domenica 25 settembre 2011

DREAM THEATER - A Dramatic Turn Of Events


Stravolti dai cambiamenti…in meglio.

Nome Album: A Dramatic Turn Of Events
Etichetta: Roadrunner Records
Data di uscita: 13 Settembre 2011
Genere: Progressive Metal

Introduzione:

Sembra incredibile come i Dream Theater siano divenuti, negli ultimi tempi, il caso mediatico più seguito in tutto il mondo metal. Diciamocelo, da un anno a questa parte non si è fatto altro che parlare di loro. Che sia per lo scioccante abbandono di Portnoy, per la soap-opera che ci hanno propinato negli ultimi mesi per il fatidico cambio di batterista, che sia per il nuovo materiale in arrivo, ognuno ha avuto di cui dire, ridire, criticare, osannare, denigrare e via dicendo. E quindi eccoci qui, con questo nuovo A Dramatic Turn Of Events tra le mani. Che ne sia valsa la pena sorbirci tutta la precedente diatriba giornalistica? Beh…basta dire che probabilmente i DT non costruivano un album così valido dal lontano Train Of Thought (2003). Non mi permetterei ad azzardare ipotesi troppo scomode, ma direi che il cambio di rotta intrapreso dalla band (mi riferisco al cambio dello storico drummer e fondatore\mattatore Mike Portnoy con il superbo Mike Mangini) ha giovato non poco alla musica del quintetto. Certo, è ancora presto per poterlo dire, poiché bisognerà aspettare il futuro per sapere con quale avidità Mr.Mangini porrà le proprie mani sulla composizione, ma, per una volta, ammetto, è bello non sentire l’ingombrante batteria di Portnoy che nell’ultima decade ha spesso preso piede sulle singole canzoni, prevaricando su armonie e melodie, rendendo tronfia e pesante la proposta degli americani. Quindi è bello sentire un album forse più melodico e meno impostato sui tecnicismi esasperati, completo, ricco di sfumature variegate, ricco di pathos musicale, di gran classe. Un album che comunque, per dovere di cronaca, suona al 100% DT. Non ci sono grosse novità stilistiche al suo interno, rispetto alla consueta proposta del gruppo, ma la volontà di reiterare un certo mood del passato, lo porta a pescare spesso e volentieri atmosfere da quei capolavori quali Images & Words (1992) e Scenes From A Memory (1999), gli album più belli e più melodici in assoluto della band, in cui i DT raggiunsero livelli di creatività difficilmente ripetibili. ADTOE è un album dove, quindi, predominano la melodia e l’atmosfera di chitarre e tastiere, dove la batteria finalmente è meno accentuata, sia nei volumi che nelle composizioni, e che rappresenta un importante spartiacque per la più grande prog metal band al mondo. Non me ne abbia a male Portnoy, che resta sempre un ottimo batterista ed un gigante dello strumento, ma probabilmente il suo zampino avrebbe portato, ancora una volta, ad un disco comunque buono, ma prolisso e ponderoso. Attenderemo l’esito di Mr.Mangini nel songwriting, ma intanto suggerisco a tutti di godersi questo fortunato ritorno, finchè, nel frattempo, continua indisturbata la saga/telenovela mediatica Portnoy VS Dream Theater…


Track By Track:

Già da vario tempo prima della pubblicazione dell’album era stata rilasciata su Youtube “On The Backs Of Angels”, singolone dai toni altisonanti ed ottimo brano di apertura di ADTOE, riproposto anche dal vivo nel mini-tour “A Night With Dream Theater” con Gamma Ray ed Anathema. Il brano in questione presenta una struttura molto simile a “Pull Me Under” (cavallo di battaglia datato ’92) ma, allo stesso tempo, gode di un’atmosfera lugubre ed oscura già a partire dall’introduzione acustica, che esplode poi in un riff in cui si affollano maestosi tappeti corali. Una classica strofa sincopata ed un ritornello lento ed ammaliante costituiscono i cardini di una canzone forse non subito immediata, ma riuscita e perfetta nel presentare i “nuovi” DT. L’ottimo assolo di Petrucci si snoda su un impianto melodico tutt’altro che asettico, aggiungendo valore al brano. Beat elettronici, introduzione vicina al nu metal, e già con “Build Me Up, Break Me Down” i toni cambiano, presentandoci una canzone che, in fin dei conti, risulta discreta se confrontata con il resto della tracklist. I ritmi si fanno quindi lenti e di stampo alternative, con un perfetto groove assicurato nelle strofe, e il ritornello sfocia in grandi melodie accompagnate da un lieve sussurro sinfonico. Bellissima l’inquietante parte intermedia con cori, organi ed un altro assolo di Petrucci dalla grande caratura. La lunga coda sinfonica finale ci introduce a quello che, indubbiamente, è il brano più controverso di tutto l’album, nonché quello più vicino alle produzioni più recenti, ovvero “Lost Not Forgotten”. Non fatevi ingannare dall’introduzione pianistica: non si tratta di una ballad, anzi. Nei dieci minuti della sua durata si sente di tutto, dall’introduzione che omaggia alla grande l’intramontabile “Under A Glass Moon”, a riff pesanti e sincopati nella strofa (fa capolino il sentore della recente “A Rite Of Passage”), con alcuni spezzoni di tecnicismi esasperati classici del sound moderno della band. Il discreto ritornello in doppia cassa, i numerosi stacchi tecnici e la sua particolare strutturazione, ne fanno un brano riuscito solo a metà, meno immediato dei restanti, senza nulla togliere alla parti melodiche, con annesso assolo di Petrucci, sempre ottime e di qualità. Segue un grande pezzo, la ballad “This Is The Life”, su musica interamente di Petrucci. Dinamico e coinvolgente, questo brano strappalacrime ha dalla sua parte momenti davvero toccanti, come solo i Dream Theater sanno fare con i loro lenti. Anche il testo sprigiona belle parole di speranza. Confrontandole con le grandi ballad del passato, “This Is The Life” non ha nulla da temere contro “Another Day” o “The Spirit Carries On”: risulta un eccellente pezzo carico di emozioni, alla faccia di chi addita i DT come band fredda e dedita al puro tecnicismo fine a se stesso. Balle, sentire per credere. Suoni oscuri, cori soffusi ed evocativi, un eco lontano di uno sciamano: è il momento di uno dei migliori brani dei DT del nuovo millennio, ovvero “Bridges In The Sky”, che si distende per 11 minuti attraverso ottimi momenti di progressive metal. L’aggressiva introduzione richiama la pesantezza sonora degli ultimi dischi (Train Of Thought su tutti), ma ben presto LaBrie ci conduce deciso in un refrain melodico in crescendo, e dopo un valido intermezzo con Petrucci e Ruddess assoluti protagonisti a suon di assoli, il brano raggiunge l’apice dell’espressività nei minuti finali, grazie anche ad un ispirato LaBrie, capace ancora di emozionare. Ancora un brano lungo (del resto, negli anni i DT ci hanno abituati a questo) con “Outcry”: impostato su melodie lente ed evocative, si snoda tra riff più aggressivi ed un refrain pregno di pathos. Spiace dirlo, ma stavolta il lungo intermezzo zeppo di tecnicismi, non rende assolutamente e pare che molti pezzi al suo interno non abbiano collegamento l’uno con l’altro. Ciò fa perdere il filo logico del brano stesso, in cui probabilmente, una maggior riduzione sul lato virtuosistico avrebbe giovato non poco all’economia del brano. Poco male, perché ci penserà una splendida tripletta a concludere questo buonissimo come back degli americani. “Far From Heaven” è una delicata ballad pianistica, lenta e struggente come poche. Pianoforte e violino assoluti protagonisti, in un crescendo memorabile ed emozionante. Come sempre, perfetto LaBrie nell’interpretazione, per un delizioso intermezzo destinato a chi apprezza la musica in tutte le sue forme. “Breaking All Illusions” si aggiudica la palma del miglior brano del disco e, come “Bridges In The Sky”, di una delle più belle composizioni dei DT dell’ultima decade. Contrariamente alle altre suite del disco, “Breaking All Illusions” si impone già dinamica e ricca di intrecci chitarristici e tastieristici davvero geniali e ricercati. Dopo questa introduzione, il ritmo si placa, trascinando il brano attraverso 12 minuti di puro prog metal “theateriano”. Delizioso il ritornello, il più bello dell’album, melodico e ricco di pathos atmosferico, emozionante ad ogni nota. Decisamente azzeccati anche i vari stacchi strumentali centrali, in particolare una bizzarra e divertente sezione di stop’n’go ed uno splendido assolo di Petrucci su un lieve tappeto progressive rock (con tanto di hammond in sottofondo). Inutile descrivere a parole un brano così ricco di dettagli e di sfumature stilistiche, lascio a voi l’emozionante ascolto. Come se non bastasse, i Dream si congedano con un ulteriore brano splendido, la terza ballad “Beneath The Surface”. Ancora una volta, la batteria non è presente, lasciando la scena a chitarre acustiche e soffuse orchestrazioni, che intelaiano una song dolce e cullante, grazie alle sue melodie pop (si…pop. Non vi fermerete ancora davanti a certi pregiudizi vero?!) e ad un LaBrie sussurrante ed ispirato. Provateci adesso a dire che i DT sono freddi e senza cuore. Una ballad estremamente piacevole ed emozionante quindi, con cui i DT ci salutano e ci invitano all’imminente tour di supporto all’album. Un grande ritorno di una band sempre validissima ed ancora in grado di stupire.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Credo che commentare le capacità dei singoli musicisti sia un’operazione piuttosto superflua, visto il costante bagaglio tecnico che la band si porta dietro da inizio carriera. C’è ben poco da aggiungere, se non che siamo in possesso di un album decisamente sopra la media degli ultimi standard. Certo, non tutti i pezzi sono totalmente appaganti o riusciti, ma, nel complesso, riuscire a costruire un’opera del genere non può che far meritare tutto il nostro rispetto. Un lodevole plauso va a Petrucci, a suo agio con assoli meno spietati e più melodici, sempre ottimi ed indirizzati verso indiscutibili abilità tecniche. Ruddess dietro al sintetizzatore è in grado finalmente di coprire il suo ruolo senza strafare con le sue spesso inutili trovate degli ultimi anni (il fastidioso continuum finalmente è stato drasticamente ridotto), regalando invece dei possenti tappeti sinfonico-corali pregevoli, nonché buonissimi solos e delle sempre ricche prestazioni al pianoforte. LaBrie pensa ai live shows e, giustamente, vuoi per l’età che avanza, vuoi per l’intervento alle corde vocali di parecchi anni fa, prosegue sullo stile vocale degli ultimi album, compresi i suoi lavori solisti: assenza di acuti, linee morbide ma con un pizzico di aggressività in più nel proprio timbro, tonalità spesso medio-basse. Ciò non toglie assolutamente vigore ai brani, rimanendo infatti un ottimo interprete (e comunque, sappiamo bene che dal vivo riesce a dare il meglio anche sui brani più datati). La sezione ritmica è lasciata un po’ in disparte nel mixing finale. Una scelta voluta e decisamente azzeccata, per dare più spazio a melodie ed atmosfere a scapito di virtuosismi esagerati e ritmiche troppo ingombranti. Nonostante ciò, dando la dovuta attenzione, si potrà notare l’ottimo lavoro al basso di John Myung e alla batteria della new entry Mike Mangini. Non esaltante ma come sempre enigmatica è l’immagine di copertina, in classico stile DT (stesso disegnatore), il cui significato richiama, assieme alle liriche dell’album, il disequilibrio dell’uomo sulla corda, il rischio di cadere ben presto nella follia del progresso, o meglio, del “degresso”. Trasponendo il tutto in una chiave di lettura leggermente diversa, su quella corda i Dream Theater ci sono ancora, capaci di tener fede al valore delle proprie idee e della propria musica (occhio, quest’ultima frase è un po’ “prog”).


Tracklist:

01. On The Backs Of Angels
02. Build Me Up, Break Me Down
03. Lost Not Forgotten
04. This Is The Life
05. Bridges In The Sky
06. Outcry
07. Far From Heaven
08. Breaking All Illusion
09. Beneath The Surface


Voto: 8/10

giovedì 15 settembre 2011

FREEDOM CALL - Live In Hellvetia

- - - Recensione Live DVD - - -


Titolo: Live In Hellvetia
Data di pubblicazione: 14 Giugno 2011
Etichetta: Spv – Steamhammer
Genere: Power Metal
Contenuti: Live show, documentario.

Recensione:

Freedom Call: una band amata, odiata, goliardica, portabandiera di quel tanto bistrattato movimento chiamato Happy Metal. Fondata alla fine degli anni ’90 dal batterista dei Gamma Ray, Daniel Zimmermann, e il polistrumentista Chris Bay, insultata o meno, questa formazione tedesca è riuscita, negli anni, a ritagliarsi uno spazio cospicuo ed importante nel movimento power europeo. La musica dei Freedom Call non è mai stata messa in risalto per chissà quali capacità tecniche sopra la media, ma ha sempre puntato su degli arrangiamenti curati e ben fatti, su delle linee melodiche piazzate al posto giusto e su ritornelli non distanti dall’essere epici inni di battaglia (in questo, ha aiutato molto l’uso di particolari suoni di brass section/trombe, danti un senso epico e belligerante alla proposta musicale del combo).
Dopo ormai 6 album in studio, i nostri ritornano sul mercato con un secondo live, questa volta anche in formato DVD. Il live appena menzionato fu il solo parzialmente riuscito “Live Invasion”, dove i tedeschi si erano limitati a riprodurre in modo precisino, ma piuttosto scarno ed asciutto, le vecchie canzoni, senza mostrare troppa grinta on stage. A fronte di anni di live shows e dell’esperienza maturata, questo nuovo prodotto si distanzia molto dal suo predecessore, regalandoci una buonissima prova del combo sotto ogni punto di vista: suoni, grinta, tecnica, precisione. Balza subito all’occhio la mancanza del drummer-fondatore Daniel, rimpiazzato in seguito alla sua dipartita per difficoltà nel seguire tutte e due le band (Gamma Ray e Freedom Call), ma ne converrete che anche col nuovo entrato Klaus la formazione gode di ottima stabilità ed intesa, dandoci l’impressione di essere di fronte ad un gruppo finalmente serio e professionale.
La location scelta per le riprese è un piccolo locale svizzero di Pratteln, il Z7, tappa eseguita il 29 Dicembre 2010, durante il tour di supporto all’ultimo discutibile album Legend Of The Shadowking (link recensione: http://recensionimetalfil.blogspot.com/2010/12/freedom-call-legend-of-shadowking.html). Pertanto, la band pesca inevitabilmente parecchie tracce dal suddetto platter e, perlomeno, ci rendiamo conto di come rendano decisamente meglio dal vivo rispetto alla prova su disco. Oltre a ciò, il resto è un viaggio attraverso tutte le uscite del combo (escluso l’EP Taragon), riprendendo i pezzi più riusciti della carriera della band.
Si accendono le luci; una scenografia minimale sullo sfondo (un classico telone con il logo della band); dopo qualche breve sinfonia introduttiva, la partenza alla grande è affidata ad un’epica e fiera “We Are One”, e già dalla prima traccia ci troviamo di fronte a dei suoni potenti e ben bilanciati nel mixing. Il pubblico (i “Callers”, così chiamati dallo stesso Bay durante lo show) non manca di far sentire il proprio affetto per i quattro tedeschi, anche se occorrerà qualche traccia di riscaldamento affinché il pubblico e la stessa band si sciolgano a dovere. La minimale batteria di Klaus Sperling (ex batterista di My Darkest Hate ed ex militanza anche nei Primal Fear) non fa rimpiangere il suo fondatore/predecessore Zimmermann (tecnicamente più completo nei ben più famosi Gamma Ray) e durante tutto lo show la sua prestazione si rivela, certamente, precisa e completa, ma sindacale, senza essere in grado di spiccare troppo (del resto, la musica stessa dei Freedom Call non si è mai basata su ritmiche particolarmente ricercate).
Il resto dello spettacolo è affidato a canzoni perfettamente eseguite e coinvolgenti. Su tutte spiccano la autoreferenziale “United Alliance”, con la prima partecipazione del pubblico, “Thunder God” che finalmente on stage gode di una meritata ed efficace resa, la mazzata melodic-speed “Out Of The Ruins” (una delle più riuscite), la doppietta “Merlin” e la divertentissima “Warriors”. Nella parte finale dello spettacolo assistiamo al maggior coinvolgimento da parte dei “Callers”, grazie a brani folkeggianti ed allegri come “Far Away”, l’helloweeniana “Mr. Evil”, la stupenda “Land Of Light” (il pubblico è in delirio!) o il primo bis con uno dei ritornelli più belli della band, “Freedom Call”
Nonostante il locale piuttosto limitato, in quanto a dimensioni (1500…2000 persone?), Bay e soci sono sicuri dei propri mezzi e danno vita ad un ottimo spettacolo di power metal suonato in maniera professionale ed impeccabile, senza rinunciare al divertimento, su cui i Freedom Call hanno costruito un’intera carriera. Buonissime le prove dei singoli musicisti: oltre al già citato Klaus (autore anche di un discreto drum solo), Chris Bay regge bene vocalmente le due ore di concerto, dilettandosi anche al pianoforte in più di un’occasione; Lars Rettkowitz alla chitarra svolge un lavoro abile e sicuro, e Samy Saemann si dimostra bassista abile e preparato. Ben studiati ed efficaci sono anche i controcanti. Il pubblico apprezza e dimostra il proprio encomiabile affetto verso i quattro musicisti, cantando tutti i ritornelli ed i vari intermezzi (ottima la scelta di esaltare il pubblico nel mix finale, rendendo più coinvolgente l’audio). Anche le inquadrature rendono giustizia ad ogni componente, risultando sufficientemente dinamiche. Nel DVD è presente anche un discreto documentario che illustra i vari momenti (alternandosi tra momenti di sanità e sana follia) della band durante il suddetto tour: carino ma non eccelso.
Insomma, il grande balzo professionale dimostrato in questi anni, rende Live in Hellvetia un ottimo lavoro da possedere per ogni “Callers” che si rispetti. Ovviamente, ne stia alla larga chi ha sempre disprezzato la band od un power particolarmente frizzante ed esageratamente “happy”: questo non sarà pane per i vostri denti. In attesa della nuova fatica, attualmente in fase di elaborazione, a voi i Freedom Call, allegri, divertenti, coinvolgenti e più liberi che mai.


Tracklist:

01. We Are One
02. United Alliance
03. Thunder God
04. Tears of Babylon
05. Blackenend Sun
06. Queen of My World
07. Out of the Ruins
08. Hunting High and Low
09. Drum Solo
10. Metal Invasion
11. Merlin – Requiem
12. Merlin – Legend of the Past
13. The Quest
14. Warriors
15. A Perfect Day
16. Far Away
17. Mr. Evil
18. Land of Light
19. Freedom Call
20. Hymn to the Brave


Voto: 8/10

martedì 13 settembre 2011

DEMONAZ - March Of The Norse


Quando un “Demone” vuol essere “Immortale”…

Nome Album: March Of The Norse
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 1 Aprile 2011
Genere: Viking Metal

Introduzione:

Stiamo per parlare di un personaggio noto, perlopiù, ai fans delle prime annate del black metal. Quello grezzo, satanico, privo di compromessi e, indispensabilmente, norvegese D.o.c. Tra questi gruppi dei primi anni ’90, ve n’era uno che sembrava esser più interessato al ghiaccio ed alla neve piuttosto che al satanismo consueto della suddetta scena. Erano (e sono) gli Immortal, band attiva ancora oggi, ma priva di un suo membro fondatore ormai dal 1997: l’ex-chitarrista Harald Naevdal, meglio conosciuto come Demonaz, che appunto in quell’anno fu costretto ad abbandonare la band madre e la chitarra stessa, a causa di una seria tendinite. Demonaz ha avuto modo, comunque, di esprimersi con gli stessi Immortal negli anni venturi, continuando a forgiare testi ed un prezioso supporto. Ma mancava qualcosa: per quest’uomo era necessario tornare ad esprimersi anche musicalmente ed in maniera più personale. Abbandonata la chitarra e conquistato il microfono, ecco che, dopo l’operato con la sua band (a nome Perfect Visions), il buon Demonaz dà alle stampe, in questo 2011, il suo primo lavoro solista, March Of The Norse. Musicalmente, quest’album è definibile come un incontro tra le atmosfere dei Bathory del primo periodo epico (da Blood, Fire, Death, per capirci) e la rudezza e potenza degli stessi Immortal. Tutto ciò si risolve in un coerente e fiero viking metal, dotato di epiche cavalcate dal tono certamente decadente ed oscuro, ma, al contempo, battagliero e sanguinolento. Nonostante certe idee siano di buona fattura, spesso si può notare come, in fin dei conti, l’originalità non regni particolarmente in casa Demonaz, rappresentando così una grave e costante pecca minante la comunque discreta musicalità dell’opera. Possiamo dare atto a Demonaz di aver voluto fortemente e giustamente ritornare sulle scene con una propria creatura, in seguito alla sfortuna che lo ha colpito con i compagni Immortal, e ciò porta a considerare quest’album come un lavoro semplice, diretto, nato con lo scopo di mettere in musica un’espressione libera, immediata e poco studiata. Questo è anche accettabile, ma sarà con i prossimi tasselli che il “cantautore” norvegese deciderà se la sua nuova creatura avrà davvero qualcosa di nuovo e sorprendente da dire. Il primo passo, nella neve del suo nuovo Blashyrkh, è stato mosso.


Track By Track:

Con l’introduzione “Northern Hymn” sembra di tornare indietro nel tempo, ai primi anni ’90, con un palese riferimento sonoro a Blood, Fire, Death del compianto Quorthon (Bathory). La chitarra acustica arpeggiata fa da sfondo ad un lugubre cantato malinconico, per non più di 50 secondi. Perfetta, dal punto di vista atmosferico, per introdurre il disco, quest’intro perde sul lato dell’originalità. Cercando il lato positivo, la possiamo intendere come un semplice omaggio al suddetto artista svedese (scomparso nel 2004) ma nulla di più. Partenza in quarta con “All Blackened Sky”, brano dall’incedere movimentato e marziale. Anche qui, il riferimento alle opere più epiche dei Bathory è chiaramente evidente, con tanto di cori “vichinghi” in sottofondo. Nonostante ciò, il brano scorre incisivo ed incalzante, anche grazie ad un riff thrash-oriented di ottima fattura nel refrain. Nemmeno la voce di Harald presenta particolari novità: sembra di sentire Abbath degli Immortal (ma guarda un po’ le coincidenze…), in versione leggermente più melodica, certamente, ma sempre con lo stesso stampo grezzo e soffocato, tipico del leader dei blackster “immortali”. La seguente title-track “March Of The Norse” è una song dal taglio più epico e battagliero, dotata di toni oscuri e melodie cadenzate, supportate da una ritmica incisiva, ma scontata. Una canzone, quindi, piuttosto discreta e nulla di più, che, nella sua brevità e nella sua scarna struttura, ci lascia un senso di incompiutezza. Non sembra nemmeno di cambiare traccia appena parte la seguente “A Son of The Sword”: stessa ritmica, stesso tempo, stesso accordo e stesso stampo melodico. Basta questo per capire che Demonaz non ha molta intenzione di variare la propria proposta, durante il corso dell’album. Si salvano il refrain, semplice e melanconico, ed il buon assolo centrale di chitarra, che riescono a dare un minimo di vigore ad un mood già piuttosto stanco e stantio. Ne risulta una song, tutto sommato, apprezzabile e ben digeribile. “Where Gods Once Rode” non sposta di una virgola i connotati ritmici del disco, ma, perlomeno, è in grado di donare un pizzico di brio in più, fin dalle prime melodie chitarristiche. Anche lo stesso Demonaz appare tentato da linee leggermente più melodiche, sempre controfacciate da una costante rudezza delle corde vocali. Un breve intermezzo acustico arpeggiato e con dei leggeri cori di sottofondo, spezza il ritmo, riprendendo le caratteristiche dell’intro dell’album. Il brano si dipana poi in assoli semplici e piuttosto anonimi fino alla chiusura. Niente da fare; alla fine, nemmeno questo pezzo riesce a risaltare. Neanche a dirlo, il ritmo e l’arrangiamento sono identici anche per la seguente “Under The Great Fires”, una lunga song di 6 minuti e mezzo che pare una continuazione delle song precedenti. Un po’ di speranza si intravede nella parte centrale, in cui spiccano anche dei solos particolarmente melodici ed armonizzati, in grado di riportare un minimo d’attenzione. Purtroppo, non bastano per controbilanciare l’esaustiva ripetizione dei pezzi. A questo punto la noia raggiunge un picco di saturazione. “Over The Mountains” di certo non aiuta, essendo anch’essa basata su strutture e ritmiche identiche ad altre già sentite nel corso dell’album. Qualche buona melodia, qualche buono spunto…ma tutto pare poco sviluppato e troppo stagnante. Un acustico breve e piuttosto insignificante intermezzo, “Ode To Battle”, apre la strada all’ennesima auto-citazione “Legends Of Fire And Ice”. Come avrete compreso, è inutile che vi parli della sezione ritmica, delle melodie, della struttura ecc…ormai avete capito l’andazzo generale. Anche qui troviamo qualche buona melodia ed un assolo finalmente degno di nota, il tutto coronato da un pezzo discreto e, a tratti, stuzzicante nel suo incedere, ma nulla di più di questo. La bonus track “Dying Sun” (nella varsione digipack) è uno strumentale scritto da Demonaz nel lontano 1998, riproposto oggi a conclusione di questo album. Almeno il ritmo cambia, trasformandosi dal consueto terzinato dei brani precedenti in un semplice mid-tempo. In questo ultimo tassello non compaiono chissà quali grandi idee, risultando anche piuttosto ripetitivo. Ci sono comunque qualche discreta melodia ed un pathos, a conti fatti, anche gradevole, ma il tutto volge verso un finale inconcludente, lasciandoci così l’amaro in bocca.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Il fatto di avere tra le mani un nome altisonante e, a suo modo, importante per un’intera scena musicale, non aiuta quindi a rendere degno di nota questo March Of The Norse. Insomma, conosciamo i connotati del classico viking metal senza compromessi, ma il nostro “demone” avrebbe sinceramente potuto sprecarsi un po’ di più, per trarne qualcosa di leggermente più appassionante e personale. Il coinvolgimento delle prime tracce lascia presto spazio alla noia, a causa di una sezione ritmica che pare scritta in 10 minuti senza un minimo di ritocco od arrangiamento. In questo, il batterismo di Armagedda ed il basso (praticamente inesistente) del leader degli Immortal Abbath non aiutano nell’impresa, proponendo uno scarso valore tecnico ed una precisione minima e sindacale. Lo stesso vale per le chitarre di Ice Dale, improntate su riff monotoni, identici a se stessi, anche se non mancano le occasioni di sentire qualche buon solo o qualche melodia azzeccata. Il vero problema, però, è il songwriting: Demonaz propone dei brani spesso stanchi, privi di spessore artistico e piuttosto statici nella loro costruzione. Non aiuta la voce dello stesso Demonaz, la quale, pur essendo adeguata al contesto sonoro da lui propostoci, risulta monocorde e, il più delle volte, decisamente inespressiva. Grezza e ruvida come una grattugia, soffre inoltre della spietata somiglianza con quella di Abbath, singer/chitarrista dei blackster Immortal. Il sound che fuoriesce dalla produzione è scarno, ma potente quanto basta, anche se dotato di un mixing approssimativo che fatica a mettere in risalto la sezione ritmica (probabilmente è una scelta voluta). In fin dei conti, un buon disegno di copertina ed un paio di canzoni riuscite non aiutano molto nell’ardua impresa di farci piacere quest’opera prima del singer norvegese. Demonaz ha peccato purtroppo di scarsa originalità e poca cura nell’estetica delle singole canzoni; do una sufficienza di incoraggiamento, con l’augurio che in futuro sia in grado di poter offrire qualcosa di più interessante e, soprattutto, vario. Ma per ora la cosa migliore da fare è tornare nel Blashyrkh…assieme agli Immortal. 


Tracklist:

01. Northern Hymn
02. All Blackened Sky
03. March Of The Norse
04. A Son Of The Sword
05. Where Gods Once Rode
06. Under The Great Fires
07. Over The Mountains
08. Ode To Battle
09. Legends Of Fire And Ice
10. Dying Sun (Bonus Track)


Voto: 6/10

venerdì 9 settembre 2011

EDGUY - Age Of The Joker


Buffoni, si…ma con gusto e carattere!

Nome Album: Age Of The Joker
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 29 Agosto 2011
Genere: Power Metal/Hard Rock
 
Introduzione:

Quattordici anni sono passati da Kingdom Of Madness, il primo album ufficiale della band di Fulda. Da allora, lo stacanovista ed infaticabile Tobias Sammet ha dato voce ed anima a ben 14 capitoli discografici, (tralasciando live, EP, raccolte, ecc…) tra Edguy ed Avantasia. Il percorso artistico intrapreso dalla band madre li ha portati, dopo una solida base di power metal tedesco e ruspante, di stampo happy-helloweeniano, ad approdare ad un gradevole hard rock dalle tinte power. Infatti, da Rocket Ride (2006) in poi, gli stilemi si sono fermamente adeguati a granitici mid-tempo dal suono moderno e pomposo, sempre accompagnati dalla riconoscibile voce del leader tedesco. Tornano dopo tre anni dall’amato/criticato Tinnitus Sanctus, decisamente l’album più controverso e più distante dalle linee del passato di questa band, ma contenente canzoni ad ogni modo validissime. Il nuovo parto concepito dal buon Tobi e compagni ha nome di Age Of The Joker. Ad un primo impatto, guardando titolo e la dirompente copertina, sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un deciso ritorno al passato, tanti sono i richiami a quello spartiacque che fu Mandrake (2001) lavoro intenso ed importantissimo per la band per l’agognato successo mondiale. Tuttavia, le attese vengono smentite, ascoltando questo nuovo lavoro. Delusione? Assolutamente no! Infatti Tobi & Co. riescono a regalare ai fans un ottimo prodotto, dove è, ancora una volta, il rock pesante a prevalere, dotato però di numerosissimi elementi di novità, che rendono il lavoro eterogeneo e godibile dalla prima all’ultima nota, con qualche leggero intoppo. Qui dentro c’è un po’ di tutto: epic, power, folk, rock, ballad, heavy metal, country, glam anni ’80… Insomma, siamo di fronte ad una piccola opera dal sapore intenso e ricca di sorprese. Tutto ciò a testimonianza del fatto che il buon Sammet gode ancora di ottima salute a livello vocale e di un’invidiabile vitalità nel songwriting, nonostante la presenza di qualche canzone non proprio azzeccata negli album più recenti di Edguy ed Avantasia. La passione è ciò che conta, e gli Edguy sono in grado di dimostrarla fino in fondo, soprattutto in sede live. Una band sana e ben ancorata, capace di divertirsi come un tempo, solo con la forza della propria musica, riuscendo al contempo a stuzzicare gli ascoltatori con brani sempre accattivanti e scintillanti: questo non è da tutti, in un sovraffollato mercato musicale come quello odierno, fatto di molti, se non troppi, burattini. Mettetevi comodi, il Joker è tornato.


Track By Track:

Il primo brano di Age Of The Joker, nonché primo singolo con annesso buffo videoclip, porta l’eloquente titolo di “Robin Hood”, un brano lungo ed epico, alla maniera degli Edguy: hammond e una ritmica serrata aprono le porte a riff incisivi e melodici, contornando un ritornello di gran classe, dalle melodie zuccherose ed ariose. Un intermezzo alla Iron Maiden, con tanto di organo e narrazioni, completa gli ingredienti di una song di facile presa e, in fin dei conti, dopo numerosi ascolti, stuzzicante, ma non eccelsa. I 5 burloni iniziano a fare sul serio solo con la seconda traccia, “Nobody’s Hero”: un riff incazzato apre i cancelli ad un veloce brano di stampo heavy metal, pur restando ancorato a fresche melodie nel bridge e nell’ottimo refrain. Su tutto, si snoda una graffiante performance dietro al microfono di Tobias, che dimostra di non aver perso smalto e potenza. Non abbiamo dubbi che tale song, grazie alla sua diretta semplicità, mieterà le sue numerose vittime durante gli show di supporto all’album. Uno dei momenti più riusciti (e anche più particolari) dell’album prende il nome di “Rock Of Cashel”, un mid-tempo divertentissimo, dai toni rock-folkeggianti, dotato di cori e melodie splendidi ed ariosi come pochi. Ancora uno spettacolare Tobias, accompagna un buon lavoro di chitarre ed un arrangiamento davvero ben fatto. Le cose si fanno ancora più interessanti nell’intermezzo dal sapore celtico, con un esaltante crescendo su binari felicemente folk. Impossibile resisterle, ascoltare per credere. “Pandora’s Box” rappresenta un altro riuscitissimo esperimento, grazie all’inserimento, in strofe ed intermezzo, di suoni di chitarre country-rock. La mente sobbalza a certi film western d’annata, con cui si sposa perfettamente il carisma di Tobi. Un’alternanza di riff hard rock e refrain aperti e sinfonici costituiscono questo ottimo mid-tempo, dove i pomposi cori sottolineano semplici, ma efficaci, melodie. Nonostante un assolo di chitarra non troppo esaltante e confusionario, abbiamo tra le mani un brano riuscito, degno dei grandi nomi dell’hard rock mondiale. Gli Edguy azzeccano un colpo dopo l’altro, e la seguente “Breathe” non è da meno, regalandoci un tocco di maggiore velocità. Il brano porta alla mente la vecchia “Out Of Vogue” (su Rocke Ride), forse per i suoni di sintetizzatore dal gusto ottantiano o per una simile impostazione/struttura. Questo buon brano di power metal, in pieno stile Edguy, non apporta nulla di nuovo al sound del gruppo, rappresentando,  tuttavia, un episodio gradevole ed accattivante, grazie alle sempre fresche melodie, soprattutto in bridge e ritornello. Leggero calo di stile, invece, con la successiva “Two Out Of Seven”: un ennesimo mid-tempo introdotto da un suono plasticato di tastiera, costituente una melodia degna di un videogioco anni ’90. Il brano, dotato di un testo spigoloso, è strutturato in maniera tipica, senza scomodarsi minimamente in arrangiamenti più ricercati, approdando ad un ritornello piuttosto scarno. Non è una song brutta o da evitare in tutto e per tutto, ma, in un contesto come Age Of The Joker, lascia un po’ spiazzati, questo si. Altra piccola sorpresa con “Faces In The Darkness” che, dopo un’introduzione acustica, ci travolge con un lento e pesante riff di chitarra alla Zakk Wylde. Strofa accattivante, riff da headbanging sfrenato, ritornello meno vispo, ma azzeccato nel contesto, costituiscono le fondamenta di questo brano. Buono, ma nulla di più, senza risaltare troppo in una tracklist ancora ricca di spunti. Ecco rispuntare il power d’annata con “The Arcane Guild”, up-tempo (finalmente!) accompagnato da un hammond, perfetto nelle gioiose atmosfere di uno stupendo ritornello. E’ proprio quest’ultimo a fare grande “The Arcane Guild”: un refrain su doppia cassa veloce, melodico e gioioso, con cori a dismisura, riporta inevitabilmente alla mente alcuni vecchi brani di stampo simile, rintracciabili in molte opere di Edguy ed Avantasia. Bellissimo anche l’assolo di chitarra centrale, a completamento di un altro highlight riuscitissimo. Introduzione acustica e melanconica, con un Tobias, come sempre, al massimo dell’espressività: è il momento di “Fire On The Downline”, uno dei brani più vincenti di Age Of The Joker e dell’intera discografia della band tedesca. Le tastiere richiamano tantissimo il suono di band hard rock anni ’80 (Tigers Of Pan Tang, Diamond Legs, Bon Jovi, Europe, Alice Cooper, ecc…) e l’intero brano ne ricava questa esaltante atmosfera. Come dichiarato dallo stesso Tobi: “spesso per fare un buon brano, invece di guardare avanti, basta dare un’occhiata indietro nel tempo”. Come dargli torto: il mid-tempo in questione ha davvero un gran tiro, grazie ad un ritornello azzeccatissimo, ruspante ed esaltante come non si sentiva da tempo. Come se non bastasse, gli Edguy ci spiazzano con un ulteriore ottimo brano, ambizioso e ben amalgamato, come “Behind The Gates To Midnight World”: trattasi di una lunga song dove, all’interno, possiamo apprezzare riff di stampo quasi thrash, melodie oscure ed oniriche, un vincente ritornello lento e melodico, quasi malinconico ed una splendida parte intermedia più dinamica e veloce, il tutto compattato in 9 minuti di durata di un brano sperimentale, progressivo e assolutamente di classe. Da dove Tobias tiri fuori tutte queste validissime idee, nessuno lo sa. Manca qualcosa…ma certo, la classica ballad! Gli Edguy, questa volta, la piazzano alla fine della tracklist ed “Every Night Without You” chiude in maniera non troppo originale ma,  sicuramente, piacevole quest’ottimo Age Of The Joker. La song in questione (una rock ballad semplice ed efficace), di stampo “bonjoviano”, riporta alla mente soprattutto la vecchia “Save Me” (Rocket Ride) per certi suoni acustici e per l’atmosfera in grado di emanare, avendo dalla sua parte melodie pop molto gradevoli, suggellate da un ritornello pomposo ed in crescendo. Il minutaggio si esaurisce nel cd player: a noi resta un sorriso di soddisfazione, proprio come il joker in copertina, perché notiamo, con immenso piacere, che gli Edguy trasmettono ancora emozioni positive, grazie alla forza del loro carattere e della loro passione. Semplicemente grandi.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Il grande punto di forza della band, inutile girarci troppo attorno, ruota attorno alla figura di Tobias Sammet, un compositore dotato spesso di ottime idee (in mezzo a qualche lieve scivolone), capace di dare il meglio di sè soprattutto in brani lunghi e strutturati (“Behind The Gates To Midnight World”, “The Pharao”, “The Wicked Symphony”, “Sacrifice”, “The Seven Angels” ecc…), o nelle romantiche e calde ballad (“Anywhere”, “Scarlet Rose”, “Thorn Without A Rose”, “Save Me”, “Land Of The Miracle” ecc…). La band si basa su pezzi spesso diretti ed intriganti, fatti di passione e tanto divertimento, perfetti per essere riproposti on stage, con l’adrenalina a mille. Scordiamoci,  quindi, tecnicismi fini a se stessi o arrangiamenti sopraffini. Come ogni buona rock band che si rispetti, anche i tedeschini di Fulda fanno fuoriuscire dai loro valvolari pezzi semplici, ma intensi e con carattere. Non è da meno questo AOTJ, dove però spiccano dei diversi e numerosi spunti maggiormente ricercati negli arrangiamenti, che rendono più interessante il complesso della tracklist. Ancora una volta, Tobias si dimostra un leader carismatico e vocalmente preparato. La sua voce guida il carrozzone con incisività e quel pizzico di aggressività positiva che rende il tutto più accattivante. La coppia d’asce Jens Ludwig (solista) e Dirk Sauer (ritmica) sciorinano solos e riff piacevoli e spesso molto intriganti, pur restando concisi al contesto “edguiano”, senze eccedere in complessità esecutiva. Anche la sezione ritmica creata da Felix Bohnke (drummer) e Tobias Exxel getta le solide e corpose fondamenta del sound caratteristico degli Edguy: in altre parole, svolgono il loro sporco lavoro, amalgamandosi nel sound, senza risaltare troppo. L’ottima produzione, ad ogni modo, rende giustizia ad ogni singolo strumento, senza allontanarsi troppo dalle produzioni degli ultimi dischi. In questo nuovo lavoro sembra sia lasciato più spazio a partiture di tastiera e campionamenti vari, donando atmosfere diverse ad ogni brano e rendendo, così, interessante l’ascolto. Dando uno sguardo alla copertina, notiamo come in passato la band sia stata in grado di proporre qualcosa di meglio, da tale punto di vista, ma è innegabile che quel joker sorridente e birbante riesca a strappare almeno un sorriso. L’artwork essenziale e comunicativo, quindi, ci conferma che è sempre la musica ciò che deve contare prima di tutto il resto. Quella musica forse ormai priva di una certa dirompente originalità, ma capace di contenere spesso e volentieri ancora molti emozionanti lampi di un piccolo, ma grande, genio chiamato Tobias Sammet.


Tracklist:

01. Robin Hood
02. Nobody’s Hero
03. Rock Of Cashel
04. Pandora’s Box
05. Breathe
06. Two Out Of Seven
07. Faces In The Darkness
08. The Arcane Guild
09. Fire On The Downline
10. Behind The Gates To Midnight World
11. Every Night Without You



Voto: 8/10