domenica 27 febbraio 2011

Live Report: RHAPSODY OF FIRE, Estragon (Bologna), 25-02-2011

Live Report – RHAPSODY OF FIRE
 (+ Visions Of Atlantis + Vexillum)
Estragon, Bologna, 25-02-2011


Nove anni sono passati dall’ultima esibizione in Italia dei nostrani Rhapsody Of Fire. Al tempo si chiamavano ancora Rhapsody, ed erano nel primo lustro della loro incredibile carriera, che li ha portat,i col tempo, a diventare una della band più apprezzate (e, ahimè, anche odiate) nel metal tricolore, riscuotendo un enorme successo anche all’estero. Non hanno certo bisogno di presentazioni questi 6 musicisti, che, dopo anni di stop per una causa legale contro il boss della Magic Circle Music (nonché bassista dei Manowar) Joey DeMaio, sono tornati sul trono del Symphonic Metal con “The Frozen Tears Of Angels” (link recensione: http://recensionimetalfil.blogspot.com/2010/11/rhapsody-of-fire-frozen-tears-of-angels.html), album fresco e potente come gli esordi, seguito subito dopo dal cinematografico EP “The Cold Embrace Of Fear” (link recensione: http://recensionimetalfil.blogspot.com/2010/11/rhapsody-of-fire-cold-embrace-of-fear.html). Non c’è che dire: un periodo d’oro per la band, pronta, come se non bastasse, a far uscire un nuovo album (“From Chaos To Eternity”) nei prossimi mesi, in chiusura della “The Dark Secret Saga”.
Nel novembre 2010 parte il tour di supporto, il “The Frozen Tour Of Angels”, con tappe che toccano tutto il globo, fino all’annuncio delle attesissime date Italiane: 25, 26 e 28 Febbraio 2011. I fans italiani sono in visibilio, attendono questo evento da moltissimi anni.
La location per la prima esibizione italiana è l’Estragon di Bologna. Io e i miei compagni di viaggio arriviamo alle 13 e 30 nell’immenso parcheggio del suddetto locale. L’afflusso di pubblico è molto scarso e lento, e lo sarà fino al tardo pomeriggio, pertanto questo ci permette, in tutta tranquillità, di poter scattare alcune foto con Patrice Guers (bassista), mentre si sollazza in un terrazzo fuori dal locale, e un Fabio Lione (voce) apparentemente fugace, ma poi disponibile per autografi e foto.
Tra vari panini, accompagnati da sorsi di birra, attendiamo in coda ai cancelli dalle 17. Questi aprono intorno alle 20 e 30, e dopo poco tempo di attesa (in cui il locale fa tempo a riempirsi a dovere), aprono la serata i VEXILLUM. Il power metal di questa band italiana è, in fin dei conti abbastanza canonico, ma ciò nonostante, nella scarsa mezz’ora di setlist a loro disposizione, sono in grado di regalare al pubblico italiano qualche buon ritornello e una buona dose d’energia. La miglior esecuzione della band per la serata è “Avalon”, brano epico e trionfale.
E’ il turno degli austriaci VISIONS OF ATLANTIS, band che ha all’attivo ormai 3 album (ed un quarto in via di pubblicazione). Ci pensano loro a scaldare a dovere il pubblico dell’Estragon, con dei brani di stampo Symphonic Metal, molto debitori ai ben più noti Nightwish, anche se la band austriaca gioca maggiormente sul contrasto voce maschile/voce femminile. Il quintetto ci sa fare, mostra una spiccata scioltezza e confidenza con il palcoscenico. La setlist riservata alla band è di circa 45-50 minuti: ottimi e coinvolgenti i primi brani (soprattutto “Seven Seas” e “At The Back Of Beyond”), ma a lungo andare inizia ad intravedersi un po’ di piattezza compositiva nelle successive canzoni (più di metà tempo viene impiegato per suonare brani dal nuovo imminente album “Delta”). Poco male, perché il pubblico è comunque sufficientemente caldo ed inizia a farsi sentire a suon di “fuori! fuori!”, inneggiando all’attesa band italiana, non appena i Visions Of Atlantis abbandonano il palco.
E giunge il momento fatidico: intorno alle 22, sulle note dell’intro “Dar-Kunor” entrano in scena i Mighty Warriors italiani RHAPSODY OF FIRE! Aprono subito le danze con la stupenda “Triumph Or Agony”, il pubblico è scatenatissimo, la band appare in forma assolutamente smagliante. Nel susseguirsi della scaletta, l’Estragon diventa un immenso coro, in ogni canzone Fabio Lione è accompagnato da un pubblico in estasi. Sinceramente, non mi è mai capitato di sentire un concerto con una partecipazione così intensa. I pezzi da novanta della carriera del combo tricolore si susseguono, dalle attesissime “Dawn Of Victory”, “Lamento Eroico”, “Knightrider Of Doom” (ripescando anche l’intramontabile “Land Of Immortals” dal primo “Legendary Tales”) alle nuove estratte dall’ultimo lavoro: “On The Way To Ainor”, e il singolo “Sea Of Fate”. C’è spazio anche per un buon assolo di batteria del fedele Alex Holzwarth, e per un esaltante assolo di basso di Patrice, sulla base della parte strumentale di “Sacred Power Of Raging Winds”. Le emozioni si susseguono ininterrotte, e dopo una superba “March Of The Swordmaster”, condita da un intermezzo in cui Lione fa cantare il pubblico, l’apice dell’esibizione è raggiunto dai successivi due bis: la nuova e sorprendente “Reign Of Terror” (eseguita alla perfezione, con un Lione indiavolato, tra impressionanti scream e clean vocals) e la degna conclusione che porta il nome di “Emerald Sword”, il brano più rappresentativo e famoso della band: il ritornello, ripetuto all’infinito, viene accompagnato dal pubblico ed è quanto di più emozionante si possa sentire ad un concerto metal. Il momento è estasiante, e nonostante sia passata ormai la mezzanotte, la stanchezza non si fa sentire e il pubblico è ancora caldo e presente, ora più che mai. Sulle note dell’outro “The Angels' Dark Revelation” (dall’EP “The Cold Embrace Of Fear”), calano le luci e si chiude questo magico e sorprendente concerto, all’insegna della (per chi scrive) miglior metal band italiana. I 6 musicisti rientrano infine sul palco per il classico inchino, sulle note di “Sea Of Fate” versione orchestrale, salutando il loro pubblico, che li ha accompagnati orgogliosamente durante tutto lo show. Speriamo di riaverli presto nel nostro paese, senza dover attendere altri 9 lunghissimi anni.
Da segnalare l’aspetto tecnico e scenico della band. A chi li taccia di essere solo una band da studio, a chi spara a zero su quanto suonino “di plastica”, a chi sentenzia che Turilli velocizzi gli assoli in studio e altre cazzate simili, dico solo una cosa: assistete ad un loro concerto di persona e, vi assicuro, capirete quanto vi state sbagliando. Lione è in ottima forma fino alla fine, non sbaglia un colpo, i suoi acuti sono perfetti, non vi è un solo calo di voce ed incita il pubblico a dovere. Turilli sweeppa come un pazzo, è uno spettacolo vederlo suonare, e pochissime sono le note fuori posto. Anche lui dimostra un inaspettato carisma e una presa incredibile sul pubblico. Il resto della band è un perfetto bilancio tra tecnica e carisma. Una band professionale insomma, che ci fa capire quanto sia valsa la pena attendere questi 9 anni per vederli suonare live.
E così si conclude questa splendida giornata, all’insegna della musica di qualità delle band d’apertura e della musica trionfale dei Rhapsody Of Fire, che donano all’Estragon un concerto  tanto atteso quanto indimenticabile, in ogni suo aspetto. Complimenti dunque a questi musicisti, che continuano, sempre meglio, a tenere alta la bandiera del metal tricolore.


Setlist:

01. Dar-Kunor (Intro) - Triumph or Agony
02. Knightrider Of Doom
03. The Village Of Dwarves
04. Sea Of Fate
05. Guardiani Del Destino
06. Land Of Immortals
07. On The Way To Ainor
08. Drum Solo
09. Dawn Of Victory
10. Lamento Eroico
11. Holy Thunderforce
12. Bass Solo
13. Unholy Warcry
14. The March Of the Swordmaster
15. Reign Of Terror
16. Emerald Sword


martedì 22 febbraio 2011

OPETH - - - Discography - - -

OPETH
Recensione della discografia.


Descrivere la musica degli Opeth è quanto di più difficile si possa pensare. Sulla carta, si tende a minimizzare la band svedese con la semplice etichetta di “progressive death metal band”. Si, gli Opeth sono questo. Questo e molto di più: la loro musica è poesia, ogni loro album è un viaggio attraverso lidi emotivi raramente riscontrati nell’enorme calderone dell’heavy metal. Ogni canzone trascende da ogni clichè imposto, da ogni regola prescritta, andando oltre tutto questo e regalando delle inimitabili perle di quella che è la musica vera, intesa come arte e come strumento di meditazione. Tutto questo trattato confusionario ed astratto per farvi intendere come sia difficile descrivere le note partorite dalla mente del genio Mikael Akerfeldt (chitarra, voce, mente e anima degli Opeth), e per farvi capire come in questi casi l’ascolto valga più delle parole. Sto parlando di una delle mie band preferite, è quindi normale che io celebri in questo modo una band che mi ha dato molto e che mi suscita ancora un sacco di splendide emozioni ad ogni ascolto. Non è una band per tutti, sono necessarie una buona predisposizione ed una mente musicalmente aperta per capire a fondo questi ragazzi svedesi, ma tante volte capita che sia proprio la loro musica a riuscire ad aprire le menti più ermetiche.

Line Up attuale:

- Mikael Åkerfeldt (Chitarra, Voce)
- Fredrik Åkesson (Chitarra)
- Martin Axenrot (Batteria)
- Martin Mendez (Basso)
- Per Wiberg (Tastiere)


ORCHID
(Anno: 1995; Durata: 65 minuti; Top Song: In The Mist She Was Standing; Voto: 8)

Il primo tassello della storia di questa immensa band. Un concentrato puro di emozioni, e la distesa delle prime importanti caratteristiche del sound tipicamente Opethiano. Il songwriting è molto influenzato dalla scuola death tanto cara al buon Mikael, ma è già pregno di melodie concretizzate da chitarre spesso armonizzate (Iron Maiden docet), su una base di batteria in doppia cassa terzinata. Ne risultano brani lunghi, colmi di stacchi acustici e ripartenze in pieno stile death metal europeo. Ancora oggi è impensabile non rimanere attoniti di fronte a brani come l’opener “In The Mist She Was Standing”, o “Forest Of October”. Il growl di Mikael è ancora piuttosto acerbo, e il pulito (poco presente su questo primo lavoro) necessita ancora di qualche anno per essere considerato un marchio di fabbrica del sound degli Opeth. Lievi difetti a parte, compresa una comprensibile produzione poco potente (che accompagnerà anche i due successivi album), questo LP non può mancare nella collezione di dischi di ogni fan appassionato. Una rara perla da possedere, ed un ottimo inizio a cui avvicinarsi per chi non conosce il mondo degli Opeth.


MORNINGRISE
(Anno: 1996; Durata: 65 minuti; Top Song: Black Rose Immortal; Voto: 8,5)

Le caratteristiche del primo disco vengono riprese invariabilmente nel secondo parto, un solo anno più tardi dal sognante esordio. L’atmosfera poetica ed onirica, le cavalcate in doppia cassa, le chitarre armonizzate e l’interscambio tra growl e clean rimangono elementi inalterati in quello che è considerato, da moltissimi, il capolavoro della band. Ognuna delle 5 tracce presenti, trasuda cattiveria e disperazione dai solchi death metal, intervallati sempre più sapientemente da stacchi acustici di pregevole fattura, che, inevitabilmente, riescono a trascinare l’ascoltatore in un vortice di emozioni sonore mai percepite prima di allora. Su tutti i brani, che splendono di un songwriting sempre più maturo, spicca “Black Rose Immortal”, forse uno dei brani più belli concepiti dalla mente di Akerfeldt: una suite di 20 minuti, ancora oggi la summa del pensiero Opethiano, rappresentato da un viaggio musicale intriso di passione e poesia. Altro highlight del disco è la conclusiva “To Bid Your Farwell”, una lunga ballad acustica (la prima della band), cantata interamente in clean vocals. Semplicemente, un capolavoro della musica.


MY ARMS, YOUR HEARSE
(Anno: 1998; Durata: 62 minuti; Top Song: Demon Of The Fall; Voto: 8)

L’inizio della lenta progressione musicale di Akerfeldt e soci prende il nome di My Arms, Your Hearse. Un titolo strano, per un concept album basato su una storia “romanticheggiante” di fantasmi. L’atmosfera che suscita questo disco è, appunto, fantasmagorica, onirica, disperata, incredibilmente coinvolgente. Lungo il susseguirsi dei brani, oltre a constatare un notevole miglioramento nella prova canora di Mikael, si nota una maggiore virata verso nuove fantasiose aperture tecniche e progressive, pur mantenendo inalterati lo spirito del death (inteso, come ormai abbiamo capito, in un senso tutto Opethiano) e le consuete sezioni acustiche di gran classe. In quest’album i riff sono meno ripetitivi e le canzoni risultano essere più brevi rispetto al passato, rendendo il disco molto scorrevole. “April Ethereal”, “When” e l’oscura “Demon Of The Fall”, sono tutti brani evocativi, eloquenti e significativi per comprendere l’evoluzione del sound e del songwriting di questa band. Interessanti, infine, le due cover bonus poste in chiusura: “Circle Of The Tyrants” dei Celtic Frost, e “Remember Tomorrow” degli Iron Maiden. Giusto per non dimenticare le proprie influenze.


STILL LIFE
(Anno: 1999; Durata: 62 minuti; Top Song: The Moor; Voto: 8,5)

Il nuovo corso della band inizia così. La svolta progressiva viene confermata definitivamente con un altro masterpiece, da molti considerato uno degli apici creativi degli Opeth. La produzione si raffina ulteriormente, ed una nuova storia di amore fantasmagorico fa da sfondo a sette tracce riuscitissime, dove i ritmi vengono generalmente rallentati, e le sezioni acustiche sono finalmente incastonate a dovere all’interno dei brani, distribuite con una ricerca dell’arrangiamento perfetto e con maggior continuità con le parti più ruvide. Da notare la bella opener “The Moor”, che (pur mantenendo intatte le consuete caratteristiche) fa subito intendere all’ascoltatore quale sia il nuovo corso evoluzionistico del gruppo, e le due bellissime ballad acustiche, “Benighted” (quando una semplice chitarra acustica può fare miracoli), e la superba “Face Of Melinda”, gioiello delicatissimo e decadente. Un altro capolavoro semplicemente imperdibile. E’ in questo album che il growl ed il clean di Mikael raggiungono un elevato e indiscutibile livello di completezza e profondità, tale da renderli un trademark nel loro sound.


BLACKWATER PARK
(Anno: 2001; Durata: 67 minuti; Top Song: Harvest; Voto: 9)

Sulla falsariga del precedente Still Life viene composto questo Blackwater Park, l’album più famoso e conosciuto della band, che ha permesso loro di varcare le soglie dell’anonimato e di espandere la propria popolarità ad un pubblico sempre più vasto. I tempi e le partiture progressive prendono sempre più spazio, di fatto eliminando riff troppo aggressivi e death-oriented, a favore di lunghi mid-tempo di stampo quasi alternative, conditi da un’ onnipresente ed affascinante aura oscura e malinconica. L’album è coinvolgente al punto giusto, in bilico tra i profondi growls e le sempre più convincenti partiture di canto pulito del buon Mikael, tra pezzi metal e pezzi acustici. Ormai la band ha ben abituato il proprio pubblico ad un certo tipo di sonorità, che vengono a tutt’oggi utilizzate nella discografia più recente. Ogni brano funge da potenziale biglietto da visita per la band, ma su tutti risaltano la spiazzante “Bleak”, la sublime ballad acustica “Harvest” e la terremotante title-track conclusiva, “Blackwater Park”. Infine un cenno sull’artwork, sempre scarno ma essenziale, freddo e cupo, che lascia trasparire, da sempre, le tematiche della band: decadenza, poesia, arte. E queste sono solo alcune delle parole chiave per descriverne il contenuto. Se volete conoscere gli Opeth odierni, non fatevi sfuggire questa perla.


DELIVERANCE
(Anno: 2002; Durata: 61 minuti; Top Song: Deliverance; Voto: 7)

Dopo il successo ottenuto con l’ottimo Blackwater Park, la band si rende autrice della (finora) unica prova poco riuscita nella sua storia discografica. Deliverance nasce dall’idea di creare un album orientato su sonorità prettamente death metal, contemporaneamente alla creazione di un album “gemello” di brani acustici (il seguente Damnation). Questo nuovo platter è formato da 6 brani, di cui uno è un semplice e breve intermezzo di chitarra. La lunghezza dei brani torna ad essere considerevole. Nonostante l’interessante idea dei due album contrapposti, questo Deliverance, salvo un paio di brani davvero riusciti (la title-track “Deliverance” e “A Fair Judgment”), non presenta grosse idee innovative, andando a ricadere su riff poco convincenti e fin troppo ripetitivi, dove certe parti sembrano quasi risultare addirittura troppo forzate. Comunque Deliverance non è certo un album da dimenticare, in primo luogo perché i due succitati brani valgono da soli il prezzo del disco, e in secondo luogo perchè l’eleganza nel songwriting e le classiche caratteristiche del sound Opethiano restano inalterate. Forse però, alla luce dei precedenti capolavori, è inevitabile aspettarsi di più, da una mente prolifica come quella di Akerfeldt.


DAMNATION
(Anno: 2003; Durata: 43 minuti; Top Song: Windowpane; Voto: 9)

Detto fatto: Mikael ci fa subito dimenticare il mezzo passo falso di Deliverance già l’anno seguente, con lo splendido Damnation, il “fratello buono” del precedente lavoro. Infatti, trattasi di un capitolo molto particolare nella loro discografia, teso a sottolineare ed esaltare maggiormente l’aspetto poetico e “settantiano” (sentite la conclusiva “Weakness”) della musica degli Opeth. Ecco che troviamo al nostro cospetto 8 brani, quasi totalmente acustici ed in chiave pulita, in cui non v’è traccia né di partiture metal né di growls infernali. Il risultato è un gioiello di delicatezza ed appassionante carica emotiva, che trova i suoi apici nella progressiva “Windowpane” e nella toccante “Hope Leaves” (a suo dire, la preferita dello stesso Akerfeldt). Anche gli altri brani sono degli di nota, e tutti concorrono nell’intento di sprigionare emozioni infinite, attraverso arrangiamenti chitarristici esemplari, accompagnati dalla calda voce di Mikael, libero di esprimersi solo su tonalità pulite. In quest’album compare la tastiera di Per Wiberg (che proprio in questo anno viene ufficializzato come primo tastierista della band), dando un tocco magico al sound, che riporta direttamente al prog rock degli anni ’70. Insomma, un esperimento riuscito in pieno, un’opera passionale, rilassante ed evocativa, che ogni ascoltatore di buona musica non può non apprezzare.


GHOST REVERIES
(Anno: 2005; Durata: 66 minuti; Top Song: Ghost Of Perdition; Voto: 8,5)

A due anni dall’ottimo esperimento Damnation, il nuovo capolavoro di Akerfeldt e soci porta il nome di Ghost Reveries: titolo eloquente che, a partire dalla bella copertina, ci porta a rivivere alcune atmosfere spettrali attraverso la musica degli Opeth. Il growling di Mikael, dopo l’esperienza Damnation, inizia a diminuire sempre maggiormente, lasciando sempre più spazio a clean vocals coinvolgenti, calde ed evocative. L’album presenta 5 brani “metal”, di cui 4 con lunghezza superiore ai dieci minuti, e 3 ballad più brevi, sempre più influenzate da un apprezzato gusto per l’atmosfera prog rock anni’70, tanto cara al leader della band. Dopo le poche idee di Deliverance, il ritorno degli Opeth a sonorità metalliche ed aggressive, è segnato da un ritorno folgorante ad idee ispirate e geniali da parte di Mikael. Ne risulta un album intenso, incredibilmente fresco e coinvolgente, in bilico tra ritmi alternative, sfuriate doom-death e progressive. Tutto questo è riscontrabile in brani come l’ipnotica opener “Ghost Of Perdition”, il cavallo di battaglia “Harlequin Forest”, o la conclusiva ballad “Isolation Years”, gioiello delicato di musica vera ed ispirata. Un album quindi vario e complesso, da capire ed apprezzare con più ascolti, ed una palese prova che Akerfeldt e soci, dopo 10 anni di carriera discografica, hanno ancora molto da dire.


THE ROUNDHOUSE TAPES
(Anno: 2007; Durata: 96 minuti; Live Album; Voto: 9)

Prima testimonianza live per i nostri, che in un’ora e mezza e più di set-list, incarnano pezzi storici e recenti all’interno di una prestazione di fuoco. Gli Opeth, oltre ad essere una band validissima su disco, dimostrano una spiccata abilità live, nel saper riproporre con egregia tecnica il loro repertorio: non una nota fuori posto, non una divagazione strumentale. Tutto è riproposto fedelmente, come su disco, e ciò rende un concerto degli Opeth un evento di musica di classe, un evento da gustare appieno per la magia che sa sprigionare. Suoni perfetti, puliti, la voce di Akerfeldt è in perfetta forma, e gli altri strumentisti svolgono professionalmente e senza sbavature il loro ruolo. Non da meno è la scaletta, che va a ripescare, saggiamente, brani storici da ogni disco (eccezion fatta per Deliverance), e non c’è nulla di più appagante nell’ascoltare brani come “Night And The Silent Water” (da Morningrise), o “Under The Weeping Moon” (da Orchid) con una produzione nuova e più potente, che ci da conferma che i vecchi brani, nonostante la loro scarsa produzione originale, sono tutt’ora validi e sublimi come un tempo. Il fedele pubblico è caldo, si fa sentire, e Mikael ci interagisce, traendone spesso dei simpatici siparietti (sentite come presenta i componenti della band, che improvvisano un motivetto, alla fine della maestosa “Blackwater Park”). Artisti unici ed inimitabili, anche dal vivo. Sentire per credere.


WATERSHED
(Anno: 2008; Durata: 55 minuti; Top Song: The Lotus Eater; Voto: 8)

Il titolo nel nuovo capitolo targato Opeth è tutto un programma: “spartiacque”. Per vedere a cosa si riferisca tale titolo, dovremo aspettare i futuri lavori della band svedese, ma intanto ci accontentiamo di questo Watershed: un album vario, difficile da descrivere, dal gusto sempre più “retrò”, per via di atmosfere settantiane (la ballad “Burden”, o la lunga “Hessian Peel”) o quasi “barocche” (come altro si può definire un capolavoro di complessità stilistica come “Lotus Eater”?!) sempre più palpabili. I brani sono più brevi (intorno agli 8 minuti, generalmente), il growl lascia sempre più spazio a calde clean vocals, i ritmi delle song sono lenti, nella maggior parte dei casi, rendendo tutto il disco molto pacato e “riflessivo”, lontano dalle prime produzioni, ma comunque molto variegato negli arrangiamenti e mai noioso. Forse leggermente inferiore ai vecchi capolavori a cui siamo abituati, questo Watershed è comunque in grado di regalarci dei momenti alti ed intensi di musica, a testimonianza di come la mente del leader Mikael sia sempre pronta ad esplorare e sperimentare nuove soluzioni, pur restando ancorata al proprio credo. Arrivati a questo punto, nell’attesa di poter ascoltare in futuro un nuovo album di indubbia qualità, non ci resta altro da fare che rituffarci nell’ebriante viaggio musicale marchiato Opeth.