lunedì 20 dicembre 2010

EQUILIBRIUM - Rekreatur


Una band ancora in equilibrio…

Nome Album: Rekreatur
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 18 Giugno 2010
Genere: Folk Metal/Viking Metal

Introduzione:

Il bel disegno evocativo della copertina ci presenta gli Equilibrium del 2010. La giovane band ha all’attivo, con questo nuovo lavoro, solo 3 album, ma ha saputo, incredibilmente, ritagliarsi un posto di ampio spessore nel panorama del folk metal mondiale. E’ infatti impossibile rimanere attoniti di fronte al loro capolavoro e predecessore Sagas, un album tanto pompato nella produzione quanto capace di evocare atmosfere folk di notevole spessore e coinvolgimento. Dopo l’uscita di Sagas, alcuni problemi di line-up hanno minato la band (in primis, la dipartita del singer Helge Stang), ma questo non sembra aver colpito troppo la bontà del songwriting di questi ragazzi tedeschi. Con questo nuovo Rekreatur, infatti, abbiamo fondamentalmente il connubio e la riproduzione delle idee che hanno fatto grandi l’esordio Turis Fratyr ed il già citato Sagas, senza apportare grosse modifiche al sound corposo e corale della band. Tuttavia il lavoro, come vedremo meglio in sede di track-by-track, presenta delle nuove ottime idee ed arrangiamenti, accompagnati però da vari episodi meno riusciti e con un minor potenziale rispetto agli episodi nei dischi precedenti. D’altro canto, i fan sfegatati del gruppo tedesco difficilmente rimarranno delusi dalle avvincenti melodie e dall’evocativo impianto sinfonico-corale da loro proposto, ormai diventato un chiarissimo ed ineguagliabile marchio di fabbrica (assieme al cantato in lingua madre) nella loro musica. La Nuclear Blast, è risaputo, offre sempre al proprio pubblico delle band molto valide e spesso molto interessanti, tra le quali rientrano anche questi Equilibrium, che nonostante la finora breve esistenza, sono riusciti a portare una buona percentuale di freschezza nell’affollato mercato del power europeo dall’impianto folkloristico. Detto questo, non mi resta che consigliarvi l’ascolto di questo valido album ed augurarvi di restare affascinati da quanto proposto dalle atmosfere e dalla musica degli Equilibrium.


Track By Track:

L’apertura dell’album è affidata a “In Heiligen Hallen”, song perfetta per aprire le danze e far intendere che i cambi di line-up non hanno danneggiato il modus operandi della band. La canzone si protende attraverso una struttura decisamente power-speed, su un tappeto sinfonico-folkloristico notevole, impreziosita da decelerazioni, accelerazioni, numerosissimi stop’n’go e altrettanto numerosi cambi d’atmosfera, che rendono il brano sublime ed elegante, all’altezza di quanto già proposto dalla band in passato. Il timbro vocale del nuovo cantante segue la scia del precedente singer, con numerosi cambi tra stili scream e growl. La successiva “Der Ewige Sieg” ripropone le stesse coordinate stilistiche del brano precedente, ma, essendo più breve, risulta di maggior impatto e, quindi, più diretta. Il brano (scelto, non a caso, come primo singolo) si apre con delle melodie folkeggianti, accompagnate da un roccioso riff di chitarra e da improvvise cavalcate accelerate, fino all’esplosione melodica del ritornello. Un brano quindi, ancora una volta, riuscito e godibilissimo fin dal primo ascolto. Un’introduzione sinfonica ed un riff lento e pesante aprono le danze di “Verbrannte Erde”, cavalcata lenta e possente dove i ritmi vengono quindi rallentati, in favore di arrangiamenti sinfonici battaglieri ed evocativi. A pressare maggiormente l’atmosfera ci pensa il growl di Robert Dahn, che, a lungo andare, a mio avviso, risulta essere fin troppo esageratamente cavernoso per songs come questa. Buono il ritornello, che presenta delle aperture melodiche maggiormente rilassate rispetto alle strofe. Ci pensa “Die Affeninsel” a riportare in auge le fulminanti classiche ritmiche velocizzate della band: dopo alcuni suoni, tipicamente folk, il brano si apre con un riff granitico e roccioso, aprendo la strada ad un up-tempo dalle azzeccate melodie, ma che non riesce a spiccare sul resto, probabilmente anche a causa di refrain o pezzi che non riescono a farsi ricordare come dovrebbero, rendendo così il brano piuttosto anonimo ed amaro nella sua pur spensierata scorrevolezza. Il viaggio prosegue con “Der Wassermann”, song dall’impianto epico e trionfante. Alcune lievi partiture sinfoniche aprono questo mid-tempo dalle aperture melodiche ariose e vincenti. Dopo un breve stacco folk nella metà del brano, la canzone prende velocità per poi rallentare nuovamente nella superba parte finale, incredibilmente epica e trionfante, condita da melodie fresche, solari ed avvincenti. Quindi, dopo una leggera ed apparente dispersione nel susseguirsi iniziale, il brano, determinato da tasselli e riff imprescindibili l’uno dall’altro, risulta riuscitissimo ed avvincente. “Aus Ferner Zeit” è una lunga suite di nove minuti e mezzo di durata, caratterizzata dagli elementi comuni presenti nel sound della band. L’incedere è inizialmente accattivante, i ritmi tornano ad essere accelerati (con accenni di fulminei blast beats), le melodie folkeggianti impreziosiscono sempre la struttura generale (altrimenti piuttosto monotona). Questo brano prende forza, appunto, attraverso le numerose melodie e tramite rallentamenti particolarmente melodici ed evocativi, ma perde un po’ di freschezza durante il suo proseguimento, dove alcune parti sembrano essere state infilate quasi come riempitivo, risultando così piuttosto forzate. E’ il caso, per esempio, dei vari riff suonati senza accompagnamenti sinfonici, posti nella seconda metà del brano. Quindi, alla fine dell’ascolto, non risulta una song particolarmente efficace, a causa di un’eccessiva protrazione poco studiata e, quindi, meno avvincente rispetto ai brani precedenti. Decisamente meglio con la seguente “Fahrtwind”, dal tiro inconfondibilmente marchiato Equilibrium, con velocità d’esecuzione al fulmicotone e melodie trionfanti. Impossibile, con pezzi come questo, non tornare con la mente alla vecchia Blut Im Auge di Sagas, vera perla tra tutti i brani partoriti dalla band. Quindi, un ottimo brano che, date le sue caratteristiche, si presta perfettamente per fungere da potenziale futuro singolo. La lunga “Wenn Erdreich Bricht” potrebbe essere definita la ballad del disco (ballad nell’accezione “equilibriumista” del termine, intendiamoci). Si presenta, infatti, come un mid-tempo epico ed evocativo che non riesce, tuttavia, nell’intento di catturare nella dovuta maniera l’attenzione dell’ascoltatore, forse per un eccessiva ripetitività e per un growl sempre particolarmente esagerato per il genere proposto (secondo il mio parere), soprattutto se abbinato a riff ariosi e, a loro modo, “zuccherosi”. La song viene chiusa da un inciso femminile (da parte dell’ospite Gaby Koss, ex soprano degli Haggard) su base sinfonica, ma ciò non basta per risollevarne l’attenzione. Ed eccoci alla fine, con la lunghissima strumentale (13 minuti) “Kurzes Epos”, che ricalca le orme di Mana, lunga suite strumentale di chiusura di Sagas. Gli ingredienti sono gli stessi, ovvero melodie ed orchestrazioni vincenti e pompose, affreschi epico-battaglieri, accelerazioni-decelerazioni ed atmosfere nordiche ad accompagnare il tutto. E’ palese l’intento dei nostri di rievocare il vecchio brano succitato, ed in fin dei conti, pur non aggiungendo nulla di nuovo all’album ed alla discografia, la suite risulta piacevole ed abbastanza scorrevole nei suoi interscambi umorali e d’atmosfera, senza dilungarsi in partiture troppo dispersive. In conclusione, siamo dinnanzi ad un nuovo album riuscito e ricco di sfumature, a cui non si può negare qualche piccolo scivolone stilistico. Ma questi scivoloni di certo non intaccano minimamente la qualità della band ed il suo innato…equilibrio.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

La grande forza della band è sempre stata quella di riuscire a sorprendere con arrangiamenti bombastici e ultra-pomposi, accompagnati da semplici ma freschissime melodie, su una base tecnica di tutto rispetto, ma che non spicca per doti particolarmente eccelse. Scordatevi assoli di chitarra o divagazioni simili; troverete solo una doppia cassa che viaggia alla velocità di un treno, accorpata a ritmiche precise e potenti, ma mai solistiche. Pertanto, il nuovo drummer Tuval  Refaeli, la bella bassista Sandra Völkl e le due asce proseguono su territori sicuri e precisi, senza sbavature e senza gloria. Ciò che colpisce, nuovamente, sono gli arrangiamenti folk-sinfonici, che riescono sempre a sorprenderci e ad immergerci nella mitologia degli Equilibrium. Mi sembra giusto spendere due parole sul nuovo cantante Robert Dahn: semplicemente un animale da palco, possiede un timbro scream meno acuto del suo predecessore, e sembra prediligere il growl rispetto allo scream. Con tutta onestà, preferivo il vecchio singer, possessore di uno scream più tagliente ed incisivo. Inoltre, come già detto,  Robert tende ad esagerare nella corposità del growling, rendendo la sua partitura spesso fuori luogo rispetto alla musica. Senza disquisire sulla notevole bontà compositiva della band e sulla buonissima produzione, concludiamo dicendo che Rekreatur è una “creatura” riuscita, inferiore a Sagas ma, forse, rispetto a quest’ultimo, più scorrevole ad un primo ascolto (ed anche più breve). L’immagine di copertina non è certo un capolavoro, ma i suoi colori freddi e l’atmosfera gelida rendono giustizia a quanto composto dalla band. Non conosco il tedesco, pertanto non posso avere voce in capitolo sulle liriche, anche se c’è da aspettarsi che siano fortemente basate, come sempre, sulla mitologia germanica, tanto cara ai nostri. C’è solo da augurarsi che gli Equilibrium non si adagino troppo sul successo di Sagas e che sperimentino sempre di più attraverso il loro sound, ma, intanto, gustiamoci un degno ritorno per una band in continua crescita stilistica.


Tracklist:

01. In Heiligen Hallen
02. Der Ewige Sieg
03.
Verbrannte Erde
04. Die Affeninsel
05. Der Wassermann
06. Aus Ferner Zeit
07. Fahrtwind
08. Wenn Erdreich Bricht
09. Kurzes Epos


Voto: 8/10


 

martedì 14 dicembre 2010

FREEDOM CALL - Legend Of The Shadowking

Che squillino le trombe!


Nome Album: Legend Of The Shadowking
Etichetta: SPV
Data di uscita: 01 Febbraio 2010
Genere: Power Metal



Introduzione:

“Ti piacciono i Freedom Call?” “Chi, quelli delle trombette?” Ormai le poche persone che ne hanno sentito qualche brano riconoscono in questo modo la band power metal tedesca. Una band nata dalla mente del batterista dei Gamma Ray (Daniel Zimmermann) e dell’amico Chris Bay, che dal lontano 1999 in poi è riuscita a sfornare album validissimi, seppur fortemente basati ed ispirati ad un canonico power metal di stampo epico e decisamente “gioioso”. Caratteristiche che hanno fatto loro conquistare un posto d’onore nel movimento dell’happy metal europeo. Ora, perché le fantomatiche “trombette”? Inutile negare che il loro ricorso al suono delle trombe ha spesso scatenato ilarità da parte dei defenders più accaniti, forse per un loro largo ed imponente utilizzo, soprattutto nei primi tre album. Ma proprio questo suono, a volte al limite del bizzarro, che dà un pesante tocco di pomposa epicità a molti pezzi della band, è diventato un assoluto marchio di fabbrica, targando a fuoco capolavori come i primi 3 album (“Stairway To Fairyland”, “Crystal Empire” e “Eternity”, veri masterpieces dell’“happy-trumpet-power metal”). Bizzarro o meno, la band ha visto crescere a dismisura i fans e i consensi, pur non brillando mai per prestazioni live troppo impegnate o precise, ma sicuramente distensive e coinvolgenti. Il segreto della band consiste nel trovare sempre soluzioni molto azzeccate, veri e propri inni di battaglia dal “tiro” ineccepibile e fottutamente power, aiutati da cori magniloquenti e trionfanti, senza bisogno di ricorrere a divagazioni prog, assoli del secolo, o chissà che altro. Un gruppo puro, indubbiamente, nato per divertimento e per divertire, con tasselli discografici da ascoltare e riascoltare, in giornate tristi, per ritrovare la voglia di vivere. Dopo il buonissimo Circle Of Life (maggiormente orientato verso granitici mid-tempos) e lo scarso Dimensions (dove non v’è traccia delle usuali trombe), tornano nel 2010 con Legend Of The Shadowking, che si presenta, purtroppo, come un altro piccolo passo falso, anche se, in fin dei conti, meno falso del suo diretto predecessore. L’idea lirica è basata su un concept (il quinto della band) che ruota attorno alla storica figura di Re Ludovico II di Bavaria, ma il problema fondamentale è che la musica non fa respirare alcuna aria storica od epica, e questo credo sia un elemento fondamentale nella creazione di un concept storico come questo. L’ispirazione in questi ultimi anni, pertanto, sembra essere venuta meno, rispetto all’epoca delle trombette. Che quindi quest’ultime dessero loro la giusta ispirazione? Se così fosse, non dovremmo esitare a rivolerle indietro nel loro sound:  ingombranti e goliardiche… ma dannatamente Freedom Call!


Track By Track:

Album power + concept storico: cosa meglio di questo binomio può prestarsi ad una bella introduzione sinfonica superbamente arrangiata? Ma qui, di un intro non se ne vede neanche l’ombra: l’attacco diretto è aperto da un incisivo coro su “Out Of The Ruins”, un up-tempo tipicamente power metal. Velocissima, la traccia si staglia su ritmiche battagliere e melodie, tutto sommato, convincenti, che sfociano nell’epico refrain da cantare (come al solito) a squarciagola. Pur essendo priva di tastiere e trombe (ma pregna di cori), rappresenta un’ottima opener, assolutamente convincente, dove lo spirito della band sembra essere rinato. La successiva “Thunder God” cambia subito registro: trattasi di una song più lenta dall’impostazione quasi hard rock, che di power ha davvero poco, se non il refrain, corale e abbastanza convincente. La canzone è in sé piuttosto banale nella struttura, e non lascia segni particolari, ma scorre facilmente anche per la sua breve durata. L’annesso videoclip è, d’altro canto, una cosa davvero orribile, punto. Le cose non vanno meglio con la seguente cavalcata “Tears Of Babylon”, dove compaiono le uniche trombe (rieccole!) dell’album. Anche per questo, è il brano che più richiama il passato, ma lo fa stancamente, con un ritornello ed un incedere generale che, francamente, più scontato di così non potrebbe essere. Per fortuna ci pensa “Merlin – Legend Of The Past” a risollevare l’attenzione. Esplode con un coro oscuro, prosegue in un up-tempo dalle soluzioni musicali azzeccate, per poi sfociare in un refrain epico ed evocativo. Quindi, un ottimo brano (il migliore dell’album, a mio parere) che, guarda caso, è isolato dalla storia del concept (pur essendo, paradossalmente, un concentrato d’atmosfera non indifferente). Un coro asciutto lancia nelle orecchie la successiva “Resurrection Day”, altro up-tempo che alterna delle serratissime strofe, piuttosto scarne e scontate, ad un irresistibile ritornello dai toni happy e molto riuscito, in cui spiccano le consuete doti del drummer Dan, sempre velocissimo, tecnico e preciso. Da notare l’ispirato e veloce assolo di chitarra centrale. Il trittico seguente è rappresentato da una certa atmosfera oscura e plumbea, abbastanza inusuale per la band, rappresentando un discreto esperimento (già iniziato sul precedente Dimensions con The Blackened Sun): si parte con l’introduzione acustica di “Under The Spell Of The Moon”, mid-tempo dall’impianto musicale al limite del gothic, con un Chris Bay che, nel buon refrain accompagnato da drammatici cori e melodie oscure, si cimenta in partiture stranamente baritonali (inusuali per il suo timbro e la sua estensione generalmente elevata) ricordando di striscio il singer degli HIM Ville Valo. In definitiva è un brano piacevole, ma sicuramente non è nulla di sorprendente a livello di songwriting generale. Un po’ meglio la seguente “Dark Obsession”, impreziosita da un’introduzione sinfonica e da inquietanti melodie corali e pianistiche. Anche se rallenta nel buon ritornello, l’incedere del brano è decisamente più granitico e stuzzicante rispetto al brano precedente. Segue “The Darkness”, un titolo abbastanza banale per una buona canzone. Dopo una partenza piuttosto lenta ed oscura, la song sfocia in un mid-tempo dove troviamo delle strofe aggressive e di ottima fattura, impreziosite da ottimi inserti vocali, bridge e ritornello che assumono dei toni quasi gothic, e alcuni inserti elettronici in vicinanza del finale. Tutto sommato quindi si tratta di tre canzoni differenti rispetto al classico stile della band, e l’esperimento risulta riuscito più che degnamente. Si torna a pestare sull’acceleratore con la seguente “Remember!”, un titolo che è tutto un programma: come se i Freedom Call volessero farci “ricordare” qual è il loro genere musicale, attaccano con un coro che sfocia in un up-tempo di stampo classicamente power. Tuttavia la canzone non riesce a brillare, e perde forza soprattutto a causa di strofe banali senza un minimo di innovazione e di un refrain trascurabile e assai poco coinvolgente. Il successivo interludio “Ludwig II” non aggiunge nulla di rilevante all’economia del disco, trattandosi di un breve brano pseudo-sinfonico recitato in lingua madre, preludio alla successiva “The Shadowking”: brano dal taglio piuttosto “sbarazzino” e ritmato, che scorre via senza troppi impedimenti attraverso evocative strofe ed un buon ritornello. La seguente ballad pianistica “Merlin – Requiem”, riprende, come si evince dal titolo, il ritornello della precedente “Merlin – Legend Of The Past” in chiave lenta e sinfonica. La sua breve durata non permette di apprezzarne troppo i contenuti e sarebbe risultata un brano più vincente se fosse stata sviluppata maggiormente. Ma, al di là di questo, risulta comunque un piacevole intermezzo. “Kingdom Of Madness” sembra essere una di quelle song fatte apposta per i live: lo dimostrano un incedere di stampo decisamente hard rock-stradaiolo, un buon ritornello azzeccatissimo per i concerti, ed un (quasi imbarazzante) intermezzo, dove gli strumenti proseguono su una base stazionaria e il ritornello viene ripetuto varie volte, come capita spesso in concerti live dominati da un pubblico sovrano. Chiude l’album una poco degna di nota “A Perfect Day”, che, dopo una buona introduzione dal sapore folk rock, si perde in strofe rockeggianti e in un ritornello eccessivamente allegro e mieloso. Si chiude così, in modo piuttosto inconcludente, la leggenda del re delle ombre, assieme a questo album altalenante che ci dimostra dei Freedom Call in discreta forma, spesso carenti nel lato del songwriting. Questa volta quindi, cari Dan Zimmermann & soci,  niente squilli di tromba.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

La band tedesca non si è mai elevata troppo rispetto agli standard imposti da questo genere, a livello puramente tecnico. Anzi, se proprio dobbiamo essere sinceri, da questo punto di vista, non è mai spiccata, poiché i suoi punti di forza sono decisamente altri. Ma, nonostante questo, possiamo citare il frontman Chris Bay, dal timbro vocale piuttosto morbido e freddo, tutt’altro che aggressivo, ma dotato di un’ottima tecnica vocale e di un’estensione notevole (come dimostra in questo album), oltre che di un certo camaleontismo nel saper interpretare brani di atmosfere differenti. Un singer sicuramente adatto per la proposta del quartetto. Inutile ribadire la bravura del drummer Dan Zimmermann (anche se in tempi recentissimi ha lasciato la band), che i più conoscono soprattutto per il suo operato nei ben più importanti Gamma Ray. C’è da dire però che, nei Freedom Call, il suddetto batterista non è mai riuscito ad esprimere al meglio tutte le sue potenzialità. Per il resto, chitarra e basso svolgono un preciso lavoro, anche se piuttosto standard, senza riuscire a spiccare. Oltre alla discutibile bontà del songwriting, inoltre, mi sento di segnalare che anche la produzione non brilla, tendendo spesso ad oscurare le chitarre (già di per se caratterizzate da un suono scarno) in favore della voce di Bay, facendo perdere impatto e potenza ai brani. Per quanto riguarda la copertina, si tratta di una bellissima immagine che ritrae una sorta di statua di Re Ludovico II, con un mare baciato dalla luna sullo sfondo. I colori sono freddi ed evocativi, perfettamente calzanti con la storia narrata. Quindi eccoci qui, con queste 14 canzoni, fin troppo brevi e spesso mal sviluppate, ma decisamente dirette, che non riescono a farci respirare la giusta atmosfera epica che un concept come questo meriterebbe. Peccato. Intanto cerchiamo di godere dei pochi brani davvero notevoli all’interno di questo album, mentre attendiamo con impazienza che anche i FC abbiano nostalgia del loro stesso passato e tornino a stupirci con le tanto amate-odiate trombette.


Tracklist:

01. Out Of The Ruins
02. Thunder God
03. Tears Of Babylon
04. Merlin – Legend Of The Past
05. Resurrection Day
06. Under The Spell Of The Moon
07. Dark Obsession
08. The Darkness
09. Remember!
10. Ludwig II – Prologue
11. The Shadowking
12. Merlin – Requiem
13. Kingdom Of Madness
14. A Perfect Day


Voto: 6,5/10

mercoledì 1 dicembre 2010

GAMMA RAY - To The Metal!

Coerenza e classe...

Nome Album: To The Metal!
Etichetta: EarMusic/Edel Germany
Data di uscita: 29 Gennaio 2010
Genere: Heavy/Power Metal


Introduzione:

Dopo il tanto bello quanto canonico sequel del loro album più popolare (Land Of The Free), torna una delle realtà più seguite ed apprezzate nel campo del power metal teutonico. Quello, per intenderci, grezzo, graffiante, di stampo prettamente heavy e quindi condito da poche tastiere. Tornano i Gamma Ray, con il sempre adrenalinico leader Kai Hansen (in passato, primo chitarrista degli Helloween e vero inventore del power metal, già dai tempi di Walls Of Jerico e dei due Keeper), che, anche in questo album, dà prova delle sue capacità di compositore di heavy metal ed esecutore. Tornano con un album interessante (anche se non particolarmente brillante per quanto riguarda nuove idee originali), che, diversamente dalle aspettative, è riuscito a colpirmi fin dai primi ascolti. La formula vincente di questa band è sempre stata quella di non cambiare mai, frutto della consapevolezza di aver scritto sempre un fottutissimo power metal condito da heavy (nella loro discografia sono moltissimi i richiami a Judas Priest ed Iron Maiden) e, come si suol dire, formula vincente non si cambia. Pertanto, rieccoci qui, con questo nuovo (si lo so, ormai ha quasi un anno, ma è comunque un prodotto del 2010!) album dallo stampo coerentemente “gammaraiano”, dove, ancora una volta, non troviamo innovazioni o restyling di alcun tipo, ma solo puro power metal, come Kai ci ha sempre abituati. Quindi, intuile dire che si tratta di qualcosa di indubbiamente già sentito, e chi è alla ricerca di novità stilistiche farebbe bene a rimanere alla larga da questo prodotto. Tuttavia i Gamma riescono, pur restando in canonici stilemi, a catturare, grazie probabilmente ad un’attitudine e ad un “tiro” che poche altre band riescono ad avere nel loro campo. Infatti, da grande fan del power metal (oltre che del metal nella sua totale generalità), io per primo riconosco che il mercato di questo sottogenere è affollato ed ormai saturo di band. Band tecnicamente sempre validissime, ma a cui manca il giusto spirito accattivante per essere in grado di essere vincenti. E questo spirito non manca di certo ai Gamma Ray.


Track By Track:

Non poteva esserci incipit migliore di una splendida “Rise”, song in perfetto stile Gamma Ray: intro pulita, strofe indimenticabili ad un’elevata velocità d’esecuzione, arrangiamenti sempre graffianti ed accattivanti. Il ritornello particolarmente melodico si impregna in testa per non uscirne più. Quindi un’ottima partenza che richiama gli ultimi lavori della band (Majestic e LOTF 2, giusto per fare un paragone diretto). Il seguito è affidato ad una song di facile impatto, la piuttosto classica “Deadlands”. L’impianto generale è improntato verso un heavy-power molto caro alla band tedesca. Le melodie nel refrain ammiccano verso delle soluzioni meno ricercate rispetto al precedente brano e quindi più immediate, ma, ciò nonostante, rimane comunque un brano di grande impatto ed orecchiabilità, con alcuni inserti più velocizzati ed un assolo di chitarra sparato a mille. Rallentano i ritmi, per lasciar spazio all’incedere prettamente hard rock-heavy metal della successiva “Mother Angel”, sicuramente un buon brano, anche se piuttosto canonico (soprattutto il refrain) e fin troppo standard. Buona e melodica la parte solistica, accompagnata da lievi partiture di tastiera. In fin dei conti, si tratta di un brano piacevole da ascoltare, seppur scontato, che di certo non farà gridare al miracolo per innovazioni particolari. Il livello qualitativo dell’album si alza con la struggente “No Need To Cry”, una ballad corposa lenta e melodica, che riporta alla mente grandi lenti della band come Lake Of Tears. Accompagnata da un piglio orchestrale e pianistico delicato e perfettamente incastrato nella struttura, la canzone si sussegue tra momenti altamente emozionanti (come il ritornello e la sezione d’assoli), “rovinati” forse, a livello atmosferico, solo da un bizzarro intermezzo acustico, cantato dal bassista Dirk Schlächter. Questo interludio, particolarmente allegro, stacca troppo dal resto dell’atmosfera emozionante e malinconica della canzone, risultando pertanto un po’ fuori dal contesto. Tuttavia, dopo vari ascolti, riuscirete ad abituarvici. Segue un altro ottimo brano, il più oscuro dell’album: “Empathy”. Trattasi di un buonissimo mid-tempo particolarmente aggressivo e carico di pathos, come si intuisce anche solo dalla semplice introduzione in chitarra pulita. Non brilla certo per troppa originalità in ritmiche o struttura, ma questo brano è comunque in grado di colpire positivamente l’ascoltatore. Se non altro perché è un pezzo abbastanza inusuale nello stile della band. Arriviamo all’unico vero anello debole del full lenght, la title-track “To The Metal”: un brano che lascia l’amaro in bocca da quanto scontato e piuttosto inutile all’economia dell’album. Diciamocelo, hanno voluto fare una classica tamarrata, come si intuisce già dall’eloquente titolo, inserendo un brano di chiaro stampo heavy metal anni ’80. La riproposta dello stile dei noti  Manowar è lampante, e, certo, lo scialbo ritornello non aiuta a farci apprezzare questa song dallo scorrere, quindi, piuttosto banale. Passiamo oltre con “All You Need To Know”, song particolarmente cattiva nel suo incedere, il cui intro è affidato a dei riff feroci ed aggressivi. La canzone vede la partecipazione, nel ritornello, del mitico ex-Helloween Micheal Kiske alla voce (come già accadde su Land Of The Free), ma, nonostante la sua presenza, il ritornello, a causa di una sua eccesiva “zuccherosità” fa perdere forza al brano. “Time To Live” riprende le redini della band, cavalcando su sentieri heavy-power non particolarmente veloci. Il brano si sussegue senza troppa originalità, ma il suo ritornello catchy e il suo incedere lo rendono dannatamente coinvolgente, spingendo l’ascoltatore ad ulteriori ascolti. La seguente “Shine On” viene introdotta da un virtuosismo di basso, e prosegue tra strofe malvagie e violentissime (con Kai Hansen tramutato in un Rob Halford incazzatissimo), ritornelli più ariosi e corali, precisi intermezzi solistici di basso e chitarra. Un buonissimo brano quindi, molto diretto e dalla rapida scorrevolezza. Alcuni suoni di tastiera introducono la conclusiva “Chasing Shadows”, un brano power metal abbastanza standard e canonico che però, come al solito, possiede un tiro ed un piglio azzeccatissimo per non scivolare nel baratro della banalità. Doppia cassa incessante, ritmiche serrate e sottili tappeti tastieristici condiscono questo brano, che acquista ancora più spessore a partire dalla strana e particolare sezione di assoli (ne compare anche uno di tastiera, lanciato a folle velocità, insolito per la band). Perciò, senza tanti fronzoli, questi dieci brani di To The Metal ci consegnano i Gamma Ray del 2010: dei musicisti preparati, con molta esperienza ed in ottima forma, in grado di regalarci ancora, dopo tutti questi anni, dei notevoli episodi musicali.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

To The Metal è quindi un album buono, che di certo non mancherà di soddisfare i palati affamati di power “made in Germany”, o meglio, il power “made in Kai Hansen”. Parliamo proprio di lui, l’internazionalmente noto “zio Kai”, l’inventore indiscusso del power metal con i suoi ex-Helloween, leader instancabile e totalmente devoto alla fiamma dell’heavy metal: anche in questo disco, la sua prestazione canora è intrigante e maligna. Pur non essendo tecnica, la sua voce riesce sempre a trasmettere, proprio perché il suo timbro è immediatamente riconoscibile. Fenomenale nelle frequenze alte ed oscura nella frequenze basse, è un trademark nel sound della band, e, di certo, dona quel qualcosa in più ai brani (un po’ come Hansi nei Blind Guardian, insomma). Dan Zimmermann, asso indiscusso dietro alle pelli e macchina da guerra in sede live, riempie alla perfezione e non manca di inserire qualche passaggio più tecnico e più studiato, rispetto ad una canonica doppia cassa sparata a mille. Henjo Richter, chitarrista dal faccino tutt’altro che plumbeo, ci propina impareggiabili assoli di chitarra, ispirati e, come sempre, ottimamente eseguiti. Ed infine Dirk Schlächter, si riconferma bassista completo sia dal punto di vista tecnico che ritmico, eseguendo degnamente il suo sporco compito. Tralasciando le consuete ottime produzioni e i suoni perfettamente bilanciati in fase di mixaggio, la band, è superfluo ribadirlo, tecnicamente ci sa fare e lo dimostra anche in questo nuovo lavoro. La copertina è, a mio avviso, una delle più belle e cariche di colori tra quelle utilizzate per un disco dei Gamma Ray, e risulta decisamente azzeccata per il titolo dell’album ed i suoi contenuti musicali. Capolavoro della band? Album dell’anno? No, sicuramente no. Resta un album godibilissimo di sano e saziante power metal europeo, dall’inizio alla fine (ok, sorvolando sulla title-track), con buonissimi episodi ed altri un po’ meno convincenti. Un album che non spicca, come già detto, per originalità, non spicca per idee nuove e non mancherà di dare numerose sensazioni di deja vù, ma che vince sul lato carismatico ed è in grado di farci muovere la testa e le dita a ritmo. E, permettetemi di dirlo, dai grandi Gamma Ray pretendiamo proprio questo, e nulla di più.


Tracklist:

01. Rise
02. Deadlands
03. Mother Angel
04. No Need To Cry
05. Empathy
06. To The Metal
07. All You Need To Know
08. Time To Live
09. Shine Forever
10. Chasing shadows


Voto: 7,5

giovedì 25 novembre 2010

MANTICORA - Safe


Dalla Danimarca con molta cattiveria…

Nome Album: Safe
Etichetta: Nightmare Records
Data di Uscita: 21 settembre 2010
Genere: Thrash/Power Metal

Introduzione:

Alzi la mano chi conosce i Manticora: chi sta alzando la mano in questo momento ha tutto il mio rispetto. Si tratta di una band Danese, ormai attiva da svariati anni ed avente sulle spalle una lista discografica comprendente lavori di tutto rispetto. Partiti più di un decennio fad con un power abbastanza canonico, di stampo europeo, ma in cui già si intravedeva qualche novità rispetto allo standard, si sono poi evoluti in un sound molto più violento ma comunque melodico. Un sound che deve moltissimo al power americano degli Iced Earth e al power teutonico dei maestri Blind Guardian (il tutto mescolato e ripreso con gusto e molta personalità). L’unica sfortuna di questa grandissima band è quella di non essere mai stata in grado, volente o nolente, di sfondare come merita. Infatti, resta ancora un gruppo che non possiamo annoverare tra i “big” della scena metal, ma che meriterebbe, oggettivamente, un posto in questo grande podio. Si ripropongono nel 2010 con questo settimo album, come al solito, ricco di idee, che non tradisce le aspettative, e che, fondamentalmente, non presenta grosse innovazioni in più rispetto al passato. Le coordinate sono sempre basate su un power metal fortemente condito da esplosioni thrash, il tutto trasportato in una base di violenza sonora a cui è impossibile rimanere indifferenti. E così è anche per questo Safe, dove, tuttavia, troviamo una sterzata sempre più abbondante verso sonorità thrash, molto più pesanti rispetto al passato. Se, nella tendenza (di mercato, soprattutto) da parte di molte metal band, c’è l’avvicinamento a suoni più melodici e pacati, così non è per i Manticora, che sembrano voler stupire sempre di più, incentivando il lato sporco e ruvido e togliendo una piccola fetta alla melodia. Quindi, buoni e lodevoli gli intenti, anche se, come fan e “follower” della band, mi sento di poter dire che l’album non mi ha colpito come altri capolavori del passato. I picchi qualitativi raggiunti dallo stupefacente 8 Deadly Sins o dalla saga horror di The Black Circus I & II, non vengono toccati da questa nuova fatica, pur restando un buon album che si lascia ascoltare con piacere. La tracklist è una cascata di metallo incandescente: 7 brani per 50 minuti di thrash-power di classe e potenza, nessuna ballad, pochi  stacchi melodici. Questo è Safe, per voi.


Track By Track:

L’attacco è affidato a “In The Abyss Of Desperation”, che inizia con un riff thrash, per poi alternare pezzi più melodici ed altri più pesanti, ritornello melodico al punto giusto ed un ottimo assolo chitarristico, accompagnati da un’onnipresente doppia cassa. In fin dei conti, si tratta di un classicissimo brano alla Manticora, e come tale si farà sicuramente apprezzare dagli amanti di queste sonorità. La seguente “Silence The Freedom”, segue la scia della precedente traccia. Da segnalare un ritmo in terzinato ed una lieve diminuzione di velocità, elementi abbastanza inusuali per il sound del gruppo. A metà canzone si presenta un breve intermezzo rallentato, dal sapore quasi orientaleggiante. Finale affidato ad un massiccio riff che sfuma, accompagnato da una martellante doppia cassa. Nonostante la buona fattura del pezzo, la musica scorre senza lasciare particolari impressioni in testa. Proseguiamo con la successiva “Complete”, che si apre su un riff di grande impatto, pesante e sincopato, per poi lasciare spazio a ottime melodie accompagnate da una lieve base di tastiera. Quindi, su una struttura lenta e cupa, si susseguono ottimi i riff, anche con qualche accenno progressive e ficcanti accelerazioni nel ritornello. Tuttavia quest’ultimo pecca un po’ di anonimato, e si disperde nell’incedere del brano, che diventa quindi privo del giusto spessore. Da qui in poi i brani diventano più interessanti e risollevano la qualità del disco: “From The Pain Of Loss (I Learned About The Truth)” è il singolo scelto per anticipare l’album, ed è accompagnato da un tamarrissimo videoclip in cui compaiono fiamme a dismisura che avvolgono la band, intenta a suonare. Tralasciando questo aspetto, il brano (il più corto dell’album, 4 minuti e 37 secondi) è indubbiamente molto valido. Ancora una volta, i ritmi vengono generalmente rallentati, lasciando spazio ad un incedere molto pesante e di matrice thrash, con parti più melodiche in prossimità del ritornello e dell’assolo. Interessanti gli interventi di growl, estremamente profondo e maligno. “A Lake That Drained” è, secondo il mio parere, il brano più riuscito dell’album. Nonostante non vi sia nulla che brilli di una nuova luce, i ritmi tornano ad essere dannatamente veloci e potenti, e torna un po’ il sentore degli ultimi lavori della band. Il ritornello è quanto di più bello si possa sentire in un album dei Manticora: corale, melodico ed oscuro come pochi, sa catturare l’attenzione e si impianta nella mente fin dai primi ascolti. Un ottimo brano quindi, che, una volta concluso, lascia spazio ad un altro highlight del disco, ovvero “Carrion Eaters”: brano dalle belle melodie, aperto da uno straordinario riff sincopato di chitarra. Il ritornello segue gli ingredienti del refrain della song precedente, ovvero doppia cassa, coro ed una certa oscurità melodica intrinseca. Dopo quest’ottima song, che, ad ogni modo, non aggiunge nulla di particolarmente innovativo al suono a cui i Manticora ci hanno abituato, l’album si chiude con la title-track “Safe”: in questa lunga suite, che tocca i 14 minuti di durata, c’è un po’ di tutto ciò che ha reso grande e particolare la musica del combo danese. Dopo un’introduzione breve di chitarra pulita, il brano (praticamente una profusione continua di metallo ruspante) prosegue, temerario, attraverso varie sfumature e cambi di tempo, mantenendo comunque un’impostazione prettamente “metal”. Quindi, per i primi 10 minuti, poco spazio è lasciato ad aperture melodiche, che, invece, spesso ci aspetteremmo di ritrovare in una metal-suite. E’ un continuo succedersi di riffs incazzati ed incastrati ad arte, impedendo cali di tensione. Gli ultimi 4 minuti sono affidati ad una parte più lenta e melodica, guidata da una lieve chitarra acustica. Così si conclude questa ulteriore buona prova della band, senza tuttavia aggiungere nulla di troppo nuovo per il genere intrapreso.

Considerazioni Tecniche e Conclusive:

L’intero lavoro è una sequenza musicale decisamente compatta e coerente, senza troppi cali di tensione. Tuttavia, il grande limite dell’album è che questa coerenza sfocia, a lungo andare, in una certa sensazione di ripetitività. La mancanza di ballad influisce del resto negativamente su questo aspetto, portando quindi l’album ad essere abbastanza pesante nella sua intera durata. Inoltre, come già detto, anche dopo ripetuti ascolti, le canzoni in linea di massima tendono difficilmente a stamparsi nella mente (salvo eccezioni). Nonostante tutto questo, rimane comunque un buonissimo lavoro, composto con grande perizia tecnica e molta inventiva nella successione dei riff e degli arrangiamenti chitarristici. Il singer Lars, pur essendo una voce particolarissima, subito riconoscibile, che dona una dimensione cupa alla musica dei Manticora, tesse tuttavia delle trame vocali che risultano essere spesso piatte e ripetitive. Ma in fondo, questa è sempre stata una caratteristica del sound della band, il quale, senza Lars, non acquisterebbe più quella dimensione cupa che rende i Manticora così unici e particolari nel loro genere. Ovazione di tutto rispetto per i restanti musicisti: la coppia d’asce tesse vortici chitarristici sempre ottimi ed ispiratissimi, e la sezione ritmica lavora con estrema precisione chirurgica, con un NOME dietro alle pelli sempre ispirato e mostruoso. Tuttavia in questo nuovo Safe, a livello sia di partiture che di produzione, la batteria non risalta come nelle precedenti releases, dove invece era estremamente martellante e sicuramente più incisiva e dominante. Le partiture di tastiera sono più povere e rare rispetto al passato; scelta indirizzata probabilmente anche dalla decisa sterzata thrash nel sound. Un’ultima parola sulla copertina: il simbolo dei Manticora su uno sfondo completamente nero. Quindi nulla di più scontato, una copertina decisamente trascurabile, che non rispecchia quella che è la qualità dell’album. Artwork a parte, tenendo quindi conto come sia difficile, al giorno d’oggi, riuscire a comporre un album che suoni fresco e, tutto sommato, abbastanza originale, e tenendo conto anche della genialità innata di questi 5 musicisti danesi, non possiamo far altro che issare un deciso pollice in su per i Manticora.


Tracklist:

01. In The Abyss Of Desperation
02. Silence The Freedom
03. Complete
04. From The Pain Of Loss (I Learned About The Truth)
05. A Lake That Drained
06. Carrion Eaters
07. Safe (Searching / A Miracle / Fading / End (less)


Voto: 7,5

domenica 21 novembre 2010

AVENGED SEVENFOLD - Nightmare


Quando un illustre ospite non basta…

Nome Album: Nightmare
Etichetta: Warner Bros Records
Data di uscita: 27 Luglio 2010
Genere: Alternative Metal/Heavy Metal

Introduzione:

Avenged Sevenfold. Al solo pronunciare il nome della band americana, tre quarti della popolazione metallara italiana sente brividi di disprezzo e disgusto. Pare, infatti, che i bei ragazzoni americani siano particolarmente disprezzati nel nostro paese, forse per quella loro tendenza modaiola e d’immagine, che li vuole rappresentare come emo-metal-core band. E, forse, così un po’ sono partiti, con un paio di album di metalcore, se vogliamo, adolescenziale, melodico, ruffiano e graffiante, affiancato spesso da pesanti parentesi punk-hardcore (sentire la canzone Streets per averne un’idea). Dopo, quindi, album non indispensabili al popolo metallico, ma comunque validi, ci sorprendono nel 2005 con City Of Evil: album davvero notevole, che inizia a mescolare metal più “maturo”, molta classe e tecnica, con una consueta attitudine glam-emo-punk. Il successore è l’omonimo del 2007, che tenta di seguire le orme del buonissimo predecessore, senza, però, riuscire ad incantare nella giusta maniera. Ed ora, dopo la recente e prematura scomparsa dell’ottimo batterista The Rev, la band si ripropone con questo altalenante Nightmare, album dedicato proprio alla memoria del suddetto mancato batterista. Chi sono, quindi, gli Avenged Sevenfold del 2010? Una band americana consapevole di avere alle spalle un glorioso successo, ma che non sembra tuttavia mai in grado di brillare come potrebbe. Infatti, anche questo nuovo parto discografico sembra confermarlo: vi sono incluse canzoni che risultano, fin dal primo ascolto, troppo dispersive e pretenziose, quasi fossero alla ricerca costante, in modo forzato, di un riff che faccia colpo, che sappia essere catchy. Riff che, però, stenta ad arrivare, o meglio arriva e non conclude, riducendo quindi il disco ad una massa di numerose (brutte) idee mal amalgamate tra di loro. Qualcosa di buono c’è, è innegabile, ma sembra già che il buon flusso creativo della band si sia esaurito con i primi 3 album. Mi auguro di sbagliare, perché tecnicamente la band è validissima e potrebbe essere in grado di stupirci ancora, cosa che, francamente, non è riuscita a fare in questo nuovo lungo album. Passiamo quindi all’analisi precisa del disco.


Track By Track:

L’album esordisce, paradossalmente, con una delle due migliori canzoni del platter, la buona title-track “Nightmare”. Buona la partenza lenta, con melodie oscure e decadenti, che sfocia subito in un pesante e lento riff di matrice thrash-southern. Il ritornello è melodico ed azzeccato. Ottimi intermezzi centrali e assoli condiscono questa song, che, pur non essendo nulla che faccia gridare al miracolo, innegabilmente fa sperare in un buon ritorno della band. Tuttavia, da qui in avanti, le aspettative verranno negate. Infatti, già con la successiva “Welcome To The Family”, si intravedono idee scarse e prive di mordente. L’incedere è ancora affidato ad un mid-tempo, e ben presto compare un ritornello ruffiano e melodico, quasi “collegial punk-oriented”, come varie volte troviamo nella loro discografia. Nonostante il pezzo sia piuttosto scontato, si lascia ascoltare. Il primo vero e totale flop è la seguente “Danger Line”: non lascia alcuno spazio ad idee interessanti o a qualche soluzione ben arrangiata. Tutto suona in modo assolutamente banale, trascinato e senza un minimo di emozione. Imbarazzante e decisamente fuori luogo l’intermezzo pianistico (compaiono perfino delle trombette!), che prosegue fino alla fine del brano. Come se non bastasse, le linee vocali di M. Shadows rendono il tutto ancora più piatto. In poche parole, un brano scialbo ed insignificante. E l’ora della prima (semi) ballad del disco: “Buried Alive”. Per quanto concerne la struttura del brano, sembra quasi che la band voglia rifarsi alle leggendarie One o Fade To Black dei Metallica. Infatti, abbiamo una prima ottima parte melodica, lenta, dolce, arpeggiata ed ispirata, accompagnata da un ritornello distorto più energico. Peccato che, in questo caso, la successiva parte “metal” risulti un po’ scontata, monotona e con poca inventiva, arrivando a privare l’intero brano dell’etichetta di “buona canzone”. La successiva “Natural Born Killer” è il brano più veloce e thrasheggiante del disco. Una canzone in classico stile Avenged. Ottima la partenza, così come l’arrangiamento nell’assolo di chitarra, ma per il resto è un susseguirsi, ancora una volta, di (poche) buone intuizioni miscelate, senza un’apparente logica, ad altre idee confuse. Un brano, quindi, che avrebbe potuto essere sviluppato in una maniera decisamente più ispirata. Piuttosto insipida la successiva ballad melodica “So Far Away”: ancora una volta, fronteggiamo un brano che, pur lasciandosi ascoltare, nasconde delle buone idee che sembrano, purtroppo pigramente, non essere in grado di esplodere e farsi valere. Assistiamo ad una buona ripresa nella parte finale, ma il suo contributo non basta per apprezzare totalmente quest’altro episodio altalenante. Un’elementare introduzione di chitarra pulita ci introduce a “God Hates Us”, che esplode in un riff veloce e cattivo. In questa canzone ricompare il vecchio growl di M. Shadows, abbandonato dopo i primi due dischi. Il brano prosegue su binari di stampo thrash-core americano (a tratti, sembra quasi che la band tenti di scimmiottare i Pantera, con delle insipide convulsioni chitarristiche), rappresentando un episodio solo sufficientemente riuscito e, in fin dei conti, piuttosto fine a se stesso ed insignificante per rialzare le sorti del disco. Come se ciò che abbiamo sentito fin’ora non bastasse, la band ci propina in seguito ben 3 (!) ulteriori canzoni lente, la cui qualità è messa in dubbio da idee trascinate e spesso banali: pare quasi che la band sia esausta e convinta di aver dato al proprio popolo tutto ciò che di meglio potesse offrire, tirando fuori così dei brani assolutamente stanchi e scialbi. Il terribile trittico è rappresentato da: 1- “Victim”, eccessivamente melodica, si trascina per ben 7 lunghi minuti e 30 secondi, non aggiungendo nulla di nuovo al disco, se non un’ulteriore prova che la band è decisamente carente di idee valide. Lo stampo del brano è quasi orientato su un soft-pop-rock radiofonico. Ennesimo passo falso decisamente trascurabile. 2- “Tonight The World Dies” si protende stancamente sulla falsa riga del brano precedente. Inutile dire che arrivati a questo punto la noia prevale su ogni altra piccola speranza di poter sentire qualcosa di veramente valido. 3- “Fiction”, brano atipico e davvero strano. Trattasi di un brano scritto dalla scomparso batterista The Rev, completamente pianistico, a tratti angosciante, tra partiture pop, e altre parti più oscure. Ok, cari Avenged, ammiriamo il coraggio di rischiare nell’inserire un brano così particolare, ma il problema è stato averlo inserito in una tracklist già abbondantemente minata e superflua, addirittura dopo due ballad consecutive. Però, al di là di questo, il problema vero è che il brano è assolutamente inconcludente e, come molti altri, si disperde nella sua incoerenza, e conclude le danze lasciandoci l’amaro in bocca. Siamo alla fine, l’ultimo brano dell’album: la lunga (11 minuti di durata) “Save Me”. Finalmente un ottimo brano, che, incredibilmente, colpisce e non stanca. Ma ormai (e per fortuna) siamo alla fine di questo lungo disco. La suite, nella sua lunghezza, mostra finalmente buonissime idee. Pezzi più pesanti si alternano con parti quasi sinfoniche e con partiture classiche nel sound del gruppo. Notevoli le accelerazioni nella sezione degli assoli, seguiti a ruota da una parte in cui sentiamo un Mike Portnoy finalmente ispirato, che richiama moltissimo il suo modo personalissimo di suonare nei Dream Theater. Una parte finale più lenta ed ispirata chiude la song e l’intero album. Peccato che il resto dell’album non sia all’altezza di quest’ultimo episodio.        


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Eccoci alla fine di questo faticoso disco. C’è una cosa da segnalare: l’ospite (ora come ora, a quanto pare, componente fisso) scelto per rimpiazzare il rimpianto The Rev dietro le pelli, è Mike Portnoy, già arcinoto per le sue prestazioni nei progster Dream Theater (che non hanno certo bisogno di presentazioni). Chi conosce Portnoy sa bene che egli non ha certo difficoltà a rapportarsi al modo di suonare dello scomparso The Rev, che era pur sempre un ottimo batterista, con elevato gusto e qualità tecniche. Ma, va detto, la prestazione di Mike, in questo disco, non è assolutamente degna della propria fama e delle proprie abilità. Forse, da lui ci si aspettava decisamente di più. Altra nota di demerito, come già detto, va al singer M. Shadows: la sua voce non brilla di particolari doti tecniche, ma è vincente sul lato carismatico. E’ una caratteristica voce sporca, alta e dal taglio “sleazy” (mi spiego?!), ma si adagia, purtroppo, su delle linee vocali spesso piatte, monocorde e in fin dei conti molto ripetitive. Detto questo,il tasto più dolente resta il pesante macigno del songwriting, come già detto, confusionario e carente di buona inventiva. Tant’è che anche là sopra non sono riuscito a definire un genere preciso, canalizzando tutto in un eloquente ma, ahimè, dispersivo “heavy metal” (in fondo, tutto deriva da lì, no?). Per il resto la band viaggia su produzione buona, ottimi livelli tecnici, come nel caso del chitarrista solista Synyster Gates, o del già citato ospite d’eccezione Mike Portnoy (c’è bisogno di ricordare che tecnicamente è un mostriciattolo?). L’immagine di copertina è molto interessante ed ovviamente adeguata al titolo dell’album, ma non basta a risollevare le sorti di un disco fragile, così come non sono sufficienti solo 3 o 4 canzoni buone su undici tracce totali. Dobbiamo avere ancora fiducia nella band, c’è da sperare che non si montino la testa più del dovuto (o più di quanto non abbiano già fatto), e che riescano a sfoderare un lavoro qualitativamente superiore a questo Nightmare, il quale, credo con sincerità, in futuro girerà raramente nel mio lettore mp3. Nell’attesa della svolta, torno ad ascoltarmi City Of Evil… o magari i Dream Theater.


Tracklist:

01. Nightmare
02. Welcome To The Family
03. Danger Line
04. Buried Alive
05. Natural Born Killer
06. So Far Away
07. God Hates Us
08. Victim
09. Tonight The World Dies
10. Fiction
11. Save Me


Voto: 5,5/10

martedì 16 novembre 2010

CRADLE OF FILTH - Darkly, Darkly Venus Aversa


Il respiro di un vampiro non passa inosservato…

Nome Album: Darkly, Darkly Venus Aversa
Etichetta: Peaceville
Data di uscita: 29 Ottobre 2010
Genere: Extreme Gothic Metal/Symphonic Black Metal

Introduzione:

Eccomi qui, con la promessa recensione del nuovo album dei Vampiri più famosi del metal. Infatti, in questo fervido e prolifico 2010, si ritaglia uno spazio nelle nuove uscite anche una band con cui ho avuto sempre un buon rapporto, i britannici Cradle Of Filth: pilastro del symphonic-extreme-black-gothic-metal (e via con le consuete etichettature), e della scena estrema in generale. Partiamo, innanzitutto, con un dovuto accenno sulla storia di questo gruppo, per capirne, in breve, l’evoluzione stilistica: partono nei primi anni ’90, devoti ad un black metal violento e di stampo sinfonico, e, liricamente parlando, totalmente dediti alle tematiche oscure e romantiche del vampirismo, ripreso sempre in chiave poetica e letteraria. Dopo anni di attività ed ottimi album pubblicati, assistiamo, dal 2004, ad un flop compositivo con il periodo più “gothic-oriented” di Nymphetamine e Thornography, due album troppo sgonfi di adrenalina, poveri di buone idee e, a modo loro, troppo “commerciali”. Un deciso respiro di sollievo lo ritroviamo con il penultimo e sorprendente  Godspeed On The Devil’s Thunder; ed ora, 2010 A.D., siamo dinnanzi ad una (definitiva?) conferma del loro ritrovato smalto in fase di songwriting. Già, perché Darkly Darkly Venus Aversa, è un buon album di sano gothic metal estremo, che riporta il gruppo ai fasti dell’osannatissimo Midian, o del colossale Damnation And A Day. In termini di velocità e composizione, l’album è davvero una fucilata in pieno volto, e, nonostante le idee non siano certo troppo originali o particolarmente innovative (ragazzi, vecchie glorie come Principle o Dusk non torneranno mai più), le song riescono a scorrere, con una certa fluidità, nelle orecchie dell’ascoltatore. Merito di una decisamente rinata cattiveria dalle sfumature blackeggianti e thrasheggianti, che, da tempo, non si sentiva nella musica degli inglesi. Liricamente, si tratta di un concept , come al solito ben scritto, incentrato sulla figura di Lilith: un demone femminile associato alla tempesta, alla morte e alla disgrazia. Sgombriamo subito il campo dalle perplessità: i fans di mezzo mondo saranno rimasti inorriditi di fronte all’uscita (precedente all’album) del singolo Forgive Me Father, (unico) brano decisamente discutibile all’interno del disco, che ha fatto subito tornare alla mente il falsissimo passo che porta l’ingombrante nome di Thornography. Ma non allarmatevi: infatti, si tratta dell’unico fastidioso neo, in un’opera di tutto rispetto ed oggettivamente di indubbia qualità.  


Track By Track:

Tiriamo già un sospiro di sollievo e di conforto, accompagnato da un pensiero fisso (“finalmente ci siamo”), all’ascolto della prima traccia del disco: “The Cult Of Venus Aversa”. Inizia con un’introduzione sinfonica ed atmosferica, recitata dall’onnipresente Sarah (da anni nelle fila della band). Nemmeno il tempo di pensare, e ci viene sparato in pieno volto un superbo attacco di blast-beats senza controllo. La song si sussegue tra ottimi riff black e alcuni più thrasheggianti, su un tappeto sinfonico mai troppo invadente, ed intermezzi orchestrali. Uno dei migliori brani del disco. Ancora decisamente stravolti per la cattiveria con cui si ripropone la band, si prosegue con “One Foul Step From The Abyss”. Dopo un intro di piano e coro (mi ricorda i primi album), gli ingredienti non cambiano, ed è ancora un susseguirsi di terremoti sonici, attraverso riff devastanti e precisi. “The Nun With The Astral Habit” non risparmia le orecchie dell’ascoltatore: inizia sparata a mille, su un riff di chitarra monocorde poco convincente, ma il seguito è decisamente azzeccato. La strofa viaggia su un riff di matrice death metal, il bridge rallenta per dare spazio ad un atmosferico intervento pianistico, ed il resto è un abuso di potere di blast-beats e riff spaccaossa. Da segnalare gli ispirati interventi orchestrali, che rendono la canzone oscura ed affascinante. L’inferno sonoro prosegue con “Church Of The Sacred Heart”, canzone che sfiora i 4 minuti, dove, ancora una volta, è un massacro. Proprio quando l’orecchio inizia a stancarsi di così tanto isterismo, arriva una manciata di riff  rallentati e più ragionati. Le coordinate del brano continuano, comunque, attraverso martellate di freschissimo death-black metal. Ed eccoci arrivati ad un altro dei migliori brani del disco: “The Persecution Song”. Proprio dove i Cradle avevano fallito un lustro fa, con quella, poco gradita, svolta gothicheggiante di Nymphetamine, riprovano a calcare il terreno. Il brano è sbalorditivo nel suo incedere. Lo stampo del brano è di ottimo gothic metal, quindi i riff si fanno più lenti ed atmosferici, almeno fino a poco più di metà brano, dove ricompaiono, tutt’altro che timidamente, blast beats e tirate di velocità esaltanti al punto giusto. Il brano, dopo aver ripreso il riff gothic iniziale, si chiude con uno dei brevi interventi atmosferico-orchestrali, tanto cari ai vampiri inglesi. Sicuramente un ottimo brano, che spezza la intravista monotonia dei pezzi iniziali. E’ il turno di “Decieving Eyes” e, dopo un attacco thrash, torniamo ai consueti binari di cui abbiamo già parlato. La canzone è abbastanza interessante, se non altro per i numerosi riff che si susseguono in un turbinio di accelerazioni e decelerazioni, interventi ballad-pianistici, e orchestrazioni ben arrangiate, come sempre mai troppo in evidenza. Il brano, in definitiva, risulta meno brutale e più vario rispetto ai primi pezzi. La batteria torna a farsi notare alla grande nella successiva “Lilith Immaculate”, un buon pezzo dalle consuete atmosfere horror-black sinfonico che infestano l’album. A stonare leggermente, a mio parere, è la scelta di inserire un bridge particolarmente arioso e melodico, che mal si sposa con quanto finora sentito. Ma è apprezzabile, ad ogni modo, il tentativo di inserire qualche elemento in più nella loro musica. Il brano rallenta nella parte centrale, con un bel break di stampo sinfonico, per poi riprendere il riff brutale iniziale. La successiva “The Spawn Of Love And War” si lascia apprezzare per un impianto iniziale rivolto maggiormente al thrash metal, anche se, nel suo lungo susseguirsi, non mancano le consuete parti più orchestrali e rallentamenti di stampo gothic (le cui teatralità ed oscurità sono sempre assicurate) alternati a riff più assassini. Tuttavia, a mio avviso, è un brano abbastanza trascurabile. In altre parole, l’impatto primordiale dell’album inizia a non essere più così graffiante. “Harlot On a Pedestal”, grazie alle sue oscure melodie, riporta alla mente alcuni vecchi capolavori della band, e tra stacchi thrash e pezzi più gothicheggianti, risulta essere un brano di notevole fattura, sicuramente più apprezzabile rispetto al precedente. Ed ecco la canzone “x”, quell’insopportabile “Forgive Me Father (I Have Sinned)”, che poco c’entra con la struttura portante dell’album, e richiama alla mente il peggio della band, quel tanto (giustamente) discusso Thornography. I ritmi sono decisamente più lenti rispetto al resto dell’album, e da questo punto di vista non è un male, vista la pesantezza sonora del disco. Tuttavia la song non riesce a brillare e (con annesso videoclip) darebbe credito a chi ha additato i COF di essersi commercializzati e ridicolizzati negli ultimi anni. Per fortuna, comunque, come già detto, si tratta di un episodio isolato. Chiude l’album la song più lunga dell’album (7 minuti e 16), “Beyond Eleventh Hour”, che, dopo un intro recitato da Sarah, si sussegue attraverso i soliti ingredienti lungo la sua durata, senza aggiungere altro a questa buonissima nuova uscita targata Cradle Of Filth.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Confesso che ho trovato qualche difficoltà a descrivere queste 11 canzoni. Ciò è dovuto al fatto che la musica dei Cradle (come quella di molte band nel panorama estremo) non segue, nelle strutture dei brani, schemi precisi. La classica forma-canzone, nella maggior parte dei casi, non esiste. Pertanto i riff ed i cambi di atmosfera sono davvero molti, ed è stato difficile mettere su carta ciò che questa musica trasmette. Detto questo, possiamo dire che i COF sono un gruppo, finalmente, rinato, che dimostra ancora di saper scrivere musica intelligente e, elemento non meno importante, che sappia essere graffiante, malvagia e dannatamente cattiva. Dani non è più certo quello di una volta dietro al microfono, ma le sue interpretazioni ed il suo scream-growl sono ancora di buon gusto ed indispensabili per la musica orrorifica del combo inglese. Tecnicamente, mi sento di segnalare lo sconosciuto batterista Martin Skaroupka, un’autentica macchina da guerra, che, con i sui blast beats precisi e potenti, con i suoi passaggi ricchi e, in alcuni albiti, anche particolarmente tecnici, è, a mio avviso, il miglior batterista che il gruppo abbia mai avuto: essenziale per questo disco, così come lo è stato per l’altrettanto riuscito Godspeed. Per il resto, la band compie il suo preciso lavoro, senza spiccare per doti eccessivamente particolari. Le parti orchestrali, inoltre, sono perfette nel loro donare uno spessore in più ai brani, ma, come già detto, non coprono gli altri strumenti. Le chitarre, infatti, sono molto presenti, e, pertanto, le orchestrazioni fungono da un perfetto e comunque essenziale contorno alla carica malvagia della musica di questo album. La produzione, a partire da quello spartiacque che era Nymphetamine, è oggettivamente migliorata, e,  da allora è pomposa, brillante e rende giustizia ad ogni suono. Che altro dire, sembra che tutto sia perfetto. Tuttavia, l’unico grande difetto di questo album è il fatto che le canzoni riescano si a scorrere e a lasciarsi ascoltare, senza però negare che certe soluzioni siano parecchio simili tra loro. Pertanto, non c’è un ritornello o un riff che ci permetta di distinguerle perfettamente le une dalle altre, e questo, a lungo andare, può provocare una sensazione di noia nell’ascoltatore. Per fortuna le song sono comunque ben bilanciate e studiate, e riescono a limitare gli sbadigli. Due parole sulla copertina: l’immagine è molto carina, oscura ed evocativa. Non è certo un capolavoro, ma ben calza con l’atmosfera e le tematiche del disco. Fans del nuovo corso, ma anche del vecchio corso, gustatevi quindi questa nuova inebriante fatica dei britannici, o, almeno, dategli un ascolto, e capirete che i Cradle hanno ancora molto da dire, sperando non ricadano in qualche nuova scelta poco felice. Tremate, i Vampiri inglesi sono tornati.


Tracklist:

01. The Cult Of Venus Aversa
02. One Foul Step From The Abyss
03. The Nun With The Astral Habit
04. Retreat Of The Sacred Heart
05. The Persecution Song
06. Deceiving Eyes
07. Lilith Immaculate
08. The Spawn Of Love And War
09. Harlot On A Pedestal
10. Forgive Me Father (I Have Sinned)
11. Beyond The Eleventh Hour


Voto: 8/10

martedì 9 novembre 2010

BLIND GUARDIAN - At The Edge Of Time

Il ritorno dei Bardi, puntuali come orologi svizz..tedeschi...

Nome Album: At The Edge Of Time
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 30 Luglio 2010
Genere: Power Epic Metal


Introduzione:

L'estate 2010, dai metallari più accaniti, verrà sicuramente ricordata per l'uscita sul mercato del nuovo album dei bardi più famosi del mondo. Eccoli tornare, puntualissimi, dopo i (da tempo ormai) consueti 4 anni di pausa discografica, con questo nuovo dischetto fresco e decisamente buono ed interessante. Cosa si può dire sulla più grande band, assieme ai connazionali Helloween, di tutta la scena power metal europea e mondiale? Si può dire che, dall'ormai lontanissimo 1988, album dopo album sono riusciti a sfornare dei lavori sempre più interessanti, senza mai scadere in ridondanti stilemi classici ed abusati del power metal, ma andando, invece, a ricercare sempre degli elementi nuovi da introdurre nel loro sound, così da renderlo molto particolare e sicuramente unico nel suo genere. E lo stesso discorso lo si può fare per questo nuovo At The Edge Of Time. Facendo un passo indietro, torniamo al 2006: anno in cui uscì "A Twist in The Myth". Un buon album, in cui i ritmi venivano fondamentalmente rallentati, per andare a concentrare l'attenzione su un sound più legato alla sperimentazione e all'arrangiamento. 4 anni più tardi, i Bardi di Krefeld sembrano voler fare, dal punto di vista del songwriting, un passo indietro, e, paradossalmente, ne compiono uno anche in avanti, poichè questo è ciò che i fans, effettivamente, attendevano da tempo: i suoni si fanno più graffianti, alcune tracce tornano ad essere votate ad un famelico power-speed old-school, e, anche dal punto di vista lirico si torna alle vecchie radici. Se, infatti, da quel discusso (ma decisamente sbalorditivo) A Night At The Opera del 2002, le tematiche si erano spostate ad argomenti più profondi ed intellettuali come l'epica, la filosofia o la religione, ora i temi portanti tornano a toccare perlopiù la letteratura ed il mondo fantasy, tanto caro al gruppo tedesco (chi, per esempio, non ricorda il loro album-capolavoro Nightfall in Middle-Earth?). Ciò lo si può evincere anche dando una fugace occhiata alle evocative immagini, disegnate nel booklet e nella copertina (bellissimo l'artwork a cura di Felipe Machado). Altro tocco di classe, che dona sicuramente un'aura magistrale alla musica dei bardi, è l'uso dell'orchestra di Praga in 2 suite, sicuramente tra le tracce più notevoli e rappresentative del disco. Proseguiamo, quindi, con quello che è, e dev'essere, l'argomento portante della recensione: la musica sempreverde dei Blind Guardian.


Track By Track:

I bardi decidono già di stupirci alla grande, piazzando in apertura uno dei loro brani più belli e, sicuramente, il migliore dell'intero disco. Un brano come "Sacred Worlds", nato per la colonna sonora del videogioco Sacred 2, ed in seguito riadattato ed egregiamente arricchito. Si apre con un'inaspettata apertura sinfonica, suonata dall'orchestra di Praga. La tensione si fa sempre più alta, ed è una scarica di emozioni sentire nuovamente i Blind Guardian così ispirati e accattivanti. Esplode il riff portante del brano, accompagnato sempre da un'epica sinfonia. La suite si estende per oltre 9 minuti di durata, alternando parti aggressive, sinfoniche, assoli (come sempre, non particolarmente veloci, ma viaggianti su delle coordinate melodiche sempre fresche e piacevolissime) e altre parti più rallentate, il tutto in funzione del superlativo refrain. Pura arte per le orecchie! Il viaggio prosegue con "Tanelorn (Into The Void)", ed è un richiamo al passato della band, fatto di doppia cassa, velocità molto sostenuta, strofe aggressive e molta melodia. Questa traccia, quindi, non fa eccezione e non delude. Da tempo non si sentivano dei Blind Guardian così incazzati! Il brano corre su coordinate power-thrash, quasi ripetitive in certi frangenti, ma ci pensa poi il ritornello a rallentare i ritmi e ad elevare la carica melodica della canzone. "Road Of No Release" è un mid-tempo ben riuscito, in cui fa capolino un timido pianoforte (un elemento più sfruttato in questo album, rispetto al passato della band). I cambi umorali della canzone ed il suo ottimo arrangiamento, anche senza dubbi in ambito vocale (con i consueti cori "alla Blind"), permettono di godere di questo dolce brano particolarmente innovativo, e carico di pathos nell'azzacatissimo ritornello. Si torna a premere sull'acceleratore sul successivo anello debole della catena. Infatti ci troviamo di fronte a quella che, per il sottoscritto, è la prestazione meno convincente dell'album: "Ride Into Obsession". Anche questo brano richiama al passato, ma dopo numerosi ascolti, non riesce ancora a convincere pienamente; complice una sezione ritmica troppo serrata e marcata (anche nei ritornelli), una batteria troppo meccanica, ed in generale una sensazione di ripetitività e di "già sentito", che priva la canzone del giusto impatto che dovrebbe riservarci. Anche i migliori ogni tanto possono sbagliare. Per fortuna ci pensa la successiva "Curse My Name" a rincuorare gli animi dei numerosissimi fans della band, sparsi per il mondo. Trattasi del consueto brano acustico-medievaleggiante presente in ogni album della band, a partire da Tales From The Twilight World. Ricco di strumenti atipici per una metal band, prosegue sicuro e leggiadro su melodie di degna fattura. Forse, non aggiunge nulla di nuovo alla discografia dei bardi, ma si lascia ascoltare con immenso piacere. La seconda parte del disco parte in modo altalenante con "Valkyries", un brano in cui si alternano momenti cupi a momenti più ariosi. Con questa canzone, i Blind si riavvicinano alla sperimentazione, che abbiamo avuto modo di sentire nel precedente disco, perciò il ritmo rallenta a favore di maggior ricercatezza nell'arrangiamento. Tuttavia, questo brano non riesce a decollare come dovrebbe, rappresentando un altro (purtroppo) punto debole dell'album. Da qui in poi, la strada è tutta in discesa. Infatti, il proseguimento è affidato ad uno dei migliori brani del disco, la seguente "Control The Divine", cavalcata mid-tempo molto potente, con alcune soluzioni melodiche e corali davvero azzeccate, accompagnate da un'atmosfera abbastanza oscura e carica di emozione. In contraddizione a questa oscurità,, che pervade gran parte del disco, arriva "War Of The Thrones", ballad pianistico-acustica molto particolare e decisamente riuscita. Presenta, tuttavia, dei riff ed un refrain particolarmente "felici" ed ariosi nelle melodie, che, ribadiamo, si distaccano un po' dall'atmosfera generale del disco. Nonostante questo, presa singolarmente, è una canzone molto gradevole ed interessante. La successiva "A Voice In The Dark", scelta anche come singolo apripista dell'album, è letteralmente una mazzata nei denti! Nonchè un altro deciso ritorno al passato (questa volta pienamente riuscito): attacca con uno dei riff più aggressivi e pungenti della storia dei Blind Guardian, e prosegue su binari Power-Thrash fino al bellissimo ritornello che esplode e si pianta dritto nella vostra testa, senza uscirne più. Tra doppia cassa onnipresente, precisi solos di chitarra, voce roca e graffiante, assistiamo quindi ad un altro punto alto dell'opera. La chiusura è affidata ad un'altra suite orchestrale sui 9 minuti di durata: la sbalorditiva "Wheel Of Time". Molte parti vengono affidate a melodie orientaleggianti, che si alternano a momenti più epici e maestosi (come il pomposo refrain), ed altri più semplicemente orchestrali. Anche se, a mio parere, leggermente inferiore all'iniziale "Sacred Worlds", è comunque una suite riuscitissima, appagante come poche e perfetta per chiudere in bellezza questo buon ritorno di Hansi e soci. Due parole sul secondo disco nell'edizione limitata: contiene alcune tracce dell'album in versione demo, una cover ed una versione strumentale-orchestrale di "Wheel Of Time". Insomma si rivela abbastanza inutile e poco interessante.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Da un punto di vista prettamente tecnico-sonoro, i suoni, rispetto al precedente album, sono decisamente migliori. Vengono impostati su un'equalizzazione più alta e risultano più graffianti ed adrenalinici. La tecnica dei musicisti è ottima, come sempre e come ci si aspetta da un ottimo gruppo metal degno di tale etichetta. Menzione d'onore per Hansi, che, con la sua voce a volte rauca e sporca, altre volte dolce e pulita, è un innegabile marchio di fabbrica per questa band: offre ancora un'ottima prestazione sia d'estensione vocale che interpretativa. Peccato che ciò risulti solo su disco, mentre dal vivo le sue prestazioni sono, purtroppo, inferiori. Infine, i solos di chitarra, come già ribadito, non godono di velocità elevatissime o di tecniche particolarmente complesse, ma sono comunque, come sempre, ricercati e molto interessanti. Detto questo, vediamo cosa considerare infine su At The Edge Of Time. Complessivamente è un lavoro buono ed ispirato, non si può dire il contrario. Tuttavia alcuni episodi deboli sparsi qua e là, qualche soluzione troppo ripetitiva o mal sviluppata, fa si che l'attenzione generale, da parte dell'ascoltatore, non riesca ad essere mantenuta lungo tutto il corso dell'opera. E' un peccato, perchè, d'altro canto, quest'album contiene alcuni degli episodi più riusciti della carriera dei bardi. Da fan sfegatato dei Blind Guardian, è un dolore per me scrivere queste righe, ma, purtroppo, è una sensazione che ritrovo ancora adesso, riascoltanto (per l'ennesima volta) quest'album. Ad ogni modo nulla di irreparabile, perchè il disco, come già ribadito, è comunque buono e meritevole d'ascolto, con composizioni che altri gruppi power metal solo lontanamente riuscirebbero a scrivere. Quindi, ben tornati Blind, e chissà che tra i consueti 4 anni di silenzio discografico, non abbiate modo di sfornare un nuovo vero capolavoro, così come lo sono stati Imaginations e Nightfall. Tutto è possibile, quando si parla dei migliori.


Tracklist:

1. Sacred Worlds
2. Tanelorn (Into the Void)
3. Road of No Release
4. Ride into Obsession
5. Curse My Name
6. Valkyries
7. Control the Divine
8. War of the Thrones
9. A Voice in the Dark
10. Wheel of Time


Voto: 7,5/10