martedì 22 novembre 2011

OPETH - Heritage


Eredità progressiva…

Nome Album: Heritage
Etichetta: Roadrunner Records
Data di uscita: 20 Settembre 2011
Genere: Progressive Rock

Introduzione:

Tra le uscite più attese in ambito progressive metal, dopo il succoso Iconoclast dei Symphony X e dopo l’attesissimo come back dei Dream Theater, con il virtuoso Mike Mangini dietro le pelli, annoveriamo in questa classifica anche il ritorno di una band amatissima in Italia, autrice di autentici capolavori del death progressivo macchiato di atmosferiche bordate anni ’70: stiamo parlando, indubbiamente, degli Opeth, la geniale band svedese capeggiata dal prolifico Mikael Åkerfeldt. Dal 1995, la band ha saputo sfornare degli album validissimi, in una costante ricerca della sperimentazione in bilico tra il death/doom metal ed i famosi e stupendi stacchi acustici, che hanno fatto grande questo combo di ottimi musicisti. Il precedente Watershed (2008) ha visto la band ammorbidire molto la composizione, a favore di un uso sempre più cospicuo di clean vocals e chitarre pulite, dando vita ad un capolavoro di consueta gran classe. Quest’anno la band ha deciso di stupire ancora una volta, dichiarando, prima della sua uscita, che Heritage non sarebbe stato un album metal. Il pensiero è andato subito al magico Damnation (2003), gioiello totalmente acustico,  amatissimo dai fans. Quindi, a conti fatti, come suona Heritage? Anche questa decima uscita degli svedesi è intrisa di gran classe ed ambiziosa capacità compositiva, ma, forse per la prima volta in questa lunga carriera, l’album fatica a decollare. Musicalmente siamo dinnanzi ad una decina di brani indubbiamente ispirati alla scena progressive anni ’70, tanto amata dal leader della band.  Regnano perciò chitarre acustiche e classiche, incursioni di batteria jazz, distorsioni vintage e un mood generale oscuro e psichedelico, come mai prima d’ora. Tuttavia, di fronte a cotanta elegante prelibatezza, il grave difetto di Heritage è quello di essere, in molte circostanze, un album forse troppo intimista, risultando lento e di difficile assimilazione in più di un’occasione. Intendiamoci, è un album indubbiamente valido, capace di suscitare inebrianti emozioni sonore, ma spesso manca di quel giusto appeal che ha fatto la fortuna dei grandi capolavori del passato. Va riconosciuto agli Opeth il coraggio per aver voluto sperimentare in modo così estremo e l’essere stati in grado di stupire l’audience ancora una volta. Ne è uscito un buon esperimento. Ci può stare, dopo più di sedici anni di carriera e dopo nove album in studio: ma, sinceramente, mi auguro di poter tornare al più presto a risentire i vecchi Opeth, così come abbiamo imparato ad amarli.


Track By Track:

Il primo tassello di questo controverso album è la title-track. “Heritage” è una delicata prestazione di pianoforte e contrabbasso, quest’ultimo suonato dal bassista Martin Mendez. Una piccola introduzione strumentale, dove solo questi due strumenti sono i protagonisti, incaricati di introdurre la particolarità stilistica di Heritage. L’opener vera e propria, nonché videoclip, è l’acida “The Devil’s Orchard”, brano simbolo degli Opeth del 2011. Stop’n’go, cambi di tempo, stacchi, rallentamenti, riprese e suoni che fluiscono in un unico vortice sconnesso di idee, senza dare bado a facili forme-canzoni, spesso estranee al contesto Opeth. Sei minuti di stranezza intrisa di idee allucinate e, a loro modo, geniali, in una piena atmosfera progressive, con tanto di hammond e chitarre dotate di distorsioni corrosive. Canzone sconnessa, da riascoltare per capirne la vera essenza. Il seguente “I Feel The Dark” è il brano migliore dell’album, a mio avviso, nonché quello più vicino alle prestazioni acustiche del passato di Åkerfeldt e soci. Giocata su un rapido arpeggio di chitarra classica, la song si sviluppa con un bel crescendo ed un ottimo arrangiamento, dipanando arpeggi ed atmosfere cupe, sempre con un’intrigante pacatezza esecutiva. Gli stacchi centrali danno un vigore maggiore alla canzone, con comparsa della distorsione e (per poco) della doppia cassa. Bellissimo brano, certamente particolare, ma dannatamente intrigante. “Slither” è un tuffo nel passato, a quel sound da cui l’heavy metal prese le mosse. Non abbiamo grosse difficoltà a ricondurre questa song alle cose migliori fatte da Deep Purple ed altri grandi musicisti di quegli anni. La batteria viaggia spedita per un bellissimo brano di hard rock settantiano. Non avevamo mai sentito Åkerfeldt in questa veste, ma la sua voce si sposa perfettamente con l’atmosfera graffiante creata dalla canzone. Brano breve e d’impatto, che si congeda con un bel finale d’arpeggio acustico. Il brano più lontano dalle produzioni Opethiane mai scritto dal leader Åkerfeldt. Il punto debole di Heritage è raggiunto a mio parere con “Nepenthe”, brano calmissimo, di una delicatezza disarmante nel suo proseguimento. Tralasciando qualche stacco centrale più dinamico e progressivo, il brano si staglia su partiture jazzate e soffuse, fin troppo estenuanti nella loro quiete esecutiva. Più che un brano vero e proprio, a tratti sembra di assistere ad una jam session. Ne risulta un brano troppo difficile da capire, lento nella sua progressione e, quindi, un po’ noioso ed inconcludente. Decisamente più accattivante “Haxprocess”, dove, ancora una volta, sono le chitarre classiche a farla da padrone, dando linfa ad un bel lento dotato di stupende melodie, a volte lente e riflessive, altre volte più velocizzate e dinamiche, ma sempre dotate di gran classe e di una spiccata vena settantiana. Il brano, nonostante la sua lentezza e i suoi vari cambi d’atmosfera, risulta davvero valido e composto in maniera impeccabile. Una lunga ed onirica sequenza d’arpeggio chiude questi sette imperdibili minuti di delicatezza targata Opeth. Da segnalare l’impeccabile lavoro di basso del bravissimo Martin Mendez. Le visioni musicali più distorte e schizoidi di Åkerfeldt prendono forma negli otto minuti di “Famine”, brano alquanto pretenzioso e di lenta comprensione. Difficile descrivere un brano del genere, dove una prima sognante parte di pianoforte, coadiuvata dalla calda voce del singer, lascia presto spazio a dei riff prog-rock allucinati e totalmente fuori da ogni schema, comprese incursioni di flauto sullo stile di Ian Anderson (Jethro Tull). I numerosi e sconnessi cambi d’atmosfera complicano l’assimilazione di un brano decisamente atipico ed estremamente eterogeneo. Ogni giudizio diventa soggettivo: c’è gente a cui piacerà da impazzire, c’è gente a cui non piacerà affatto. Altro controverso brano a firma di Åkerfeldt. “The Lines In My Hand” rialza il tiro aggiustando la rotta, con una song breve ma ispirata, con le consuete chitarre classiche a dettare arpeggi di notevole spessore. Entrano lievi distorsioni a disegnare una canzone dai toni particolareggiati, a metà tra un hard rock “deep-purpleliano” ed un atmosfera simil-orientaleggiante. Molto bella la parte finale, più aggressiva e vigorosa. Brano molto piacevole e sorprendente. “Folklore” è un’altra lunga perla di questa indecifrabile uscita discografica. Per circa otto minuti veniamo accompagnati da bellissime e soffici melodie arpeggiate, su un tappeto di hammond ed atmosfere settantiane. Una chitarra acustica ci introduce alla parte finale del brano, dotata di una saltellante sezione ritmica, facente da solida base per un incedere melodico ed atmosferico, con voce di Åkerfeldt e cori in lontananza che ci conducono verso il fade-out finale. Ottima la prova solista di Fredrik Åkesson. “Folklore” è un brano davvero notevole, in grado di stupire per cotanta capacità inventiva, annoverandosi tra i migliori di Heritage. Conclusione affidata all’atmosferica e morbidissima closer “Marrow Of The Earth”: sono le chitarre a parlare, a dettare l’emozione che solo gli Opeth riescono a regalare con i loro meravigliosi arpeggi e con le loro favolose malinconiche melodie. Niente voce, niente distorsioni. Entrano in seguito batteria e tastiera, sempre all’insegna della delicatezza, portando questo piccolo gioiello della musica alla sua conclusione. Il giudizio altalena tra alcune song valide ed altre meno. Ma quando sono valide, il capolavoro è sempre il giusto epiteto per suggellare ciò che esce dalla penna dei magici Opeth.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

La qualità c’è, l’eleganza e la classe pure. La tecnica è palpabile, così come l’ottima composizione. Verrebbe da chiedere cosa manca a questo Heritage per essere ascritto come un altro dei capolavori della band. Finora, solo il death-oriented Delivarance (2002) ha subito la stessa sorte, ovvero quella di essere considerato un valido lavoro, ma non all’apice dei rimanenti masterpieces. Ma qui l’intento è diverso fin dal principio, perché diversa è la musica che gli Opeth hanno provato (o meglio, rischiato) di proporre. Il mio personale consiglio, da fan sfegatato della band in questione, è quello di non soffermarsi ad ascoltare brevemente Heritage, per poi screditarlo in una manciata di pareri negativi, ma di coglierlo attimo dopo attimo, per capirne l’anima e l’essenza, partendo già con l’idea che qui dentro vige qualcosa di insolito rispetto alle consuete mega-suite di death progressivo. Ciò che esce e si impone è il lato più jazz e sperimentale, che affonda le radici nel prog-rock d’annata. Mikael Åkerfeldt sfoggia clean vocals calde e sentimentali, ripudiando, per l’occasione, il catacombale growl degli estri death. Le chitarre sussurrano decadenti e melanconiche armonie, fenomenali nei loro intrecci melodici, con i buoni interventi solisti dell’ex-Arch Enemy Fredrik Åkesson. La batteria del “timido” Martin Axenrot vola leggiadra su bizzarri tempi spesso jazzati, il bass-man Martin Mendez conferisce, come sempre, quel qualcosa in più alla completezza delle partiture Opethiane, ed infine le stesure tastieristiche, divise tra il dimissionario Per Wiberg e la new entry alle keys Joakim Svalberg, sottolineano con decisione l’anima prog-rock del disco, senza necessità di stupire in eccessi virtuosistici. Ripeto allora, cosa c’è che non va? E’ forse la copertina, in perfetta linea con lo stile “vecchio” del disco? No, anche quella è ricca di colori e dettagli. Particolare, anche se non eccezionale. E’ la produzione? Figurarsi, perfetta anche quella per il contesto. E’ semplicemente il fatto che qualche brano non funziona a dovere. Le canzoni, oggettivamente parlando, spesso non sono amalgamate con la solita maestria che contraddistingue la band svedese. Sono costretto a ripetermi: è un disco da capire, che possiede un suo perché. Io agli Opeth perdono tutto, anche qualche piccola svista all’interno di Heritage, un’opera valida e sufficientemente gustosa. Ma allo stesso tempo auspico un ritorno ai bei tempi dei maestosi Morningrise o Blackwater Park. Intanto, appuntamento  all’Alcatraz il 24 Novembre…


Tracklist:

01. Heritage
02. The Devil’s Orchard
03. I Feel The Dark
04. Slither
05. Nepenthe
06. Haxprocess
07. Famine
08. The Lines In My Hand
09. Folklore
10. Marrow Of The Earth


Voto: 7,5/10

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