giovedì 4 agosto 2011

HELL - Human Remains

Inaspettati ritorni dagl’Inferi…

Nome Album: Human Remains
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 13 Maggio 2011
Genere: Heavy Metal

Introduzione:

La storia di questa band ha dell’incredibile. La sua breve biografia è proprio ciò che mi ha spinto a procurare questo album e ad ascoltarne i suoi contenuti. In breve, gli Hell sono una formazione inglese nata nel 1982, i cui show, troppo occulti ed anti-religiosi per l’epoca, impedirono loro una giusta visibilità nella scena. Inoltre la sfortuna si precipitò su di loro , facendo fallire l’etichetta con cui erano riusciti ad ottenere un agognato contratto, una settimana prima dell’uscita del primo album. Come se non fosse abbastanza, nel 1987, Dave Halliday, primo singer-guitarist della band, si suicidò per problemi, probabilmente, economici. Fu così che il progetto Hell venne sotterrato dalle sabbie del tempo. 2011: il famoso produttore Andy Sneap, da sempre fan della band, li incita a reincidere e pubblicare, finalmente, quell’album che mai vide la luce negli eighties. E’ così che gli Hell risorgono dall’abisso, assoldando l’ex-chitarrista David Bower alla voce e lo stesso Andy Sneap alla seconda chitarra. Quel materiale, inciso su demo quasi 30 anni fa, torna a risplendere, forte delle metodologie di produzione moderne (suono potente, pomposo e limpido), rappresentando così, a tutti gli effetti, un curioso ed ambito debutto discografico. La band londinese ci propone un classicheggiante heavy metal/hard rock, chiaramente influenzato dalla NWOBHM di inizio anni ’80, coronato da testi oscuri e malvagi e da un’atmosfera concepita per essere teatrale, plumbea e demoniaca come poche. D’altro canto, accanto alla musica, restano intatte l’iconografia e l’immagine infernale della band, coadiuvata anche dall’interpretazione mimica e vocale di David, frontman con una lunga carriera di attore alle spalle (il videoclip di “On Earth As It Is In Hell” ne è fonte di prova). Questo aspetto rappresenta un valore aggiunto al sound dei londinesi, caratterizzandolo enormemente: prendete la teatralità vocale di gente come King Diamond o Alice Cooper, unitela alla potenza musicale di Sabbat, Motorhead o Judas Priest, ed avrete un’idea di come suonino gli Hell.  Nonostante sciorinino al popolo metallico del materiale ormai datato, l’impressione è comunque quella di trovarsi dinnanzi una cascata di metallo che suona ancora fresca, maligna e succosa come un tempo. Questo HR non è certo esente da difetti, spesso riscontrabili in un songwriting a volte un po’ dispersivo, ma diamo atto agli Hell della loro volontà di voler finalmente ritornare a calcare i palchi nel mondo della musica metal e, probabilmente, ne capiremo davvero l’immenso valore con un (auspicabile) futuro secondo album di inediti, in cui i nostri si dovranno cimentare nella composizione al passo con i tempi. Non resta che gustarci uno dei come-back più inaspettati degli ultimi anni. E’ la volta degli Hell: tornati qui, sulla Terra, per noi tutti, direttamente dall’Inferno.


Track By Track:

Human Remains apre le danze con una classica introduzione dal minutaggio limitato e dagli intenti pseudo-sinfonici, tale “Overture Themes From Deathsquad”, che ben rappresenta il contenuto atmosferico che sentiremo traccia dopo traccia, durante l’ascolto dell’album. La prima botta, nonché singolo con annesso videoclip, è “On Earth As It Is In Hell”, dove ben inquadriamo tutte le caratteristiche peculiari e fondamentali degli Hell: in primis, la teatralità vocale del singer David, dotato di una voce snodabile e versatile, destreggiandosi tra alcune partiture alte ed ipnotiche, alcune schizoidi e gracchianti ed altre più cupe e maligne. I riff ed i refrain che si susseguono non rientrano certo nella categoria “novità assoluta”, ma sono accattivanti ed accesi al punto giusto. A song conclusa, si dipana un intro con una riuscitissima ed inquietante atmosfera “Dantesca”, resa tale da tappeti di tastiera e campionamenti di zoccoli ed anime dannate, per lasciare subito spazio alla speedy “Plague And Fyre”, il cui testo racconta la discesa sulla Terra dell’angelo caduto, nel contesto del grande incendio che devastò Londra nel (guarda caso) 1666. Il brano, uno dei migliori del platter, gode di un ottimo ed inarrestabile ritornello su doppia cassa, di riffettoni davvero gradevoli, esenti dal peso del tempo, e di un assolo semplice ma efficace nel contesto. Inquietanti voci bianche conclusive, lasciano spazio a “The Oppressors” (ripresa dal repertorio della prima band del chitarrista Kevin), un mid-tempo in cui è ben evidente l’impronta heavy-blues dei maestri Black Sabbath. Il brano è dotato di un atmosfera ipnotica e sofferta, con tanto di strani cambi di tempo e di registro, pertanto sono necessari alcuni ascolti per cercare di apprezzarlo. Infatti, il songwriting appare poco fluido e poco scorrevole, rischiando di lasciare poche sensazioni nell’ascoltatore. Direttamente collegati a questa song sono gli otto minuti della seguente “Blasphemy And The Master”, introdotta da un ritmo lento, opprimente, e da un sofferente monologo del singer. Terminata l’agonia, si dipanano degli ottimi riff di matrice “priesteniana”, veloci e ben strutturati, con un David Bower sempre particolarmente impegnato nell’interpretazione più che nel canto di una vera e propria linea vocale. Nonostante si palesi la mancanza di un vero e proprio ritornello (caratteristica non insolita nel sound della band), la struttura appare più scorrevole rispetto al brano precedente, rendendolo più piacevole e graffiante. Gli Hell tornano a pigiare l’acceleratore con la battagliera “Let The Battle Commence”, esempio di puro, veloce ed incontaminato heavy metal anni ’80 senza fronzoli, comunque perfettamente integrato nel contesto dei tempi odierni. Stupisce molto asserire che della musica composta così tanti anni fa, possa ancora risultare fresca ed accattivante, degna dei tanti (ottimi) grandi nomi della scena heavy odierna. Il brano più lungo di HR è il successivo “The Devil’s Deadly Weapon”, una sorta di suite di 10 minuti caratterizzata (dopo un’atmosferica intro narrata) da un mid-tempo sorretto da ottimi riff di stampo hard rock ottantiano e dall’ottima e maligna interpretazione del singer. Il brano regge bene, ma l’eccessiva prolissità del minutaggio e la struttura un po’ troppo ripetuta fanno intravedere qualche vago sintomo di noia. Evitando qualche breve passaggio a vuoto ed una maggiore compattezza, la song avrebbe certamente acquistato un valore più elevato. Ottimo l’assolo centrale. Varie urla e risate demoniache aprono l’heavy metal incontaminato di “The Quest”, altro highlight senz’altro dotato di una struttura maggiormente diretta rispetto alla maggioranza delle canzoni del platter. Nella strofa primeggiano varie influenze d’annata, Judas Priest su tutti, mentre il refrain è invece maggiormente orientato verso sonorità più catchy ed orecchiabili, di stampo glam metal anni ’80. Molto godibili i vari riff, gli intrecci chitarristici ed i solos. E’ il tempo di un’altra song dal minutaggio elevato (7 minuti, anche se in realtà il primo minuto e mezzo è dedicato ad un sinistro  dialogo tra streghe, in tema con le lyrics del brano): “Macbeth”. In sostanza, è un intreccio di riff improntati sull’hard rock demoniaco del quintetto. Come spesso abbiamo visto durante il corso dell’album, anche in questo brano risultano presenti vari cambi di tempo e stacchi particolari, che rendono la struttura confusa e mutevole (ancora una volta, dov’è il ritornello?). Il brano scorre senza troppe forzature, ma non è altro che un insieme di riff mal amalgamati. Meglio la seguente “Save Us From Those Who Would Save Us”: un’altra lunga intro ci introduce ad un brano veloce ed aggressivo, degno del miglior heavy in circolazione, con un David sugli scudi, sempre incalzante ed accattivante. Il ritornello è di chiaro stampo power-heavy, in perfetto stile Hammerfall. Convincenti la prova solistica di Kevin ed il batterismo semplice ma ficcante di Tim. L’epilogo dell’album è la lunga e lugubre “No Martyr’s Cage”, introdotta da un ritmo doomish, lento ed incalzante. Lo sviluppo prevede vari cambi di velocità lungo l’incedere della song, con stacchi improvvisi di doppia cassa, ma, ancora una volta, rimane poco di realmente impressionante ed i riff perdono mordente col proseguire dell’ascolto. Una chitarra assassina alla Pantera (groove assicurato) ed una lieve chitarra acustica chiudono questo album sincero e riuscito, in attesa di un bramato roseo futuro per la band di Londra.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Spesso le reunion, specie dopo molti anni, sanno quasi di patetico e di “siamo tornati ed abbiamo bisogno di soldi”. Per gli Hell qui presenti, ciò non accade. Human Remains rappresenta, forse, un sogno celato da troppo tempo, che, finalmente, ha avuto i mezzi per venire alla luce e risorgere tra le fiamme. Il punto di forza di quest’album e, quindi, della band stessa è il saper coniugare la cattiveria dell’heavy con la teatralità visionaria del loro mondo demoniaco. In questo set di gironi spiccano, come già detto prima, la voce di David Bower, che, condita di movenze assolutamente non lasciate al caso, caratterizza un frontman davvero unico e peculiare. Insomma, la voce perfetta per una band come gli Hell. Le due asce impreziosiscono il lavoro con buona perizia tecnica, a suon di riff vorticosi (Andy Sneap) ed assoli (Kevin Bower, che si diletta anche nei vari sprazzi di tastiera) spesso ben fatti e altre volte più trascurabili. Nulla di tecnicamente inaccessibile, sia chiaro, ma per questo tipo di sonorità sappiamo bene che la tecnica non è la priorità. La sezione ritmica è fornita invece dal carisma di Tony Speakman al quattro corde e dalla buona capacità esecutiva di Tim Bowler dietro le pelli. Tony segue spesso le linee di chitarra senza primeggiare, ma in alcuni frangenti si distingue per qualche passaggio più azzardato, mentre Tim guida la carovana infernale con professionalità e precisione, senza offuscare il buon operato dei compagni. Insomma, si tratta solamente di genuino e sano Heavy Metal, non serve aggiungere altro. Non c’è death o black che tenga: l’heavy è la musica che meglio rappresenta il maligno, la musica più cattiva che l’uomo abbia mai concepito. Si possono usare vagonate di growl vocals o di blast-beats, ma basta una “Painkiller” per redimersi e confermare tutto ciò. Gli Hell lo sanno e attraverso le loro note filtrano sibilante malvagità. Lo fanno, però, in modo velato e, se vogliamo, “Dantesco”, senza esagerare e senza mettersi troppo in mostra con inutili estremismi scenici, spesso tipici dei gruppi black o death più intransigenti (le scenografie dei Gorgoroth la dicono lunga a proposito). Per restare in tema, l’immagine della cover è davvero ben fatta, con molti particolari che richiamano l’iconografia infernale: l’angelo caduto, la mela morsa, il serpente, i tre “6”, l’incendio di Londra del 1666. Tirando le somme, HR, tra molti ottimi brani ed altri meno riusciti, è comunque un album piacevole, coraggioso e, pertanto, meritevole d’ascolto. Per tornare a gustarsi un po’ di metallo d’annata, privo di modernismi plasticosi (nonostante la graffiante produzione) in mezzo all’odierno mare della mediocrità, gli Hell sono la barca giusta da prendere…sempre che Caronte non vi trascini giù con loro. 


Tracklist:

01. Overture Themes From Deathsquad
02. On Earth As It Is In Hell
03. Plague And Fyre
04. The Oppressors
05. Blasphemy And The Master
06. Let Battle Commence
07. The Devil’s Deadly Weapon
08. The Quest
09. Macbeth
10. Save Us From Those Who Would Save Us
11. No Martyr's Cage


Voto: 7,5/10

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