great Fires
07. Over The Mountains
08. Ode To Battle
09. Legends Of Fire And Ice
10. Dying Sun (Bonus Track)


Voto: 6/10

2 commenti:

  1. vai a raccogliere le pere, questo album è spettacolare!

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  2. daccordo con te
    vai anche a raccogliere le patate che e' il tuo mestiere
    album tra i primi 3 del genere dell'anno

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