sabato 26 novembre 2011

Live Report: OPETH, Alcatraz, Milano, 24-11-2011

Live Report – OPETH
 (+ Pain Of Salvation)
Alcatraz, Milano, 24-11-2011


Dopo due anni di assenza dalla nostra patria, con l’ottima prestazione (a cui il sottoscritto era presente) al Mediolanum Forum, in occasione del Progressive Nation Tour, torna una delle metal band più osannate nel nostro Bel Paese. Tornano infatti sul palco dell’Alcatraz gli svedesi Opeth! La band prosegue il proprio tour di supporto al nuovo arrivato “Heritage”, toccando anche il locale milanese per l’unico show italiano previsto. Ad aprire la serata, Mikael Åkerfeldt e soci hanno deciso di portare con se un'altra particolare band della scena prog metal attuale, ovvero i loro connazionali Pain Of Salvation. Come i fan avranno avuto modo di ascoltare, il nuovo parto in casa Opeth, “Heritage” (la mia recensione al seguente link: http://recensionimetalfil.blogspot.com/2011/11/opeth-heritage.html), si discosta in toto dal death progressivo a cui la band ci ha abituato, presentandoci, invece, un lavoro totalmente ispirato al prog rock anni ’70, tanto amato dal leader del gruppo. Pertanto, le caratteristiche che hanno dato vita a questa nuova creatura, vengono riproposte anche in questo lungo tour. E’ a tale causa che possiamo quindi additare la mancanza del superbo growl di Mikael, a favore di un limpido clean vocalism. La setlist è quindi stata concentrata su quei brani dotati interamente di voce pulita, senza alcun accenno al buon vecchio growl del leader. Questo ha giocato non poco sulla resa del concerto. Musicalmente i nostri sono stati perfetti, ineccepibilmente mastodontici nell’esecuzione e nel coinvolgimento, ma alcune scelte hanno portato, inevitabilmente, a rendere il concerto troppo prolisso in alcuni tratti. Non fraintendetemi, è stato un concerto meraviglioso, sotto molti punti di vista, ma dare almeno un po’ di spazio anche alla discografia più maligna e death-oriented del combo avrebbe sicuramente giovato al pubblico ed avrebbe reso lo show unico, come quello propostoci due anni or sono. 
La data è già da alcuni giorni sold-out, come si prevedeva già dall’inizio della prevendita ed infatti, arrivati alla location poco prima della 19 senza grossi problemi di parcheggio, si prospetta dinnanzi a noi una folta coda  di fans che prosegue lungo le pareti dell’Alcatraz. Apertura cancelli puntuale alle 19, ed in poco tempo il locale si riempie a dovere, accogliendo circa 3000 persone (prendiamo con le pinze questa mia personale stima). Intorno alle 20 arrivano sul palco gli ospiti della serata, i progster PAIN OF SALVATION. Ammetto, fin da ora, che non ho un’ampia conoscenza al riguardo della  discografia di questa band, ormai attiva dagli albori degli anni ’90, con otto album alle spalle, tra cui il recente “Road Salt II”. Il pubblico milanese sembra apprezzare particolarmente la band, attraverso un calore che, generalmente, ci si aspetterebbe per un headliner, segno che anche i POS erano particolarmente attesi, oltre chiaramente agli Opeth. Una bizzarra introduzione ci conduce attraverso la cinquantina di minuti messa a disposizione per la band di Daniel Gildenlow. Lo show della band sembra orientato verso dei pezzi decisamente trascinanti, ma più facilmente accostabili ad un rock sperimentale, piuttosto che ad un prog metal esageratamente tecnico. Poco male, perché i pezzi sono molto validi, a volte dinamici e coinvolgenti, altre volte più lenti e costruiti. Gli svedesi dimostrano di essere particolarmente spigliati e di avere confidenza col palcoscenico, frutto d’anni di esperienza, presentandoci un Johan Hallgren (al suo ultimo tour con i POS) alla chitarra davvero dinamico e coinvolgente. La bella idea di contrapporre più voci principali nel sound rende la proposta  alternative-sperimentale variegata e particolare. Tra le varie song, spiccano la tostissima “Ashes”, la ballad “1979” e la rockeggiante “Linoleum”. Bravi questi Pain Of Salvation, capaci di uno show gradevole e trascinante. Per chi, come me, ha sentito davvero poco di questa band, è stata un’ottima occasione se non altro per sentire della buona musica dal vivo.
Giusto il consueto tempo necessario per il cambio palco, ed ecco che, sulle note della canzone del Popul Vuh Maya “Through Pain To Heaven” compaiono sul palco gli attessissimi Opeth! Basta un accenno del nuovo singolo “The Devil’s Orchard” e l’Alcatraz diventa un fragoroso boato all’unisono. La band appare, fin da subito, in ottima forma, così come i suoni sono perfetti ed ottimamente bilanciati. La setlist è chiaramente basata soprattutto sull’ultimo controverso “Heritage” (funziona quasi meglio dal vivo che su disco), ed il resto tocca vari episodi dalla discografia precedente, forzatamente selezionati per evitare il cantato in growl. Questa scelta si riversa nel fatto che i due capolavori Orchid e Morningrise vengono completamente ignorati, purtroppo, così come il bellissimo Ghost Reveries e molta parte della vecchia discografia. Nella prima parte dello show abbiamo, quindi, l’ottima riproposizione della nuova perla oscura “I Feel The Dark”, della toccante “Face Of Melinda” (un vero capolavoro), senza dimenticarsi di citare l’immensa ed emozionante “Porcelain Heart”, nel cui intermezzo viene suonato un grandissimo assolo di batteria di Martin Axenrot, giocato soprattutto su un’impressionante dinamica e sulla tecnica esecutiva del drummer, piuttosto che su alte velocità. Già con “Nepenthe” (una song simil-jazz presente sul nuovo album) gli animi si raffreddano non poco, proseguendo anche attraverso un successivo set acustico, in cui la stranissima “The Throat Of Winter” (canzone uscita come colonna sonora del videogioco “God Of War”) poteva essere evitata e sostituita con qualche episodio più celeberrimo (una “Harvest” a caso…). Dopo l’ulteriore dose di delicatezza con la pur bellissima “Credence”, l’incalzante “Closure” chiude il set acustico, ed il resto è tutto un insieme di brani atti a risollevare le sorti di uno show divenuto lento nel suo corso. L’hard rock della nuova “Slither”, la magniloquenza della splendida “A Fair Judgement” (con un potente e plumbeo rallentamento sul finale) e il prog metal di “Hax Process” sono eseguite magistralmente, trasportandoci direttamente all’encore finale di “Folklore”, stupendo brano di “Heritage”. Åkerfeldt scherza, come sempre, con il proprio pubblico, trasformandosi inevitabilmente nel mattatore della serata, citando spesso Eros Ramazzotti per scatenare l’ilarità del pubblico dell’Alcatraz e presentando in modo allegro i membri della sua poliedrica band. I singoli musicisti sono ormai garanzia di seria professionalità e a livello esecutivo non sbagliano un colpo: rimango sempre personalmente colpito dall’operato del bassista Martin Mendez, un autentico mostriciattolo delle 4 corde, dinamico nelle movenze e preciso nell’esecuzione. Le singole canzoni sono di per se splendide, eteree e sognanti, come da sempre gli Opeth ci hanno abituato. Resta da capire se questa propensione verso sonorità più soft sia una direzione intrapresa in modo definitivo, o se sia solamente un momento che Åkerfeldt e soci sentivano il bisogno di vivere in questo modo, pur attraverso scelte che non hanno certamente accontentato tutti (a volte tra il pubblico era palpabile una certa disapprovazione, in merito alla scelta dei brani proposti).
Un concerto quindi strano, difficilmente catalogabile come uno show propriamente metal, ai quali siamo abituati noi metallari. A me personalmente è piaciuto molto, è bastato rendersi semplicemente conto che quella sera all’Alcatraz non stava suonando una metal band a tutti gli effetti. Tuttavia, sono il primo ad additare qualche decisione avventata nella scelta dei brani centrali. Sono convinto che qualche episodio storico cantato in growl come “The Night And The Silent Water”, “Demon Of The Fall” o la maestosa “Blackwater Park” avrebbero letteralmente fatto crollare l’Alcatraz. Ma, ahimè, così non è stato: signori, questi sono gli Opeth del 2011, fautori di una musica sempre eccellente, ma votata (almeno per adesso) ad un lato più leggero e ricercato. Death metal o meno, chi dei presenti ama la musica e ama la band, di certo ricorderà lo show di stasera come un concerto memorabile.


Setlist:

01. Through Pain to Heaven (Intro)
02. The Devil's Orchard
03. I Feel The Dark
04. Face of Melinda
05. Porcelain Heart (with Drum Solo)
06. Nepenthe
07. The Throat of Winter
08. Credence
09. Closure
10. Slither
11. A Fair Judgement
12. Hex Omega
13. Folklore

martedì 22 novembre 2011

OPETH - Heritage


Eredità progressiva…

Nome Album: Heritage
Etichetta: Roadrunner Records
Data di uscita: 20 Settembre 2011
Genere: Progressive Rock

Introduzione:

Tra le uscite più attese in ambito progressive metal, dopo il succoso Iconoclast dei Symphony X e dopo l’attesissimo come back dei Dream Theater, con il virtuoso Mike Mangini dietro le pelli, annoveriamo in questa classifica anche il ritorno di una band amatissima in Italia, autrice di autentici capolavori del death progressivo macchiato di atmosferiche bordate anni ’70: stiamo parlando, indubbiamente, degli Opeth, la geniale band svedese capeggiata dal prolifico Mikael Åkerfeldt. Dal 1995, la band ha saputo sfornare degli album validissimi, in una costante ricerca della sperimentazione in bilico tra il death/doom metal ed i famosi e stupendi stacchi acustici, che hanno fatto grande questo combo di ottimi musicisti. Il precedente Watershed (2008) ha visto la band ammorbidire molto la composizione, a favore di un uso sempre più cospicuo di clean vocals e chitarre pulite, dando vita ad un capolavoro di consueta gran classe. Quest’anno la band ha deciso di stupire ancora una volta, dichiarando, prima della sua uscita, che Heritage non sarebbe stato un album metal. Il pensiero è andato subito al magico Damnation (2003), gioiello totalmente acustico,  amatissimo dai fans. Quindi, a conti fatti, come suona Heritage? Anche questa decima uscita degli svedesi è intrisa di gran classe ed ambiziosa capacità compositiva, ma, forse per la prima volta in questa lunga carriera, l’album fatica a decollare. Musicalmente siamo dinnanzi ad una decina di brani indubbiamente ispirati alla scena progressive anni ’70, tanto amata dal leader della band.  Regnano perciò chitarre acustiche e classiche, incursioni di batteria jazz, distorsioni vintage e un mood generale oscuro e psichedelico, come mai prima d’ora. Tuttavia, di fronte a cotanta elegante prelibatezza, il grave difetto di Heritage è quello di essere, in molte circostanze, un album forse troppo intimista, risultando lento e di difficile assimilazione in più di un’occasione. Intendiamoci, è un album indubbiamente valido, capace di suscitare inebrianti emozioni sonore, ma spesso manca di quel giusto appeal che ha fatto la fortuna dei grandi capolavori del passato. Va riconosciuto agli Opeth il coraggio per aver voluto sperimentare in modo così estremo e l’essere stati in grado di stupire l’audience ancora una volta. Ne è uscito un buon esperimento. Ci può stare, dopo più di sedici anni di carriera e dopo nove album in studio: ma, sinceramente, mi auguro di poter tornare al più presto a risentire i vecchi Opeth, così come abbiamo imparato ad amarli.


Track By Track:

Il primo tassello di questo controverso album è la title-track. “Heritage” è una delicata prestazione di pianoforte e contrabbasso, quest’ultimo suonato dal bassista Martin Mendez. Una piccola introduzione strumentale, dove solo questi due strumenti sono i protagonisti, incaricati di introdurre la particolarità stilistica di Heritage. L’opener vera e propria, nonché videoclip, è l’acida “The Devil’s Orchard”, brano simbolo degli Opeth del 2011. Stop’n’go, cambi di tempo, stacchi, rallentamenti, riprese e suoni che fluiscono in un unico vortice sconnesso di idee, senza dare bado a facili forme-canzoni, spesso estranee al contesto Opeth. Sei minuti di stranezza intrisa di idee allucinate e, a loro modo, geniali, in una piena atmosfera progressive, con tanto di hammond e chitarre dotate di distorsioni corrosive. Canzone sconnessa, da riascoltare per capirne la vera essenza. Il seguente “I Feel The Dark” è il brano migliore dell’album, a mio avviso, nonché quello più vicino alle prestazioni acustiche del passato di Åkerfeldt e soci. Giocata su un rapido arpeggio di chitarra classica, la song si sviluppa con un bel crescendo ed un ottimo arrangiamento, dipanando arpeggi ed atmosfere cupe, sempre con un’intrigante pacatezza esecutiva. Gli stacchi centrali danno un vigore maggiore alla canzone, con comparsa della distorsione e (per poco) della doppia cassa. Bellissimo brano, certamente particolare, ma dannatamente intrigante. “Slither” è un tuffo nel passato, a quel sound da cui l’heavy metal prese le mosse. Non abbiamo grosse difficoltà a ricondurre questa song alle cose migliori fatte da Deep Purple ed altri grandi musicisti di quegli anni. La batteria viaggia spedita per un bellissimo brano di hard rock settantiano. Non avevamo mai sentito Åkerfeldt in questa veste, ma la sua voce si sposa perfettamente con l’atmosfera graffiante creata dalla canzone. Brano breve e d’impatto, che si congeda con un bel finale d’arpeggio acustico. Il brano più lontano dalle produzioni Opethiane mai scritto dal leader Åkerfeldt. Il punto debole di Heritage è raggiunto a mio parere con “Nepenthe”, brano calmissimo, di una delicatezza disarmante nel suo proseguimento. Tralasciando qualche stacco centrale più dinamico e progressivo, il brano si staglia su partiture jazzate e soffuse, fin troppo estenuanti nella loro quiete esecutiva. Più che un brano vero e proprio, a tratti sembra di assistere ad una jam session. Ne risulta un brano troppo difficile da capire, lento nella sua progressione e, quindi, un po’ noioso ed inconcludente. Decisamente più accattivante “Haxprocess”, dove, ancora una volta, sono le chitarre classiche a farla da padrone, dando linfa ad un bel lento dotato di stupende melodie, a volte lente e riflessive, altre volte più velocizzate e dinamiche, ma sempre dotate di gran classe e di una spiccata vena settantiana. Il brano, nonostante la sua lentezza e i suoi vari cambi d’atmosfera, risulta davvero valido e composto in maniera impeccabile. Una lunga ed onirica sequenza d’arpeggio chiude questi sette imperdibili minuti di delicatezza targata Opeth. Da segnalare l’impeccabile lavoro di basso del bravissimo Martin Mendez. Le visioni musicali più distorte e schizoidi di Åkerfeldt prendono forma negli otto minuti di “Famine”, brano alquanto pretenzioso e di lenta comprensione. Difficile descrivere un brano del genere, dove una prima sognante parte di pianoforte, coadiuvata dalla calda voce del singer, lascia presto spazio a dei riff prog-rock allucinati e totalmente fuori da ogni schema, comprese incursioni di flauto sullo stile di Ian Anderson (Jethro Tull). I numerosi e sconnessi cambi d’atmosfera complicano l’assimilazione di un brano decisamente atipico ed estremamente eterogeneo. Ogni giudizio diventa soggettivo: c’è gente a cui piacerà da impazzire, c’è gente a cui non piacerà affatto. Altro controverso brano a firma di Åkerfeldt. “The Lines In My Hand” rialza il tiro aggiustando la rotta, con una song breve ma ispirata, con le consuete chitarre classiche a dettare arpeggi di notevole spessore. Entrano lievi distorsioni a disegnare una canzone dai toni particolareggiati, a metà tra un hard rock “deep-purpleliano” ed un atmosfera simil-orientaleggiante. Molto bella la parte finale, più aggressiva e vigorosa. Brano molto piacevole e sorprendente. “Folklore” è un’altra lunga perla di questa indecifrabile uscita discografica. Per circa otto minuti veniamo accompagnati da bellissime e soffici melodie arpeggiate, su un tappeto di hammond ed atmosfere settantiane. Una chitarra acustica ci introduce alla parte finale del brano, dotata di una saltellante sezione ritmica, facente da solida base per un incedere melodico ed atmosferico, con voce di Åkerfeldt e cori in lontananza che ci conducono verso il fade-out finale. Ottima la prova solista di Fredrik Åkesson. “Folklore” è un brano davvero notevole, in grado di stupire per cotanta capacità inventiva, annoverandosi tra i migliori di Heritage. Conclusione affidata all’atmosferica e morbidissima closer “Marrow Of The Earth”: sono le chitarre a parlare, a dettare l’emozione che solo gli Opeth riescono a regalare con i loro meravigliosi arpeggi e con le loro favolose malinconiche melodie. Niente voce, niente distorsioni. Entrano in seguito batteria e tastiera, sempre all’insegna della delicatezza, portando questo piccolo gioiello della musica alla sua conclusione. Il giudizio altalena tra alcune song valide ed altre meno. Ma quando sono valide, il capolavoro è sempre il giusto epiteto per suggellare ciò che esce dalla penna dei magici Opeth.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

La qualità c’è, l’eleganza e la classe pure. La tecnica è palpabile, così come l’ottima composizione. Verrebbe da chiedere cosa manca a questo Heritage per essere ascritto come un altro dei capolavori della band. Finora, solo il death-oriented Delivarance (2002) ha subito la stessa sorte, ovvero quella di essere considerato un valido lavoro, ma non all’apice dei rimanenti masterpieces. Ma qui l’intento è diverso fin dal principio, perché diversa è la musica che gli Opeth hanno provato (o meglio, rischiato) di proporre. Il mio personale consiglio, da fan sfegatato della band in questione, è quello di non soffermarsi ad ascoltare brevemente Heritage, per poi screditarlo in una manciata di pareri negativi, ma di coglierlo attimo dopo attimo, per capirne l’anima e l’essenza, partendo già con l’idea che qui dentro vige qualcosa di insolito rispetto alle consuete mega-suite di death progressivo. Ciò che esce e si impone è il lato più jazz e sperimentale, che affonda le radici nel prog-rock d’annata. Mikael Åkerfeldt sfoggia clean vocals calde e sentimentali, ripudiando, per l’occasione, il catacombale growl degli estri death. Le chitarre sussurrano decadenti e melanconiche armonie, fenomenali nei loro intrecci melodici, con i buoni interventi solisti dell’ex-Arch Enemy Fredrik Åkesson. La batteria del “timido” Martin Axenrot vola leggiadra su bizzarri tempi spesso jazzati, il bass-man Martin Mendez conferisce, come sempre, quel qualcosa in più alla completezza delle partiture Opethiane, ed infine le stesure tastieristiche, divise tra il dimissionario Per Wiberg e la new entry alle keys Joakim Svalberg, sottolineano con decisione l’anima prog-rock del disco, senza necessità di stupire in eccessi virtuosistici. Ripeto allora, cosa c’è che non va? E’ forse la copertina, in perfetta linea con lo stile “vecchio” del disco? No, anche quella è ricca di colori e dettagli. Particolare, anche se non eccezionale. E’ la produzione? Figurarsi, perfetta anche quella per il contesto. E’ semplicemente il fatto che qualche brano non funziona a dovere. Le canzoni, oggettivamente parlando, spesso non sono amalgamate con la solita maestria che contraddistingue la band svedese. Sono costretto a ripetermi: è un disco da capire, che possiede un suo perché. Io agli Opeth perdono tutto, anche qualche piccola svista all’interno di Heritage, un’opera valida e sufficientemente gustosa. Ma allo stesso tempo auspico un ritorno ai bei tempi dei maestosi Morningrise o Blackwater Park. Intanto, appuntamento  all’Alcatraz il 24 Novembre…


Tracklist:

01. Heritage
02. The Devil’s Orchard
03. I Feel The Dark
04. Slither
05. Nepenthe
06. Haxprocess
07. Famine
08. The Lines In My Hand
09. Folklore
10. Marrow Of The Earth


Voto: 7,5/10

lunedì 14 novembre 2011

SYMPHONY X - Iconoclast


Aggressività e precisione, sinonimi di “Symphony X”...

Nome Album: Iconoclast
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 17 Giugno 2011
Genere: Progressive Metal

Introduzione:

Una delle band più influenti della scena prog metal mondiale risponde al nome dei grandissimi Symphony X, band attualmente molto popolare tra il pubblico metallaro globale. Infatti dalla loro esplosione musicale nei primi anni novanta, per la band americana è stata tutta una parabola discendente, un percorso fatto di album perfetti, gioielli di progressive metal, ovviamente tecnico, precisissimo e dotato di una inconfondibile nonché fondamentale caratteristica: un sound potente ed accattivante. Insomma, questo prog, ultimamente molto votato ad un graffiante heavy/thash/power, ha fatto la fortuna della macchina chiamata Symphony X, superando in più di un’occasione i ben più noti colleghi Dream Theater, a livello di songwriting (per quanto riguarda l’aspetto esecutivo, forse la band di Petrucci resta al primo posto). Da tutti i fan del quintetto d’oltre oceano, era da tempo atteso il nuovo lavoro, questo Iconoclast: un album che fin da subito ha dovuto fare i conti con un grosso peso, ovvero quello di essere il successore di Paradise Lost (2007), un album pressoché perfetto, amato dai fans e critica, tanto da poter essere considerato, nonostante un appesantimento del suono, uno dei lavori migliori della band (assieme, indubbiamente, a vecchie pietre miliari come The Divine Wings Of Tragedy, gemma del 1997). Giusto per giocare a carte scoperte, diciamo subito che Iconoclast, non è Paradise Lost. E’ un album certamente ottimo, ancora una volta ricco di dettagli e giochi strumentali da brivido, ma incapace di raggiungere l’apice musicale ed emotivo del suo acclamato predecessore. Poco importa comunque, perché la qualità è veramente alta, ed i nostri dimostrano come sempre di essere in grado di unire le influenze più progressive con i titanici groove/thrash riffs chitarristici ad opera del guitar-hero Michael Romeo, e i risultati sono spesso sbalorditivi. L’unico neo di questo lavoro è forse rappresentato da un’eccessiva prolissità dei brani: canzoni così colme e dal suono così pesante ed elaborato, tendono forse a deconcentrare l’orecchio dell’ascoltatore, una volta giunto ad un certo punto della tracklist. E’ per questo motivo che, come si può immaginare, Iconoclast richiede più ascolti, oppure un ascolto a piccole dosi, per essere apprezzato fino in fondo in tutta la sua complessità artistica. Nonostante qualche brano non sia eccellente, si tratta di un altro indubbio centro per i Symphony X, non lasciatevelo scappare…


Track By Track:

Il nuovo lavoro degli X inizia subito alla grande con un’ottima title-track. “Iconoclast” è un lungo brano che si aggira sui 10 minuti di durata, introdotto da virulenti giochi virtuosistici in grado, fin da subito, di trasportarci nell’estro musicale propostoci dal gruppo, attraverso sfarzosi capogiri in pieno stile progressive metal, partiture più operistiche ed evocative e melodici refrains. “Iconoclast” è il brano simbolo dei Symphony X del 2011, ricco di sfumature da scoprire adeguatamente. Superba la parte centrale, con progressioni accompagnate da interventi coral-sinfonici ed assoli di chitarra e tastiera. Il viaggio ha avuto inizio! L’album ritaglia lo spazio per un’altra ottima song, “The End Of Innocence”, dotata di riff di stampo thrash, dal tiro metallico assicurato, e di un bellissimo solo di chitarra. Torna la melodia con il bel ritornello, dove gustiamo la buona prova di Russen Allen dietro al microfono, sempre in bilico tra canto melodico e timbro più sporco (mai growl propriamente detto). Forse la song più orecchiabile e di più facile assimilazione di tutto l’album. Altri ritmi groove-thrash sincopati caratterizzano la seguente “Dehumanized”, una buona song, aggressiva quanto basta, ma non eccezionale nelle scelte melodiche. Restano sempre ottime le prove dei singoli musicisti, ma manca quel qualcosa in grado di catturare doverosamente l’attenzione dell’ascoltatore. Va già molto meglio con la seguente “Bastards Of The Machine”, il brano più corto di Iconoclast (sfiora i 5minuti), dove, finalmente, i nostri posano un piede più pesante sull’acceleratore, regalandoci un buon brano nel pieno stile dei Symphony X più recenti, veloce e dotato di un gran tiro, grazie agli onnipresenti ritmi groove e saltellanti che caratterizzano il loro sound. Eccezionale l’accelerazione sull’assolo di chitarra ed il seguente duetto chitarra-tastiera. Un brano che riesce a farsi sentire e ad essere ricordato per la sua carica ed immediatezza. “Heretic” si apre con alcuni ottimi riff di chitarra, alternando una veloce strofa con un melodico bridge che sfocia in un refrain che, come “Dehumanized” punta maggiormente all’aggressività dei riff piuttosto che a soluzioni melodiche ricercate. Abbiamo così tra le mani un brano thrasheggiante e cupo, dove è la chitarra di Romeo a far da padrone a suon di riff pesanti e solos, fulminanti per precisione e velocità d’esecuzione. E’ il momento di un altro buon brano di Iconoclast, ovvero “Children Of A Faceless God”: i ritmi si fanno più lenti, accompagnando riffs alla Pantera, carichi di groove. Da una strofa dotata di toni grigi e cupi, il brano tocca il suo punto di forza con il ritornello, lento, melodico e malinconico. Le accelerazioni a metà brano, con un ennesimo superbo assolo ad opera di Romeo, sono perfette per non disperdere troppo l’attenzione del nostro padiglione auricolare. Il seguito è affidato ad un attacco di metallo a profusione chiamato “Electric Messiah”, brano che, in maniera assolutamente vincente, torna a velocizzare i ritmi, eccezion fatta per il bellissimo refrain, ancora una volta rallentato e più melodico rispetto al resto del brano. I vari riff, come sempre molto thrash-oriented, potenti e graffianti, godono di maggiore freschezza rispetto ad alcuni precedenti episodi dell’album, mentre i solos di chitarra e tastiera risultano forse meno ispirati di altri, ma, sia chiaro, sempre di indubbio valore virtuosistico. La penultima “Prometheus (I Am Alive)”, fin dall’incipit, dotato di tempi dispari e sincopi, sembrerebbe tirar fuori l’anima più progressiva dei Symphony, ed in effetti, nonostante alcune sfuriate più tipicamente metalliche (tra cui una strofa piuttosto monotona), il resto delle soluzioni adottate ha un mood maggiormente ricercato e più progressivo. Tutto questo, tuttavia, fa scemare l’attenzione, poiché il brano non riesce a decollare come dovrebbe (dopo sette canzoni altrettanto pretenziose è anche comprensibile), risultando, a mio avviso, l’episodio meno riuscito di Iconoclast. Il finale è tutto dedicato al brano più bello e più riuscito dell’album, la semi-ballad “When All Is Lost”: pianoforte, archi e voce introducono un vero gioiello di musica che si propaga per 9 minuti di durata, senza stancare neanche un secondo. Bellissimo ed emozionante il refrain, come da sempre i Symphony ci hanno abituato, in linea con ballad-capolavori come “Accolade II” (su The Odissey) o l’immensa “Paradise Lost” (sull’album omonimo). Azzeccatissima e toccante l’incursione di prog-rock a metà brano, con tanto di hammond e chitarre acustiche a seguito che creano, assieme agli archi, una calda atmosfera. Menzione d’onore per come la band ha saputo unire sapientemente partiture accelerate e metalliche con altre più lente e malinconiche. La voce di Russen conclude delicatamente questo superbo brano ed un album sicuramente valido e meritevole.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Ed anche per i Symphony mi ritrovo a dover riempire, quasi inutilmente, questo piccolo spazio dedicato all’aspetto tecnico delle composizioni. Dico inutile poiché, anche per il quintetto americano, la tecnica esecutiva è sempre stata una componente fondamentale, ma mai fine a sé stessa. L’aspetto tecnico è al servizio di una musica che affonda le radici nel sound classico, fondendo sapientemente il power con sempre più numerose incursioni thrasheggianti e sempre meno orientate al versante neoclassico. In altre parole, gli X hanno abbondantemente appesantito la proposta, senza mai mancare di carica e d’inventiva. Iconoclast è qui per dimostrarlo. Non sprecherò parole per descrivere le capacità dei singoli musicisti, innegabilmente di indubbio spessore artistico. Cito solo il chitarrismo virtuoso ed impeccabile del leader e songwriter Michael Romeo, autentica macchina-sforna riff e funambolico protagonista dell’album, con solos sempre ricercati e mai banali, ed il lavoro vocale del frontman Russen Allen, ormai sempre più orientato, con buoni risultati, verso una dimensione più aggressiva e meno pulita (forse anche in virtù del “nuovo” stile della band), senza peccare in estensione vocale. Le prove di Michael Pinnella alla tastiera e di Michael Lepond e Jason Rullo alla sezione ritmica sono impeccabili e di gran classe. La produzione è potente e cristallina, come è lecito aspettarsi, ed una immagine di cover certamente significativa per i testi (uomini e macchine, giusto per sintetizzare), ma non eccelsa, corona il tutto. Questi ingredienti convergono tutti in un album naturalmente complesso, tecnico e metallico, ma, pur restando su alti livelli, anche un po’ meno incisivo ed attraente rispetto al passato. Poco importa comunque, perché i Symphony X del 2011 sono una band che mantiene ancora alta la propria bandiera, senza deludere le aspettative. O almeno non tutte.


Tracklist:

01. Iconoclast
02. The End Of Innocence
03. Dehumanized
04. Bastards Of The Machine
05. Heretic
06. Children Of A Faceless God
07. Electric Messiah
08. Prometheus (I Am Alive)
09. When All Is Lost


Voto: 8/10