giovedì 12 aprile 2012

UNISONIC - Unisonic


UNISONIC

Etichetta: EarMusic
Data di uscita: 4 Aprile 2012
Genere: Hard Rock/Heavy Metal

Introduzione:

Sono loro, sono finalmente tornati: uno dei come-back più attesi dell’anno, la coppia d’oro del metal anni ’80, due leggende e due simboli del power metal, due maestri che hanno fatto scuola a miliardi di musicisti della nostra generazione. Avete capito, Kai Hansen e Michael Kiske sono tornati a creare musica assieme. Dai tempi dei mitici “Keeper Of The Seven Keys” degli Helloween d’oro (albums che videro i due protagonisti rispettivamente alla chitarra e alla voce), di anni ne sono passati; tra cospicui successi dei Gamma Ray di Kai e la carriera solista di Michael, i due ragazzoni tedeschi hanno visto i loro percorsi musicali separarsi sempre di più, mantenendo comunque un forte legame personale e d’amicizia. Tutti sanno, ormai, quanto Kiske
(uno dei singer più amati ed imitati nella storia del power) abbia da tempo abbandonato il metal per dedicarsi ad una carriera più soft con i suoi dischi solisti, prima, e con gli ottimi Place Vendome dopo; nonostante la sua dichiarata avversione alla scena, negli ultimi anni ha preso parte ad alcune collaborazioni metal importanti: prima tra tutte gli Avantasia del mitico Tobias Sammet, poi i Revolution Renaissance di Timo Tolkki, gli stessi Gamma Ray, i nostri Trick Or Treat e via dicendo. Forse queste collaborazioni, forse la voglia di tornare a suonare insieme al suo caro amico Kai, o il recente ritorno on stage, devono aver convinto Kiske che era ormai giunto il momento di tornare a suonare dell’onesto metal, ed ecco arrivare gli Unisonic: una band a tutti gli effetti di Kiske, a cui partecipa attivamente anche l’amico Kai, nell’esclusiva veste di chitarrista. Fans di tutto il mondo, voi che aspettavate un ritorno dei veri Helloween, raffreddate i bollenti spiriti: qui non abbiamo un altro fantomatico “Keeper Of The Seven Keys”, né tantomeno un ritorno al classico power helloweeniano, figlio dell’heavy anni ’80. Abbiamo però, in fin dei conti, un hard rock ben suonato e in molti casi davvero notevole, tra alcune melodie zuccherose ed alcuni episodi più veloci e heavy che possono ricordare di striscio quanto creato dalle zucche di Amburgo negli anni d’oro, il tutto condito con un pizzico di AOR. Il disco scorre liscio, a tratti davvero esaltante, mantenendo alta l’attenzione e rappresentando indubbiamente un perfetto ritorno di scena per uno dei singer più amati (ma anche più contestati) dell’intero universo metallico, anche se non mancano lievi momenti sottotono. Intanto, siamo già contenti così e non potremmo chiedere di meglio, felici di poter rivedere finalmente comporre e suonare assieme Kai e Michael, il primo un chitarrista heavy di tutto rispetto, il secondo un singer che in questo “Unisonic” dimostra ancora una volta la potenza assoluta della sua voce squillante, calda e cristallina…a volte non sembra nemmeno che siano passati più di vent’anni.


Track by Track:

Partenza col botto assoluto: il riff iniziale dell’omonima “Unisonic” ripesca senza dubbio dall’operato di Kai nei suoi Gamma Ray (“Into The Storm” su tutte), consegnandoci l’iniziale tassello di quest’opera prima, il brano più heavy-oriented dell’intero platter. Il ritmo si accende e si fa incalzante, su tutto si innesta la stupenda voce di Kiske, che gioca su superbe metriche vocali e dona uno spessore intenso ad un brano che, altrimenti, potrebbe sembrare più scontato. Il refrain in doppia cassa è puro godimento, così come gli innesti voce-strumenti. Dopo un’opener pressoché perfetta, breve e ultra-diretta, arriva un secondo piccolo gioiello, ovvero “Souls Alive”, un altro brano dalle tinte heavy metal, ma più cadenzato, che rimanda indubbiamente al sound gammarayano. Un grandissimo Kiske modula la sua voce in modo incredibile sul bel ritornello, lasciando spazio anche ad ottimi assoli e godibili intrecci chitarristici. Anche i lievi interventi di tastiera garantiscono un minimo d’atmosfera in più, prima del bel finale. Non sarà un totale ritorno al power anni ’80, ma se le premesse sono queste, c’è solo da essere gioiosi per questa nuova creatura. Sempre restando nell’ambito dei primi Gamma Ray, spunta dalla tracklist un nuovo lascito a firma di Kai, ovvero la zuccherosa e divertente “Never Too Late”: un raffinato hard rock sbarazzino ed intrigante nelle sue ritmiche e nelle sue melodie. Ancora una volta, Kiske manovra su registri alti e potenti, con passione e senza difficoltà. La song ricorda da vicino pezzi immortali come “Free Time”, “Heaven Can Wait” (entrambi dall’esordio dei Gamma Ray, “Heading For Tomorrow”) o “Time To Break Free” (dal mitico masterpiece “Land Of The Free”), canzone a cui partecipò lo stesso Kiske come guest-vocalist. Nulla di innovativo quindi, ma è comunque un gran piacere poter godere di un pezzo suonato con gusto e con la grinta giusta. Dopo questo trittico iniziale, devoto al sound della band di Kai, l’album cambia rotta con l’AOR frizzante di “I’ve Tried”, song che si rifà maggiormente al rock melodico dei Place Vendome. La strofa leggera e delicata apre la strada all’ennesima stupenda prova di Kiske nell’energico refrain ed a raffinati arrangiamenti chitarristici. Su tutto, primeggia un delizioso gusto melodico. Poco metal e molto rock anni ’80: ecco come riassumere questo piacevole brano, prima dell’epica melodiosità di un pezzo come “Star Rider”, dove, ancora una volta, è l’hard rock ottantiano a farla da padrone, con un ritornello pomposo ed iper-melodico, sottolineato da leggere tastiere. Il brano non aggiunge nulla di innovativo al panorama rock e, spesso, si ha la sensazione di aver già sentito questa o quella melodia. Nonostante ciò, questo buon pezzo, si lascia ascoltare piacevolmente, senza voler strafare. Un po’ più interessante e spumeggiante è invece il pomp rock di “Never Change Me”, un brano dai toni ancora allegri e zuccherosi simil-primi Helloween/Gamma Ray, con un bel ritornello, semplice ma efficace e tutto da cantare. Con una coppia come Hansen e l’ex Gotthard Mendy Meyer, nulla viene lasciato al caso ed anche i più semplici arrangiamenti chitarristici arricchiscono la song di gusto melodico. Nel bellissimo riff iniziale di “Renegade” si riaffaccia un massiccio heavy, anche se il resto della canzone presenta una dimensione maggiormente melodica. Tutto ciò risulta in un mid-tempo dotato di ottimo gusto ed arrangiamenti perfetti, compresi i cori del ritornello, i vari solos e le varie melodie chitarristiche. “My Sanctuary” segue a ruota: indubbiamente il miglior pezzo di tutto “Unisonic”. Torna l’hard rock sanguigno, come si intuisce fin dalle prime note, mentre bridge ed il superbo refrain costituiscono una doppietta in un crescendo di esaltazione sonora. La grande prestazione di Kiske torna a fare miracoli nel ritornello, dove il singer raggiunge elevati picchi di estensione, su riff rock semplici, ma compatti e graffianti. Gli Unisonic ci regalano un ultimo refrain su batteria incalzante, consegnandoci un brano non innovativo ma senza dubbio convincente fin dal primo ascolto, fresco e coinvolgente. “King For A Day” riporta in auge l’AOR dei Place Vendome, rivestito però di un abito più incisivo ed accattivante. Nel ritornello e in molti punti della canzone, Kiske si adagia stranamente su dei registri più baritonali. Il brano acquista un maggior vigore nell’accelerazione centrale, trasformandosi in un heavy metal sfacciato e diretto. Nell’ultimo refrain Kiske torna a far sentire il suo timbro e, tutto sommato, nonostante l’ispirazione non sia allo stesso livello dei brani precedenti, “King For A Day” si rivela un episodio gradevole e scorrevole. Decisamente più in rilievo l’heavy mordente di “We Rise”, una song plumbea ed oscura nella strofa, ma positiva e potente nel bridge e nel melodioso ritornello, il tutto su ritmiche più accese e dinamiche. Spiccano come sempre le intense melodie, la prova di Kiske ed il bellissimo scambio solistico tra Hansen e Meyer nella parte centrale della song, prima dell’ultimo refrain, a conclusione di un altro brano brillante e riuscito. Non poteva mancare la ballatona finale, ed ecco che in chiusura di “Unisonic” arriva “No One Ever Sees Me” a scaldare i cuori degli ascoltatori. Si intuisce a pelle che il brano richiama tantissimo le atmosfere dei dischi solisti di Kiske, con chitarre acustiche in primo piano e delicati arrangiamenti strumentali tra strings e pianoforte. Una romantica ballad, decisamente dedita ad un pop-rock tanto leggero quanto piacevole; ci sembra quasi strano immaginare Kai alle prese con delle partiture così leggiadre, ma il brano è davvero notevole: infatti, nonostante la sua semplicità esecutiva, “No One Ever Sees Me” acquista un immenso valore, soprattutto per l’intensa ed emozionante prova canora di Kiske e per il bellissimo assolo centrale, chiudendo in bellezza questo primo eccellente lascito del come-back di Kai e Michael. Pochissimo metal, è vero…ma tanta buona musica di qualità, ed è questo che conta.


Considerazioni Conclusive:

I nostalgici potranno godere di questo piccolo grande album, genuino e roccioso quanto basta per farci apprezzare nuovamente la voce di mr. Kiske. Ad accompagnare Kai e Michael in questa nuova avventura, i due assi dell’old-power si sono attorniati di musicisti di tutto rispetto come Mandy Meyer (ex-Gotthard ed ex-Krokus) alla chitarra, Dennis Ward (Pink Cream 69 e Place Vendome) al basso e Kosta Zafiriou (Place Vendome e da poco ex-Pink Cream 69) alla batteria, tutti musicisti che, in un modo o nell’altro, hanno saputo farsi notare positivamente in questo esordio, pur restando circoscritti ad un modo di suonare semplice e d’impatto. Insomma, abbiamo una vera e propria super-band, ma Hansen e Kiske è inutile negare che siano le due attrazioni principali del gruppo, tanto che in più di un’occasione gli Unisonic vengono presentati come “il ritorno di Kai e Michael”, dimenticando per un momento che la band è a tutti gli effetti di Kiske. Ad ogni modo, è automatico considerare assieme i due musicisti e le loro prestazioni avvalorano indubbiamente il lavoro, in particolar modo la spettacolare voce di quel piccolo grande uomo che a soli 18 anni di età cantava in modo esemplare una certa “Eagle Fly Free”, influenzando generazioni di cantanti power. E’ vero che i vecchi Helloween non sono tornati, è vero che la musica di questo platter non è nulla di nuovo ed è inevitabilmente influenzata dai progetti rock ed AOR in cui Kiske ha messo piede negli ultimi anni, ma è anche vero che gli Unisonic arrivano al cuore con una musica semplice, accattivante e passionale; un hard rock che, dopo i comunque meritevolissimi Place Vendome,  finalmente riporta Kiske al posto giusto e, considerato che alcuni loro vecchi pezzi come la mitica “I Want Out” verranno certamente riproposti dal vivo, non potremmo essere più contenti di così. Una piccola nota la dedichiamo alla produzione, pomposa e super cristallina (com’era lecito aspettarsi) ed all’immagine di copertina: non brillerà per chissà quali doti grafiche, ma l’idea del pianeta-altoparlante è abbastanza originale ed i suoi colori accesi e sprintosi donano fascino al tutto (sicuramente meglio della copertina dell’EP d’esordio “Ignition”). Consigliato a tutti i fans dei due musicisti: sono convinto che “Unisonic” girerà parecchio nel vostro stereo. Bentornato Michael!


Tracklist:

01. Unisonic
02. Souls Alive
03. Never Too Late
04. I’ve Tried
05. Star Rider
06. Never Change Me
07. Renegade
08. My Sanctuary
09. King For A Day
10. We Rise
11. No One Ever Sees Me


Voto: 8/10

martedì 10 aprile 2012

UKUKU - Esplosione di Organi Interni


--- Autoproduzioni ---

ESPLOSIONE DI ORGANI INTERNI

Anno: Marzo 2012
Genere: Primitive Thrash Metal
Line-Up:
Supay – Vocals;
Mabon – Rhythm, Lead and Bass Guitars;
Mizar – Bass Guitar;
Christian – Bass Guitar.
                

Recensione:

Dopo quasi quattro anni di assenza, si riaffacciano sulla fiorente scena underground veronese gli  Ukuku, band capitanata dal factotum Francesco Bommartini (Cold Fire, Carnera FM, Deatherrent, Skorbutiks). E’ doveroso spendere qualche riga per introdurre la band in questione, per chi non la conoscesse: gli Ukuku si formano nel lontano 2003, dall’unione di Mabon (Francesco, alle chitarre), Supay alla voce, Linda al basso e Paolilla dietro le pelli. Il combo, fin da subito, mostra l’intenzione di suonare un metal potente ed aggressivo, orientato verso il thrash metal, come dimostrano qualche iniziale cover dei Pantera o dei Kreator; tra cambi di line-up susseguitisi nei vari anni a molte date dal vivo, ad un certo punto le cose non reggono e gli Ukuku si sciolgono ufficialmente, nell’aprile del 2008. Circa a metà del 2011, il leader e compositore Mabon riprende le redini del gruppo, chiama a sé alcuni vecchi membri e riforma gli Ukuku, i quali sono ora pronti per presentare alla scena il loro primo full-lenght autoprodotto, saggiamente intitolato “Esplosione di Organi Interni”. Le 16 canzoni che compongono l’album sono brevi, dirette e malate, ricche di ospiti provenienti soprattutto dalla scena veronese, figlie di un modo di suonare metal talmente sporco ed aggressivo da essere stato spesso battezzato dalla band stessa come “primitive metal”: l’appellativo calza a pennello, poiché proprio dall’ascolto si percepisce come il valore concreto a cui mirano gli Ukuku è proprio quello della rabbia selvaggia, del non-controllo, del non avere alcuno schema che si interponga tra loro e la loro musica. Chiaramente, si tratta di una mia interpretazione personale e potrei anche sbagliarmi, ma è molto verosimile che gli arrangiamenti così semplici, i brani brevi ma d’impatto, il suono cupo e scarno e la marea di ottimi riff chitarristici all’interno del platter facciano fede ad un’idea che non si allontana poi molto dalla sensazione che ho percepito con l’ascolto di questo album. Addentrandoci nelle singole songs, il riferimento più lampante è quello di un sincero thrash metal di derivazione ottantiana, con i riff secchi e potenti della chitarra di Mabon e con qualche spruzzata di death-grind qua e là. Gli impulsi sonori di “Dimentica il Mio Nome”, con il suo intermezzo pseudo-psichedelico ed il suo testo ficcante e combattivo, il sanguigno e marziale thrash-death di “Deviating Hate”, l’hardcore marcio e primitivo di “Malaria” o la veloce e feroce “For Those They Die”, esempio di raw thrash anni ’80, sono solo alcuni dei tasselli più rappresentativi che costituiscono “Esplosione di Organi Interni”, un album crudo e lanciato, se vogliamo, volutamente “poco pensato” nella sua struttura, dedita esclusivamente ad un head-banging dal sapore anarchico ed anti-sociale. Quindi, riassumendo tutto ciò, i brani sono sufficientemente accattivanti, qualcuno più, qualcuno meno (a tal proposito, il brano che ho trovato più fuori contesto è la plumbea “The World We Created”) e danno vita ad un lavoro abbastanza omogeneo e sincero. Tuttavia, c’è da sottolineare che la band ha alcuni punti di debolezza, sui quali avrà comunque modo di lavorare nelle prossime uscite in futuro; in modo particolare, il suono generale in certe occasioni è troppo cupo e poco graffiante, penalizzato e poco valorizzato, così come il suono della batteria (con molta probabilità, una drum-machine), la quale, pur suonando diretta ed essenziale senza fronzoli, non spicca nel mixing e spesso non riesce a dare la giusta “botta” ai brani. Personalmente, non ho trovato brillante la prova vocale di Supay, il cui growl tende in più di un’occasione ad ammorbidire certe partiture piuttosto che ad incattivirle. Al di là di ciò, i vari riff chitarristici di Mabon, di vecchia scuola, sono ottimi e donano il giusto sapore ai brani. Lo stesso Mabon, in molti brani si occupa anche delle linee di basso, mentre le restanti sono suonate dai vecchi componenti degli Ukuku, Mizar e Christian. Ad aiutare Mabon nel suo progetto, intervengono poi vari ospiti tra cui il Mik e il Cikus (conosciuti nell’ambiente metal veronese per la loro ormai conclusa militanza nei Vehement ed ora nei nuovi Skorbutiks), Keg degli Skorbutiks, Willi dei noti bresciani Cadaveric Crematorium, Peter degli altrettanto noti Aneurysm e Fabio, chitarrista degli emergenti math-corers Acheode. Detto questo, auguriamo agli Ukuku un roseo ritorno nella scena underground veronese; con una maggiore cura nei dettagli e, soprattutto, un drastico studio sul sound, non si sa mai che riescano anche loro a varcare i cancelli dei piccoli confini veronesi, come successo a molti loro meritevoli concittadini come Riul Doamnei, Acheode, Vehement, Mothercare e via dicendo. 


Tracklist:

01. Intro
02. Grey Old Bar
03. Dimentica il mio Nome
04. Bloody Gold
05. Hit the Kobold
06. Berserk
07. Deviating Hate
08. Malaria
09. The World We Created
10. Secrets
11. For Those They Die
12. Parabellum
13. Neri Presagi
14. Remembering The Past
15. Black Snow
16. Clowns


Voto: 7/10

domenica 8 aprile 2012

EPICA - Requiem For The Indifferent


REQUIEM FOR THE INDIFFERENT

Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 9 Marzo 2012
Genere: Symphonic Metal

Introduzione:

Oggi l’umanità vive un momento di forte crisi dei valori fondamentali per la vita e la convivenza, una sorta di apocalisse che, in modo strisciante, silenzioso, ma altrettanto feroce si propaga per i quattro angoli della Terra. In tutto questo, una forte colpa ricade sull’incedere implacabile della moderna tecnologia, responsabile di una “progressione regressiva” che porta, inevitabilmente, alla privazione dell’identità dell’uomo ed ad un silenzioso e cupo allontanamento dalla natura: è un po’ in questo contesto lirico che nasce “Requiem For The Indifferent”, quinto capitolo in studio degli olandesi Epica, famosissima band che negli anni ha visto crescere in maniera esponenziale il proprio pubblico, sempre più affascinato dalle tendenze estreme del loro sound e (ovviamente) dalla suadente bellezza della singer rosso crinita Simone Simons. Il percorso intrapreso dal nuovo album prosegue quanto già è stato fatto dalla band nelle ultime due releases “The Divine Conspiracy” (2007) e l’ultimo “Design Your Universe” (2009), due lavori obiettivamente qualitativi che toccavano un metal sinfonico, maestoso ed epico, arricchito da un tappeto di death metal sempre più tecnico e dalle strutture complesse, allontanandosi sempre più dalle prime rimembranze gothic. RFTI non è da meno e presenta, in linea di massima, lo stesso orientamento stilistico. Nonostante ciò, il mio parere personale è che questa volta le cose siano state fatte in maniera meno egregia del solito: soprattutto a livello di songwriting, infatti, il nuovo album spesso non riesce a colpire nel segno, a causa di strutture sempre più complesse ed articolate ma allo stesso tempo anche più forzate e meno istintive, facendo smarrire l’impatto necessario. Anche dopo numerosi ascolti (senza contare che 74 minuti sono davvero tanti) si riesce a scovare poco di davvero notevole e stupefacente all’interno dell’album in questione. I fan degli Epica non avranno problemi a farsi piacere questo RFTI, perché gli elementi tipici del loro (recente) sound ci sono tutti: maestosità, growls, la voce angelica della Simons, le parti orchestrali, le ritmiche death, e c’è anche da dire che gli arrangiamenti sono curati con una maestria notevole, maturata in anni di esperienza su palchi e studio. Ma ciò non basta, perché è soprattutto la composizione a peccare; non è un album da dimenticare, anzi, è frutto di un lungo lavoro creativo, ma molte partiture, sforzandosi di essere esplosive e geniali nella loro complessità, spesso risultano invece prive di miccia e non detonano come ci si aspetterebbe.   


Track by Track:

Come da copione, una classica introduzione apre un lavoro degli Epica, ed ecco arrivare l’incalzante “Karma”, un delicato affresco sinfonico-cinematografico, molto godibile tra cori e strings, nonostante la sua brevità. L’opener vera e propria è “Monopoly On Truth”, uno dei migliori brani di quest’album. Sette minuti di riff convincenti tra sprazzi più death-oriented supportati dall’abbondante presenza del growl di Mark e sprazzi più melodici con Simone protagonista. Purtroppo, già da ora, la prestazione della rossa singer non convince appieno, rendendo piuttosto piatte alcune delle parti a lei affidate. Molto suggestiva la parte finale, con assolo di Isaac e ritornello corale in bella vista. “Storm The Sorrow” gode di un incipit oscuro e possente, ma è un pezzo discreto, con strutture stranamente più lineari e in cui la voce di Simone ancora non convince pienamente, in particolar modo nel flebile bridge. Il ritornello è abbastanza gradevole, ma alla lunga il brano tende a stagnare. Nonostante ciò, è decisivo l’intermezzo death nel risollevare le sorti del pezzo. Arriva già il turno di una spettacolare ballad a nome “Delirium”, un altro brano da annoverare tra i migliori del lotto. Una delicatissima introduzione corale-polifonica apre la strada ad un magico pianoforte che va a sostenere con una carezza la voce di Simone, finalmente a suo agio sui pezzi più interpretativi e più melodici. Delicate orchestrazioni, chitarre acustiche, gocce di sussurrata coralità ed un refrain carico di pathos costituiscono gli ingredienti di base di un lento strepitoso e davvero bello, tra i migliori partoriti dagli Epica. “Internal Warfare” torna a pestare duramente tra partiture intricate e ritmiche forsennate, ottimi intrecci chitarristici, un breve break incazzato al punto giusto e indemoniati virtuosismi solistici di chitarra-tastiera. Al di là di queste buone qualità, il brano non convince appieno, a causa di un refrain svuotato della giusta carica. La title-track seguente è introdotta da alcune sonorità orientaleggianti e va subito a mescolare riff e partiture caotiche e di complessa intuizione, tanto che è difficile mantenere l’attenzione adeguatamente. Non mi ha proprio convinto la prestazione di Simone in questa canzone. I punti più emozionanti toccati da “Requiem For The Indifferent” sono l’intermezzo acustico ed il bellissimo refrain, epico ed evocativo, ma, sinceramente, poco o nulla si salva del resto: un calderone di riff ed idee al limite del prog-metal che sembrano messe assieme un po’ alla rinfusa, facendo spesso perdere il filo logico degli otto minuti di brano. Peccato. Dopo un po’ di sgomento, passiamo al successivo semplice intermezzo “Anima”, nulla di più che un lieve e malinconico pianoforte sfiorato da tenui soffi di archi. Carino certamente, ma è difficile percepirne un significato. “Guilty Demeanor” è un brano molto breve, rispetto alla lunghezza dei pezzi presenti nell’album. Nonostante alcuni ottimi riff e la buona componente d’oscurità di cui sembra godere nel marziale incipit, il pezzo si perde in un infinito refrain abbastanza spento e non viene data la giusta carica al brano (il timbro di Simone, ancora una volta, non rende giustizia). La calda introduzione di chitarra classica in “Deep Water Horizon” fa ben sperare in un’altra bella ballad ricca di melodia, ed in effetti le aspettative sono ripagate da un bel lento, dotato di un appagante refrain e di un’ottima prestazione della cantante. A metà brano, tutto si trasforma ed il sound si impregna di epicità e sontuosi arrangiamenti tra cori ed orchestra, anche se questa trasformazione in alcuni momenti non sembra dotata di molta logica, per via di alcuni intrecci poco riusciti tra i vari riff. Resta, ad ogni modo, un brano da menzionare, se non altro per la forte componente melodica. “Stay The Course” è un brano più adatto alle corde cavernose di Mark, dotato di riff più death-oriented in mezzo a melodie sinfonico-orientaleggianti. Il ritornello si adagia su coordinate morbide e poco incisive cantate da Simone, facendo perdere impatto ad un brano che prometterebbe una ben altra botta (il feroce intermezzo symphonic-death parla da solo a tal proposito), pertanto il brano scorre liscissimo ma con poca presa sull’ascoltatore. Veniamo, a questo punto, sorpresi dalla bontà di un ottimo brano come “Deter The Tyrant”, sorretto dalle sue intricate melodie pseudo-folk di chitarra. Il brano azzecca, nel suo incedere, una serie di ottimi riff, questa volta perfettamente integrati nel creare un logico tappeto musicale. Molto bello il ritornello, con una Simone Simons finalmente convincente e ficcante come ai tempi d’oro. Assume anche un alto valore il delicato intermezzo acustico prima delle successive e tormentate sfuriate metalliche, tra growls e lodevoli solos. Finalmente un brano da cui rimanere piacevolmente colpiti ed all’altezza del nome Epica. Con la seguente “Avalanche” ci si addentra in atmosfere gothic dolci ed evocative, con carillon, clean guitars e leggiadre strings. Siamo dinnanzi ad una semi-ballad che alterna momenti più riflessivi alle classiche incursioni sympho-death del growl di Mark. L’incastro tra le varie parti risulta, anche in questo caso, scorrevole, rilasciandoci un’altra complessa composizione degna di nota. Purtroppo, la conclusione dell’album non è dei migliori auspici, dopo due buoni brani: infatti “Serenade Of Self-Destruction” è una lunga suite di 10 minuti che alterna dei momenti estremamente brillanti (sentite tutta la spettacolare parte introduttiva) a delle partiture ripetitive e forzate nel contesto. Inoltre, la song in questione è stata soggetta ad un presunto errore di mixaggio, che ha portato ad escludere molte parti vocali dalla versione definitiva, rendendola di fatto un lungo strumentale. Si potranno indubbiamente apprezzare meglio i sopraffini arrangiamenti strumentali e tutta l’energia impiegata in tal senso dalla band, anche se l’assenza di voci la rende una song di difficile digeribilità in più momenti, vista anche la sua considerevole lunghezza.
   

Considerazioni Conclusive:

Tirando le somme, “Requiem For The Indifferent” è un lavoro poliedrico e dalla diverse sfaccettature, alle quali però non viene resa giustizia a causa di un songwriting troppo ricercato ed incapace di stupire in molte occasioni. Certamente non è il caso di fare di tutta l’erba un fascio, poiché dietro alle quinte risiede una cura del dettaglio lodevole, che porta a scoprire arrangiamenti sinfonici eleganti e prestazioni strumentali maiuscole ed indiscutibili. Le stesse asce del leader Mark Jansen e dell’ultimo arrivato Isaac Delahaye intessono ritmiche e costruzioni chitarristiche mai banali e tutt’altro che scontate. Mark si occupa, come sempre, delle chitarre ritmiche e del cavernoso canto growl, in continuo miglioramento (l’esperienza con i suoi sympho-deathsters Mayan deve aver dato i suoi frutti), mentre Isaac, già da “Design Your Universe”, aggiunge al sound degli Epica strepitosi assoli che mostrano una tecnica ed una preparazione notevole sullo strumento. Menzione va anche alla coppia ritmica Arien V. Weesenbeek, un batterista essenziale per la band, preparatissimo e ricco di gusto nei vari passaggi sul proprio strumento, ed il bassista Yves Huts, alla sua ultima prova con la band (ha recentemente abbandonato il gruppo, dopo la registrazione dell’album). Le orchestrazioni campionate sono manovrate dalla sapiente mano di Coen Janssen, tastierista abile e dotato di una buona perizia compositiva, senza dover strafare con troppi assoli fulminei; ed infine, non potevamo non parlare dell’ammaliante Simone Simons, il simbolo degli Epica: peccato che in quest’album la sua prestazione, seppur buona, a mio parere non sia all’altezza dei due dischi precedenti. Sarà che le strutture così complesse richiedono ormai una potenza maggiore anche nel canto, ma in ogni caso Simone presenta della partiture spesso scarne, quasi asciutte, prive di colore, di potenza e di mordente. Insomma, rimane una ragazza stupenda ed una bravissima cantante, ma c’è da dire che il suo lavoro in questo album non dona lo spessore che ci aspetteremmo nei vari brani. La produzione ed i suoni sono miscelati in maniera certosina e professionale e la copertina è notevole, soprattutto per i significati metaforici che si celano sotto di essa: a tal proposito, è anche da ricordare l’impegno profuso nei testi, che vanno a toccare molti argomenti odierni e di attualità. Sono certo che i fan non disdegneranno questo “Requiem For The Indifferent”, ma d’altro canto la lunghezza eccessiva del lavoro, il cantato non sempre convincente  e le idee non sempre brillanti vanno a minare molto il giudizio finale. Devo ammetterlo, personalmente mi aspettavo qualcosa di più da una grande realtà come gli Epica.


Tracklist:

01. Karma
02. Monopoly On Truth
03. Storm The Sorrow
04. Delirium
05. Internal Warfare
06. Requiem For The Indifferent
07. Anima
08. Guilty Demeanor
09. Deep Water Horizon
10. Stay The Course
11. Deter The Tyrant
12. Avalanche
13. Serenade Of Self-Destruction


Voto: 6,5/10