STORM CORROSION
Etichetta: Roadrunner Records
Data di uscita: 22 Maggio 2012
Genere: Progressive Ambient
Introduzione:
Capita spesso, nel nostro ricco
mondo musicale, di assistere a collaborazioni tra grossi esponenti della scena
internazionale. I monicker Demons & Wizards, Cain’s Offering, Primal Rock
Rebellion, giusto per fare degli esempi,
o il consistente progetto Avantasia, vi dicono qualcosa al riguardo?
Sicuramente si. Molto più raro è, invece, poter assistere ad una collaborazione
artistica così intimista ed emozionale come quella che ha coinvolto due grandi
esponenti del prog moderno, ovvero il leader e fact-totum degli Opeth, Mikael
Akerfeldt, ed il leader e fact-totum dei Porcupine Tree, Steven Wilson. Due
personalità in netta sintonia tra loro, come dimostrano le collaborazioni da ormai
molti anni su album come il maestoso “Blackwater Park”, o come dimostrano
soprattutto le recenti rispettive ultime uscite: “Heritage” degli Opeth
(recensione a questo link: recensionimetalfil.blogspot.it/2011/11/opeth-heritage.html) e “Grace For Drowning” dello Steven Wilson
solista. Si tratta di due lavori fondamentalmente di progressive rock, dove non
c’è alcuno spazio per il death-metal targato Opeth. I due artisti sentono che è
finalmente giunto il momento di collaborare, di dare vita a qualcosa di
inaspettato, con spasmodica attesa e consenso dei fan di questi due genialoidi
frontman: il risultato è questo progetto e album “Storm Corrosion”, un ideale
terzo capitolo di una trilogia progressive rock iniziata proprio con Akerfeldt
da una parte e Wilson dall’altra. Come si poteva intuire, di metal qui non c’è
neanche l’ombra, tant’è che nemmeno le distorsioni sono consentite; non vi è
nemmeno il groove del rock, ma a dominare sono gli intenti psichedelici del
progressive più cupo: “Storm Corrosion” è un manifesto del disagio interiore,
svelato attraverso passaggi musicali grigissimi di tastiere progressive e
delicatissime chitarre acustiche, appena pizzicate. Non ci sono ritornelli, non
ci sono brani nel vero senso del termine, ma solo sei lunghi episodi che
fungono da ideale colonna sonora di un’angoscia nascosta che timidamente si rivela, nota dopo nota, su
un tappeto ambient/atmosferico non indifferente. Diciamocelo pure, da due menti
come quelle dei due musicisti coinvolti ci si aspettava qualcosa di strano, ma,
onestamente, non si sarebbe potuto nemmeno pensare ad un lavoro di tale entità,
così sfacciatamente intimista e controverso. Per apprezzare questo disco,
servono indubbiamente tanti ascolti, preferibilmente di sera, senza
distrazioni, per apprezzare ogni singola sfumatura proposta; ma, soprattutto,
serve una predisposizione adatta e la consapevolezza che in “Storm Corrosion”
non c’è nulla che ti faccia muovere la testa a ritmo. Non è facile riuscire ad
ascoltare questo disco, né tantomeno ad apprezzarlo totalmente, ma se cercate
qualcosa di diverso ed ambiguo, lasciatevi tentare da questo affliggente vuoto…
Track by Track:
Il primo vagito è “Drag
Ropes”, di cui è stato realizzato un videoclip che, accompagnato alla
musica, ostenta una certa ansia nell’ascoltatore. Dei lievi archi atmosferici
introducono la voce calda di Akerfeldt, sempre più a suo agio negli anni con il
clean-singing. Fino a metà brano è un susseguirsi di chitarre acustiche
delicate, ma coinvolgenti nella propria oscurità, suoni molteplici, tastiere
che entrano ed escono come fantasmi, il tutto giocato su un’atmosfera onirica,
soffusa e disturbante. La seconda metà del brano prosegue la proposta con un
maggior vigore tra strani fraseggi di chitarra ed inquietanti cori, archi e
pianoforte accompagnati solo da un charleston che detta il ritmo. Non c’è
alcuna logica, solo sentimenti che si susseguono in modo istintivo, e così sarà
anche per le restanti cinque tracce. La title-track “Storm Corrosion” si
assesta anch’essa sui dieci minuti di durata. Un arpeggio acustico accompagnato
da echi di archi in lontananza funge da tappeto emotivo per le frasi
leggermente sussurrate di Wilson. La traccia, dotata di una struttura più
lineare, è sorprendente nella sua delicatezza, richiamando spesso alcuni dei
più soavi capolavori degli Opeth più progressivi. Da metà brano, gli
arrangiamenti si arricchiscono con ulteriori chitarre acustiche, archi, soffusi
pianoforti, suoni di un’atmosfera malata ed inquietante (a tratti sembra quasi di
stare in un film horror psicologico), prima di un finale delicatamente
arpeggiato. Con la seguente “Hag” le intenzioni non cambiano di
una virgola: ancora un brano, o meglio un pezzo di musica, giocato su
chiaro-scuri musicali pregni di inquietudine repressa. Lievi chitarre pulite,
tastiere dal sound vintage, un basso che pulsa, persone che ridono in
lontananza: tutto ciò è presente in questa traccia, dove ad una parte iniziale
più in sordina si contrappone un prezioso stacco oscuro tra tastiere e chitarre
cupe e distorte, con tanto di virtuosa batteria a seguito. Un onirico episodio
ancora una volta difficile da comprendere nella sua psichedelica schizofrenia.
Inutile dire che la seguente “Happy” porta un titolo decisamente
contrastante con quello che è il mood portante: un pacato sussurro di chitarra
acustica che si intreccia con oscuri suoni e con le voci depresse e quasi
estenuanti di Wilson e Akerfeldt. Prezioso nella sua semplicità il breve assolo
sul finale del brano, il quale si assesta sui 5 minuti scarsi di durata (ed è la
traccia più corta dell’album). Un altro lascito malinconico, ostentatore di disperazione
ed angosce tradotte in note. Una chitarra scandisce una blanda ritmica
vagamente accesa, su cui si innestano altri fraseggi acustici: è l’inizio di “Lock
Howl”, un ritaglio di una soffocata sofferenza, un turbinio di suoni,
atmosfere e passaggi acustici di grande spessore. Nemmeno le voci sono
presenti; Akerfeldt e Wilson, con la sola forza degli strumenti, danno vita ad
un brano fin troppo intimo ed illogico per poter essere apprezzato totalmente,
ma gli echi progressive rock dei suoni e dei leggeri ritmi donano comunque un
contorno affascinante e psichedelico ad una traccia davvero particolare ed
insolita, secondo gli intenti del progetto. Arriviamo così al finale, pronti
per i restanti dieci minuti di “Ljudet Innan”, dove un particolare
falsetto di Akerfeldt introduce un brano molto cupo e rilassante; perfino le
pause e i silenzi assumono un’inaspettata importanza in questa musica così
soffusa ed ambient, perfetta per una terapia mentale. Qualche tremolante
accordo ogni tanto, piazzato nei punti giusti, guida il brano tra tastiere come
sempre soffici e dal suono vintage, molto caldo ed avvolgente, tra ritmi
leggerissimi e bei solos di clean guitars, in pieno stile prog-rock d’annata.
Così si conclude “Storm Corrosion” un (unico?) album di un progetto senza
confini e senza barriere, nato soprattutto dall’amore nutrito da due grandi
musicisti per il progressive e per gli anni d’oro di questo genere musicale.
Considerazioni Conclusive:
Ammetto senza remore che non è
facile assumersi il compito di giudicare un disco del genere. Già solo dover
mettere un’etichetta là sopra non è stato facile: “progressive ambient”, dice
tutto e dice niente, data l’indescrivibile aurea atmosferica creata in diversi
momenti del lavoro. E’ complicato classificare e dare dei giudizi per un disco
come “Storm Corrosion”, poiché tutto dipende dal modo e dall’umore con cui vengono
ascoltati questi cinque pezzi di malinconia: un giorno potreste essere da soli
di notte, senza voglia di dormire, e “Storm Corrosion” vi potrebbe apparire
come un piccolo capolavoro, mentre facendo girare il disco in un altro momento
qualsiasi della giornata, con i muratori che sparano decibel su decibel con le
trivelle, con i clacson delle auto e gli uccellini che cinguettano, il medesimo
disco potrebbe apparirvi noioso, scialbo, perfino irritante. Questo è il motivo
per cui, ora più che mai, mi trovo in difficoltà a digitare un numero da 1 a 10, ed ecco perché là sotto
vi ritrovate un bel “s.v.” (senza voto). Un’opera troppo strana, complessa,
caotica ma ben chiara nei suoi intenti, per poter essere ridotta ad un numero.
Se non amate sperimentalismi d’avanguardia ed idee totalmente aperte alla ricerca
musicale, allora lasciate perdere senza indugi “Storm Corrosion”; in caso
contrario, provate a dargli un ascolto in modo concentrato e potreste trarne
delle gradevoli sorprese. Musicalmente, gli arrangiamenti ed i lavori alle
chitarre di Wilson e Akerfeldt sono sempre di un certo rilievo artistico,
mentre le voci fungono da abbellimento, più che da motori portanti dei brani,
data la loro scarsa presenza. E’ giusto anche accennare alle pur ridottissime
parti di batteria (il più delle volte solo un piatto che accompagna il tutto),
suonate da Gavin Harrison. Azzeccato il lavoro di copertina, in pieno stile
rock anni ’70, che con i suoi colori accesi ed infernali esprime bene il
disagio riscontrabile in questi sei sorprendenti lunghi pezzi. Senza dubbio,
“Storm Corrosion” farà discutere tutti; ci sarà chi lo esalterà come uno degli
apici creativi dell’essenza progressiva dei due artisti coinvolti e chi invece
sarà pronto a cestinarlo come il peggiore disco dell’anno. In entrambi i casi,
Akerfeldt e Wilson hanno dimostrato coraggio nel saper esplorare i confini
delle proprie emozioni, senza alcun tipo di blocco o di barriera. Io ho
apprezzato questo disco, poiché l’ho assorbito a piccole dosi nei giusti
momenti emotivi, perciò mi sento di consigliarlo a chi sia aperto a tutta la
musica suonata con cuore ed umiltà; ribadisco però la mia contrarietà ad
esprimere un voto concreto, visti i sentimenti indiscutibilmente stocastici ed
aleatori suscitabili dall’ascolto di un disco come “Storm Corrosion”.
Tracklist:
01. Drag Ropes
02. Storm Corrosion
03. Hag
04. Happy
05. Lock Howl
06. Ljudet Innan