giovedì 25 novembre 2010

MANTICORA - Safe


Dalla Danimarca con molta cattiveria…

Nome Album: Safe
Etichetta: Nightmare Records
Data di Uscita: 21 settembre 2010
Genere: Thrash/Power Metal

Introduzione:

Alzi la mano chi conosce i Manticora: chi sta alzando la mano in questo momento ha tutto il mio rispetto. Si tratta di una band Danese, ormai attiva da svariati anni ed avente sulle spalle una lista discografica comprendente lavori di tutto rispetto. Partiti più di un decennio fad con un power abbastanza canonico, di stampo europeo, ma in cui già si intravedeva qualche novità rispetto allo standard, si sono poi evoluti in un sound molto più violento ma comunque melodico. Un sound che deve moltissimo al power americano degli Iced Earth e al power teutonico dei maestri Blind Guardian (il tutto mescolato e ripreso con gusto e molta personalità). L’unica sfortuna di questa grandissima band è quella di non essere mai stata in grado, volente o nolente, di sfondare come merita. Infatti, resta ancora un gruppo che non possiamo annoverare tra i “big” della scena metal, ma che meriterebbe, oggettivamente, un posto in questo grande podio. Si ripropongono nel 2010 con questo settimo album, come al solito, ricco di idee, che non tradisce le aspettative, e che, fondamentalmente, non presenta grosse innovazioni in più rispetto al passato. Le coordinate sono sempre basate su un power metal fortemente condito da esplosioni thrash, il tutto trasportato in una base di violenza sonora a cui è impossibile rimanere indifferenti. E così è anche per questo Safe, dove, tuttavia, troviamo una sterzata sempre più abbondante verso sonorità thrash, molto più pesanti rispetto al passato. Se, nella tendenza (di mercato, soprattutto) da parte di molte metal band, c’è l’avvicinamento a suoni più melodici e pacati, così non è per i Manticora, che sembrano voler stupire sempre di più, incentivando il lato sporco e ruvido e togliendo una piccola fetta alla melodia. Quindi, buoni e lodevoli gli intenti, anche se, come fan e “follower” della band, mi sento di poter dire che l’album non mi ha colpito come altri capolavori del passato. I picchi qualitativi raggiunti dallo stupefacente 8 Deadly Sins o dalla saga horror di The Black Circus I & II, non vengono toccati da questa nuova fatica, pur restando un buon album che si lascia ascoltare con piacere. La tracklist è una cascata di metallo incandescente: 7 brani per 50 minuti di thrash-power di classe e potenza, nessuna ballad, pochi  stacchi melodici. Questo è Safe, per voi.


Track By Track:

L’attacco è affidato a “In The Abyss Of Desperation”, che inizia con un riff thrash, per poi alternare pezzi più melodici ed altri più pesanti, ritornello melodico al punto giusto ed un ottimo assolo chitarristico, accompagnati da un’onnipresente doppia cassa. In fin dei conti, si tratta di un classicissimo brano alla Manticora, e come tale si farà sicuramente apprezzare dagli amanti di queste sonorità. La seguente “Silence The Freedom”, segue la scia della precedente traccia. Da segnalare un ritmo in terzinato ed una lieve diminuzione di velocità, elementi abbastanza inusuali per il sound del gruppo. A metà canzone si presenta un breve intermezzo rallentato, dal sapore quasi orientaleggiante. Finale affidato ad un massiccio riff che sfuma, accompagnato da una martellante doppia cassa. Nonostante la buona fattura del pezzo, la musica scorre senza lasciare particolari impressioni in testa. Proseguiamo con la successiva “Complete”, che si apre su un riff di grande impatto, pesante e sincopato, per poi lasciare spazio a ottime melodie accompagnate da una lieve base di tastiera. Quindi, su una struttura lenta e cupa, si susseguono ottimi i riff, anche con qualche accenno progressive e ficcanti accelerazioni nel ritornello. Tuttavia quest’ultimo pecca un po’ di anonimato, e si disperde nell’incedere del brano, che diventa quindi privo del giusto spessore. Da qui in poi i brani diventano più interessanti e risollevano la qualità del disco: “From The Pain Of Loss (I Learned About The Truth)” è il singolo scelto per anticipare l’album, ed è accompagnato da un tamarrissimo videoclip in cui compaiono fiamme a dismisura che avvolgono la band, intenta a suonare. Tralasciando questo aspetto, il brano (il più corto dell’album, 4 minuti e 37 secondi) è indubbiamente molto valido. Ancora una volta, i ritmi vengono generalmente rallentati, lasciando spazio ad un incedere molto pesante e di matrice thrash, con parti più melodiche in prossimità del ritornello e dell’assolo. Interessanti gli interventi di growl, estremamente profondo e maligno. “A Lake That Drained” è, secondo il mio parere, il brano più riuscito dell’album. Nonostante non vi sia nulla che brilli di una nuova luce, i ritmi tornano ad essere dannatamente veloci e potenti, e torna un po’ il sentore degli ultimi lavori della band. Il ritornello è quanto di più bello si possa sentire in un album dei Manticora: corale, melodico ed oscuro come pochi, sa catturare l’attenzione e si impianta nella mente fin dai primi ascolti. Un ottimo brano quindi, che, una volta concluso, lascia spazio ad un altro highlight del disco, ovvero “Carrion Eaters”: brano dalle belle melodie, aperto da uno straordinario riff sincopato di chitarra. Il ritornello segue gli ingredienti del refrain della song precedente, ovvero doppia cassa, coro ed una certa oscurità melodica intrinseca. Dopo quest’ottima song, che, ad ogni modo, non aggiunge nulla di particolarmente innovativo al suono a cui i Manticora ci hanno abituato, l’album si chiude con la title-track “Safe”: in questa lunga suite, che tocca i 14 minuti di durata, c’è un po’ di tutto ciò che ha reso grande e particolare la musica del combo danese. Dopo un’introduzione breve di chitarra pulita, il brano (praticamente una profusione continua di metallo ruspante) prosegue, temerario, attraverso varie sfumature e cambi di tempo, mantenendo comunque un’impostazione prettamente “metal”. Quindi, per i primi 10 minuti, poco spazio è lasciato ad aperture melodiche, che, invece, spesso ci aspetteremmo di ritrovare in una metal-suite. E’ un continuo succedersi di riffs incazzati ed incastrati ad arte, impedendo cali di tensione. Gli ultimi 4 minuti sono affidati ad una parte più lenta e melodica, guidata da una lieve chitarra acustica. Così si conclude questa ulteriore buona prova della band, senza tuttavia aggiungere nulla di troppo nuovo per il genere intrapreso.

Considerazioni Tecniche e Conclusive:

L’intero lavoro è una sequenza musicale decisamente compatta e coerente, senza troppi cali di tensione. Tuttavia, il grande limite dell’album è che questa coerenza sfocia, a lungo andare, in una certa sensazione di ripetitività. La mancanza di ballad influisce del resto negativamente su questo aspetto, portando quindi l’album ad essere abbastanza pesante nella sua intera durata. Inoltre, come già detto, anche dopo ripetuti ascolti, le canzoni in linea di massima tendono difficilmente a stamparsi nella mente (salvo eccezioni). Nonostante tutto questo, rimane comunque un buonissimo lavoro, composto con grande perizia tecnica e molta inventiva nella successione dei riff e degli arrangiamenti chitarristici. Il singer Lars, pur essendo una voce particolarissima, subito riconoscibile, che dona una dimensione cupa alla musica dei Manticora, tesse tuttavia delle trame vocali che risultano essere spesso piatte e ripetitive. Ma in fondo, questa è sempre stata una caratteristica del sound della band, il quale, senza Lars, non acquisterebbe più quella dimensione cupa che rende i Manticora così unici e particolari nel loro genere. Ovazione di tutto rispetto per i restanti musicisti: la coppia d’asce tesse vortici chitarristici sempre ottimi ed ispiratissimi, e la sezione ritmica lavora con estrema precisione chirurgica, con un NOME dietro alle pelli sempre ispirato e mostruoso. Tuttavia in questo nuovo Safe, a livello sia di partiture che di produzione, la batteria non risalta come nelle precedenti releases, dove invece era estremamente martellante e sicuramente più incisiva e dominante. Le partiture di tastiera sono più povere e rare rispetto al passato; scelta indirizzata probabilmente anche dalla decisa sterzata thrash nel sound. Un’ultima parola sulla copertina: il simbolo dei Manticora su uno sfondo completamente nero. Quindi nulla di più scontato, una copertina decisamente trascurabile, che non rispecchia quella che è la qualità dell’album. Artwork a parte, tenendo quindi conto come sia difficile, al giorno d’oggi, riuscire a comporre un album che suoni fresco e, tutto sommato, abbastanza originale, e tenendo conto anche della genialità innata di questi 5 musicisti danesi, non possiamo far altro che issare un deciso pollice in su per i Manticora.


Tracklist:

01. In The Abyss Of Desperation
02. Silence The Freedom
03. Complete
04. From The Pain Of Loss (I Learned About The Truth)
05. A Lake That Drained
06. Carrion Eaters
07. Safe (Searching / A Miracle / Fading / End (less)


Voto: 7,5

domenica 21 novembre 2010

AVENGED SEVENFOLD - Nightmare


Quando un illustre ospite non basta…

Nome Album: Nightmare
Etichetta: Warner Bros Records
Data di uscita: 27 Luglio 2010
Genere: Alternative Metal/Heavy Metal

Introduzione:

Avenged Sevenfold. Al solo pronunciare il nome della band americana, tre quarti della popolazione metallara italiana sente brividi di disprezzo e disgusto. Pare, infatti, che i bei ragazzoni americani siano particolarmente disprezzati nel nostro paese, forse per quella loro tendenza modaiola e d’immagine, che li vuole rappresentare come emo-metal-core band. E, forse, così un po’ sono partiti, con un paio di album di metalcore, se vogliamo, adolescenziale, melodico, ruffiano e graffiante, affiancato spesso da pesanti parentesi punk-hardcore (sentire la canzone Streets per averne un’idea). Dopo, quindi, album non indispensabili al popolo metallico, ma comunque validi, ci sorprendono nel 2005 con City Of Evil: album davvero notevole, che inizia a mescolare metal più “maturo”, molta classe e tecnica, con una consueta attitudine glam-emo-punk. Il successore è l’omonimo del 2007, che tenta di seguire le orme del buonissimo predecessore, senza, però, riuscire ad incantare nella giusta maniera. Ed ora, dopo la recente e prematura scomparsa dell’ottimo batterista The Rev, la band si ripropone con questo altalenante Nightmare, album dedicato proprio alla memoria del suddetto mancato batterista. Chi sono, quindi, gli Avenged Sevenfold del 2010? Una band americana consapevole di avere alle spalle un glorioso successo, ma che non sembra tuttavia mai in grado di brillare come potrebbe. Infatti, anche questo nuovo parto discografico sembra confermarlo: vi sono incluse canzoni che risultano, fin dal primo ascolto, troppo dispersive e pretenziose, quasi fossero alla ricerca costante, in modo forzato, di un riff che faccia colpo, che sappia essere catchy. Riff che, però, stenta ad arrivare, o meglio arriva e non conclude, riducendo quindi il disco ad una massa di numerose (brutte) idee mal amalgamate tra di loro. Qualcosa di buono c’è, è innegabile, ma sembra già che il buon flusso creativo della band si sia esaurito con i primi 3 album. Mi auguro di sbagliare, perché tecnicamente la band è validissima e potrebbe essere in grado di stupirci ancora, cosa che, francamente, non è riuscita a fare in questo nuovo lungo album. Passiamo quindi all’analisi precisa del disco.


Track By Track:

L’album esordisce, paradossalmente, con una delle due migliori canzoni del platter, la buona title-track “Nightmare”. Buona la partenza lenta, con melodie oscure e decadenti, che sfocia subito in un pesante e lento riff di matrice thrash-southern. Il ritornello è melodico ed azzeccato. Ottimi intermezzi centrali e assoli condiscono questa song, che, pur non essendo nulla che faccia gridare al miracolo, innegabilmente fa sperare in un buon ritorno della band. Tuttavia, da qui in avanti, le aspettative verranno negate. Infatti, già con la successiva “Welcome To The Family”, si intravedono idee scarse e prive di mordente. L’incedere è ancora affidato ad un mid-tempo, e ben presto compare un ritornello ruffiano e melodico, quasi “collegial punk-oriented”, come varie volte troviamo nella loro discografia. Nonostante il pezzo sia piuttosto scontato, si lascia ascoltare. Il primo vero e totale flop è la seguente “Danger Line”: non lascia alcuno spazio ad idee interessanti o a qualche soluzione ben arrangiata. Tutto suona in modo assolutamente banale, trascinato e senza un minimo di emozione. Imbarazzante e decisamente fuori luogo l’intermezzo pianistico (compaiono perfino delle trombette!), che prosegue fino alla fine del brano. Come se non bastasse, le linee vocali di M. Shadows rendono il tutto ancora più piatto. In poche parole, un brano scialbo ed insignificante. E l’ora della prima (semi) ballad del disco: “Buried Alive”. Per quanto concerne la struttura del brano, sembra quasi che la band voglia rifarsi alle leggendarie One o Fade To Black dei Metallica. Infatti, abbiamo una prima ottima parte melodica, lenta, dolce, arpeggiata ed ispirata, accompagnata da un ritornello distorto più energico. Peccato che, in questo caso, la successiva parte “metal” risulti un po’ scontata, monotona e con poca inventiva, arrivando a privare l’intero brano dell’etichetta di “buona canzone”. La successiva “Natural Born Killer” è il brano più veloce e thrasheggiante del disco. Una canzone in classico stile Avenged. Ottima la partenza, così come l’arrangiamento nell’assolo di chitarra, ma per il resto è un susseguirsi, ancora una volta, di (poche) buone intuizioni miscelate, senza un’apparente logica, ad altre idee confuse. Un brano, quindi, che avrebbe potuto essere sviluppato in una maniera decisamente più ispirata. Piuttosto insipida la successiva ballad melodica “So Far Away”: ancora una volta, fronteggiamo un brano che, pur lasciandosi ascoltare, nasconde delle buone idee che sembrano, purtroppo pigramente, non essere in grado di esplodere e farsi valere. Assistiamo ad una buona ripresa nella parte finale, ma il suo contributo non basta per apprezzare totalmente quest’altro episodio altalenante. Un’elementare introduzione di chitarra pulita ci introduce a “God Hates Us”, che esplode in un riff veloce e cattivo. In questa canzone ricompare il vecchio growl di M. Shadows, abbandonato dopo i primi due dischi. Il brano prosegue su binari di stampo thrash-core americano (a tratti, sembra quasi che la band tenti di scimmiottare i Pantera, con delle insipide convulsioni chitarristiche), rappresentando un episodio solo sufficientemente riuscito e, in fin dei conti, piuttosto fine a se stesso ed insignificante per rialzare le sorti del disco. Come se ciò che abbiamo sentito fin’ora non bastasse, la band ci propina in seguito ben 3 (!) ulteriori canzoni lente, la cui qualità è messa in dubbio da idee trascinate e spesso banali: pare quasi che la band sia esausta e convinta di aver dato al proprio popolo tutto ciò che di meglio potesse offrire, tirando fuori così dei brani assolutamente stanchi e scialbi. Il terribile trittico è rappresentato da: 1- “Victim”, eccessivamente melodica, si trascina per ben 7 lunghi minuti e 30 secondi, non aggiungendo nulla di nuovo al disco, se non un’ulteriore prova che la band è decisamente carente di idee valide. Lo stampo del brano è quasi orientato su un soft-pop-rock radiofonico. Ennesimo passo falso decisamente trascurabile. 2- “Tonight The World Dies” si protende stancamente sulla falsa riga del brano precedente. Inutile dire che arrivati a questo punto la noia prevale su ogni altra piccola speranza di poter sentire qualcosa di veramente valido. 3- “Fiction”, brano atipico e davvero strano. Trattasi di un brano scritto dalla scomparso batterista The Rev, completamente pianistico, a tratti angosciante, tra partiture pop, e altre parti più oscure. Ok, cari Avenged, ammiriamo il coraggio di rischiare nell’inserire un brano così particolare, ma il problema è stato averlo inserito in una tracklist già abbondantemente minata e superflua, addirittura dopo due ballad consecutive. Però, al di là di questo, il problema vero è che il brano è assolutamente inconcludente e, come molti altri, si disperde nella sua incoerenza, e conclude le danze lasciandoci l’amaro in bocca. Siamo alla fine, l’ultimo brano dell’album: la lunga (11 minuti di durata) “Save Me”. Finalmente un ottimo brano, che, incredibilmente, colpisce e non stanca. Ma ormai (e per fortuna) siamo alla fine di questo lungo disco. La suite, nella sua lunghezza, mostra finalmente buonissime idee. Pezzi più pesanti si alternano con parti quasi sinfoniche e con partiture classiche nel sound del gruppo. Notevoli le accelerazioni nella sezione degli assoli, seguiti a ruota da una parte in cui sentiamo un Mike Portnoy finalmente ispirato, che richiama moltissimo il suo modo personalissimo di suonare nei Dream Theater. Una parte finale più lenta ed ispirata chiude la song e l’intero album. Peccato che il resto dell’album non sia all’altezza di quest’ultimo episodio.        


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Eccoci alla fine di questo faticoso disco. C’è una cosa da segnalare: l’ospite (ora come ora, a quanto pare, componente fisso) scelto per rimpiazzare il rimpianto The Rev dietro le pelli, è Mike Portnoy, già arcinoto per le sue prestazioni nei progster Dream Theater (che non hanno certo bisogno di presentazioni). Chi conosce Portnoy sa bene che egli non ha certo difficoltà a rapportarsi al modo di suonare dello scomparso The Rev, che era pur sempre un ottimo batterista, con elevato gusto e qualità tecniche. Ma, va detto, la prestazione di Mike, in questo disco, non è assolutamente degna della propria fama e delle proprie abilità. Forse, da lui ci si aspettava decisamente di più. Altra nota di demerito, come già detto, va al singer M. Shadows: la sua voce non brilla di particolari doti tecniche, ma è vincente sul lato carismatico. E’ una caratteristica voce sporca, alta e dal taglio “sleazy” (mi spiego?!), ma si adagia, purtroppo, su delle linee vocali spesso piatte, monocorde e in fin dei conti molto ripetitive. Detto questo,il tasto più dolente resta il pesante macigno del songwriting, come già detto, confusionario e carente di buona inventiva. Tant’è che anche là sopra non sono riuscito a definire un genere preciso, canalizzando tutto in un eloquente ma, ahimè, dispersivo “heavy metal” (in fondo, tutto deriva da lì, no?). Per il resto la band viaggia su produzione buona, ottimi livelli tecnici, come nel caso del chitarrista solista Synyster Gates, o del già citato ospite d’eccezione Mike Portnoy (c’è bisogno di ricordare che tecnicamente è un mostriciattolo?). L’immagine di copertina è molto interessante ed ovviamente adeguata al titolo dell’album, ma non basta a risollevare le sorti di un disco fragile, così come non sono sufficienti solo 3 o 4 canzoni buone su undici tracce totali. Dobbiamo avere ancora fiducia nella band, c’è da sperare che non si montino la testa più del dovuto (o più di quanto non abbiano già fatto), e che riescano a sfoderare un lavoro qualitativamente superiore a questo Nightmare, il quale, credo con sincerità, in futuro girerà raramente nel mio lettore mp3. Nell’attesa della svolta, torno ad ascoltarmi City Of Evil… o magari i Dream Theater.


Tracklist:

01. Nightmare
02. Welcome To The Family
03. Danger Line
04. Buried Alive
05. Natural Born Killer
06. So Far Away
07. God Hates Us
08. Victim
09. Tonight The World Dies
10. Fiction
11. Save Me


Voto: 5,5/10

martedì 16 novembre 2010

CRADLE OF FILTH - Darkly, Darkly Venus Aversa


Il respiro di un vampiro non passa inosservato…

Nome Album: Darkly, Darkly Venus Aversa
Etichetta: Peaceville
Data di uscita: 29 Ottobre 2010
Genere: Extreme Gothic Metal/Symphonic Black Metal

Introduzione:

Eccomi qui, con la promessa recensione del nuovo album dei Vampiri più famosi del metal. Infatti, in questo fervido e prolifico 2010, si ritaglia uno spazio nelle nuove uscite anche una band con cui ho avuto sempre un buon rapporto, i britannici Cradle Of Filth: pilastro del symphonic-extreme-black-gothic-metal (e via con le consuete etichettature), e della scena estrema in generale. Partiamo, innanzitutto, con un dovuto accenno sulla storia di questo gruppo, per capirne, in breve, l’evoluzione stilistica: partono nei primi anni ’90, devoti ad un black metal violento e di stampo sinfonico, e, liricamente parlando, totalmente dediti alle tematiche oscure e romantiche del vampirismo, ripreso sempre in chiave poetica e letteraria. Dopo anni di attività ed ottimi album pubblicati, assistiamo, dal 2004, ad un flop compositivo con il periodo più “gothic-oriented” di Nymphetamine e Thornography, due album troppo sgonfi di adrenalina, poveri di buone idee e, a modo loro, troppo “commerciali”. Un deciso respiro di sollievo lo ritroviamo con il penultimo e sorprendente  Godspeed On The Devil’s Thunder; ed ora, 2010 A.D., siamo dinnanzi ad una (definitiva?) conferma del loro ritrovato smalto in fase di songwriting. Già, perché Darkly Darkly Venus Aversa, è un buon album di sano gothic metal estremo, che riporta il gruppo ai fasti dell’osannatissimo Midian, o del colossale Damnation And A Day. In termini di velocità e composizione, l’album è davvero una fucilata in pieno volto, e, nonostante le idee non siano certo troppo originali o particolarmente innovative (ragazzi, vecchie glorie come Principle o Dusk non torneranno mai più), le song riescono a scorrere, con una certa fluidità, nelle orecchie dell’ascoltatore. Merito di una decisamente rinata cattiveria dalle sfumature blackeggianti e thrasheggianti, che, da tempo, non si sentiva nella musica degli inglesi. Liricamente, si tratta di un concept , come al solito ben scritto, incentrato sulla figura di Lilith: un demone femminile associato alla tempesta, alla morte e alla disgrazia. Sgombriamo subito il campo dalle perplessità: i fans di mezzo mondo saranno rimasti inorriditi di fronte all’uscita (precedente all’album) del singolo Forgive Me Father, (unico) brano decisamente discutibile all’interno del disco, che ha fatto subito tornare alla mente il falsissimo passo che porta l’ingombrante nome di Thornography. Ma non allarmatevi: infatti, si tratta dell’unico fastidioso neo, in un’opera di tutto rispetto ed oggettivamente di indubbia qualità.  


Track By Track:

Tiriamo già un sospiro di sollievo e di conforto, accompagnato da un pensiero fisso (“finalmente ci siamo”), all’ascolto della prima traccia del disco: “The Cult Of Venus Aversa”. Inizia con un’introduzione sinfonica ed atmosferica, recitata dall’onnipresente Sarah (da anni nelle fila della band). Nemmeno il tempo di pensare, e ci viene sparato in pieno volto un superbo attacco di blast-beats senza controllo. La song si sussegue tra ottimi riff black e alcuni più thrasheggianti, su un tappeto sinfonico mai troppo invadente, ed intermezzi orchestrali. Uno dei migliori brani del disco. Ancora decisamente stravolti per la cattiveria con cui si ripropone la band, si prosegue con “One Foul Step From The Abyss”. Dopo un intro di piano e coro (mi ricorda i primi album), gli ingredienti non cambiano, ed è ancora un susseguirsi di terremoti sonici, attraverso riff devastanti e precisi. “The Nun With The Astral Habit” non risparmia le orecchie dell’ascoltatore: inizia sparata a mille, su un riff di chitarra monocorde poco convincente, ma il seguito è decisamente azzeccato. La strofa viaggia su un riff di matrice death metal, il bridge rallenta per dare spazio ad un atmosferico intervento pianistico, ed il resto è un abuso di potere di blast-beats e riff spaccaossa. Da segnalare gli ispirati interventi orchestrali, che rendono la canzone oscura ed affascinante. L’inferno sonoro prosegue con “Church Of The Sacred Heart”, canzone che sfiora i 4 minuti, dove, ancora una volta, è un massacro. Proprio quando l’orecchio inizia a stancarsi di così tanto isterismo, arriva una manciata di riff  rallentati e più ragionati. Le coordinate del brano continuano, comunque, attraverso martellate di freschissimo death-black metal. Ed eccoci arrivati ad un altro dei migliori brani del disco: “The Persecution Song”. Proprio dove i Cradle avevano fallito un lustro fa, con quella, poco gradita, svolta gothicheggiante di Nymphetamine, riprovano a calcare il terreno. Il brano è sbalorditivo nel suo incedere. Lo stampo del brano è di ottimo gothic metal, quindi i riff si fanno più lenti ed atmosferici, almeno fino a poco più di metà brano, dove ricompaiono, tutt’altro che timidamente, blast beats e tirate di velocità esaltanti al punto giusto. Il brano, dopo aver ripreso il riff gothic iniziale, si chiude con uno dei brevi interventi atmosferico-orchestrali, tanto cari ai vampiri inglesi. Sicuramente un ottimo brano, che spezza la intravista monotonia dei pezzi iniziali. E’ il turno di “Decieving Eyes” e, dopo un attacco thrash, torniamo ai consueti binari di cui abbiamo già parlato. La canzone è abbastanza interessante, se non altro per i numerosi riff che si susseguono in un turbinio di accelerazioni e decelerazioni, interventi ballad-pianistici, e orchestrazioni ben arrangiate, come sempre mai troppo in evidenza. Il brano, in definitiva, risulta meno brutale e più vario rispetto ai primi pezzi. La batteria torna a farsi notare alla grande nella successiva “Lilith Immaculate”, un buon pezzo dalle consuete atmosfere horror-black sinfonico che infestano l’album. A stonare leggermente, a mio parere, è la scelta di inserire un bridge particolarmente arioso e melodico, che mal si sposa con quanto finora sentito. Ma è apprezzabile, ad ogni modo, il tentativo di inserire qualche elemento in più nella loro musica. Il brano rallenta nella parte centrale, con un bel break di stampo sinfonico, per poi riprendere il riff brutale iniziale. La successiva “The Spawn Of Love And War” si lascia apprezzare per un impianto iniziale rivolto maggiormente al thrash metal, anche se, nel suo lungo susseguirsi, non mancano le consuete parti più orchestrali e rallentamenti di stampo gothic (le cui teatralità ed oscurità sono sempre assicurate) alternati a riff più assassini. Tuttavia, a mio avviso, è un brano abbastanza trascurabile. In altre parole, l’impatto primordiale dell’album inizia a non essere più così graffiante. “Harlot On a Pedestal”, grazie alle sue oscure melodie, riporta alla mente alcuni vecchi capolavori della band, e tra stacchi thrash e pezzi più gothicheggianti, risulta essere un brano di notevole fattura, sicuramente più apprezzabile rispetto al precedente. Ed ecco la canzone “x”, quell’insopportabile “Forgive Me Father (I Have Sinned)”, che poco c’entra con la struttura portante dell’album, e richiama alla mente il peggio della band, quel tanto (giustamente) discusso Thornography. I ritmi sono decisamente più lenti rispetto al resto dell’album, e da questo punto di vista non è un male, vista la pesantezza sonora del disco. Tuttavia la song non riesce a brillare e (con annesso videoclip) darebbe credito a chi ha additato i COF di essersi commercializzati e ridicolizzati negli ultimi anni. Per fortuna, comunque, come già detto, si tratta di un episodio isolato. Chiude l’album la song più lunga dell’album (7 minuti e 16), “Beyond Eleventh Hour”, che, dopo un intro recitato da Sarah, si sussegue attraverso i soliti ingredienti lungo la sua durata, senza aggiungere altro a questa buonissima nuova uscita targata Cradle Of Filth.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Confesso che ho trovato qualche difficoltà a descrivere queste 11 canzoni. Ciò è dovuto al fatto che la musica dei Cradle (come quella di molte band nel panorama estremo) non segue, nelle strutture dei brani, schemi precisi. La classica forma-canzone, nella maggior parte dei casi, non esiste. Pertanto i riff ed i cambi di atmosfera sono davvero molti, ed è stato difficile mettere su carta ciò che questa musica trasmette. Detto questo, possiamo dire che i COF sono un gruppo, finalmente, rinato, che dimostra ancora di saper scrivere musica intelligente e, elemento non meno importante, che sappia essere graffiante, malvagia e dannatamente cattiva. Dani non è più certo quello di una volta dietro al microfono, ma le sue interpretazioni ed il suo scream-growl sono ancora di buon gusto ed indispensabili per la musica orrorifica del combo inglese. Tecnicamente, mi sento di segnalare lo sconosciuto batterista Martin Skaroupka, un’autentica macchina da guerra, che, con i sui blast beats precisi e potenti, con i suoi passaggi ricchi e, in alcuni albiti, anche particolarmente tecnici, è, a mio avviso, il miglior batterista che il gruppo abbia mai avuto: essenziale per questo disco, così come lo è stato per l’altrettanto riuscito Godspeed. Per il resto, la band compie il suo preciso lavoro, senza spiccare per doti eccessivamente particolari. Le parti orchestrali, inoltre, sono perfette nel loro donare uno spessore in più ai brani, ma, come già detto, non coprono gli altri strumenti. Le chitarre, infatti, sono molto presenti, e, pertanto, le orchestrazioni fungono da un perfetto e comunque essenziale contorno alla carica malvagia della musica di questo album. La produzione, a partire da quello spartiacque che era Nymphetamine, è oggettivamente migliorata, e,  da allora è pomposa, brillante e rende giustizia ad ogni suono. Che altro dire, sembra che tutto sia perfetto. Tuttavia, l’unico grande difetto di questo album è il fatto che le canzoni riescano si a scorrere e a lasciarsi ascoltare, senza però negare che certe soluzioni siano parecchio simili tra loro. Pertanto, non c’è un ritornello o un riff che ci permetta di distinguerle perfettamente le une dalle altre, e questo, a lungo andare, può provocare una sensazione di noia nell’ascoltatore. Per fortuna le song sono comunque ben bilanciate e studiate, e riescono a limitare gli sbadigli. Due parole sulla copertina: l’immagine è molto carina, oscura ed evocativa. Non è certo un capolavoro, ma ben calza con l’atmosfera e le tematiche del disco. Fans del nuovo corso, ma anche del vecchio corso, gustatevi quindi questa nuova inebriante fatica dei britannici, o, almeno, dategli un ascolto, e capirete che i Cradle hanno ancora molto da dire, sperando non ricadano in qualche nuova scelta poco felice. Tremate, i Vampiri inglesi sono tornati.


Tracklist:

01. The Cult Of Venus Aversa
02. One Foul Step From The Abyss
03. The Nun With The Astral Habit
04. Retreat Of The Sacred Heart
05. The Persecution Song
06. Deceiving Eyes
07. Lilith Immaculate
08. The Spawn Of Love And War
09. Harlot On A Pedestal
10. Forgive Me Father (I Have Sinned)
11. Beyond The Eleventh Hour


Voto: 8/10

martedì 9 novembre 2010

BLIND GUARDIAN - At The Edge Of Time

Il ritorno dei Bardi, puntuali come orologi svizz..tedeschi...

Nome Album: At The Edge Of Time
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 30 Luglio 2010
Genere: Power Epic Metal


Introduzione:

L'estate 2010, dai metallari più accaniti, verrà sicuramente ricordata per l'uscita sul mercato del nuovo album dei bardi più famosi del mondo. Eccoli tornare, puntualissimi, dopo i (da tempo ormai) consueti 4 anni di pausa discografica, con questo nuovo dischetto fresco e decisamente buono ed interessante. Cosa si può dire sulla più grande band, assieme ai connazionali Helloween, di tutta la scena power metal europea e mondiale? Si può dire che, dall'ormai lontanissimo 1988, album dopo album sono riusciti a sfornare dei lavori sempre più interessanti, senza mai scadere in ridondanti stilemi classici ed abusati del power metal, ma andando, invece, a ricercare sempre degli elementi nuovi da introdurre nel loro sound, così da renderlo molto particolare e sicuramente unico nel suo genere. E lo stesso discorso lo si può fare per questo nuovo At The Edge Of Time. Facendo un passo indietro, torniamo al 2006: anno in cui uscì "A Twist in The Myth". Un buon album, in cui i ritmi venivano fondamentalmente rallentati, per andare a concentrare l'attenzione su un sound più legato alla sperimentazione e all'arrangiamento. 4 anni più tardi, i Bardi di Krefeld sembrano voler fare, dal punto di vista del songwriting, un passo indietro, e, paradossalmente, ne compiono uno anche in avanti, poichè questo è ciò che i fans, effettivamente, attendevano da tempo: i suoni si fanno più graffianti, alcune tracce tornano ad essere votate ad un famelico power-speed old-school, e, anche dal punto di vista lirico si torna alle vecchie radici. Se, infatti, da quel discusso (ma decisamente sbalorditivo) A Night At The Opera del 2002, le tematiche si erano spostate ad argomenti più profondi ed intellettuali come l'epica, la filosofia o la religione, ora i temi portanti tornano a toccare perlopiù la letteratura ed il mondo fantasy, tanto caro al gruppo tedesco (chi, per esempio, non ricorda il loro album-capolavoro Nightfall in Middle-Earth?). Ciò lo si può evincere anche dando una fugace occhiata alle evocative immagini, disegnate nel booklet e nella copertina (bellissimo l'artwork a cura di Felipe Machado). Altro tocco di classe, che dona sicuramente un'aura magistrale alla musica dei bardi, è l'uso dell'orchestra di Praga in 2 suite, sicuramente tra le tracce più notevoli e rappresentative del disco. Proseguiamo, quindi, con quello che è, e dev'essere, l'argomento portante della recensione: la musica sempreverde dei Blind Guardian.


Track By Track:

I bardi decidono già di stupirci alla grande, piazzando in apertura uno dei loro brani più belli e, sicuramente, il migliore dell'intero disco. Un brano come "Sacred Worlds", nato per la colonna sonora del videogioco Sacred 2, ed in seguito riadattato ed egregiamente arricchito. Si apre con un'inaspettata apertura sinfonica, suonata dall'orchestra di Praga. La tensione si fa sempre più alta, ed è una scarica di emozioni sentire nuovamente i Blind Guardian così ispirati e accattivanti. Esplode il riff portante del brano, accompagnato sempre da un'epica sinfonia. La suite si estende per oltre 9 minuti di durata, alternando parti aggressive, sinfoniche, assoli (come sempre, non particolarmente veloci, ma viaggianti su delle coordinate melodiche sempre fresche e piacevolissime) e altre parti più rallentate, il tutto in funzione del superlativo refrain. Pura arte per le orecchie! Il viaggio prosegue con "Tanelorn (Into The Void)", ed è un richiamo al passato della band, fatto di doppia cassa, velocità molto sostenuta, strofe aggressive e molta melodia. Questa traccia, quindi, non fa eccezione e non delude. Da tempo non si sentivano dei Blind Guardian così incazzati! Il brano corre su coordinate power-thrash, quasi ripetitive in certi frangenti, ma ci pensa poi il ritornello a rallentare i ritmi e ad elevare la carica melodica della canzone. "Road Of No Release" è un mid-tempo ben riuscito, in cui fa capolino un timido pianoforte (un elemento più sfruttato in questo album, rispetto al passato della band). I cambi umorali della canzone ed il suo ottimo arrangiamento, anche senza dubbi in ambito vocale (con i consueti cori "alla Blind"), permettono di godere di questo dolce brano particolarmente innovativo, e carico di pathos nell'azzacatissimo ritornello. Si torna a premere sull'acceleratore sul successivo anello debole della catena. Infatti ci troviamo di fronte a quella che, per il sottoscritto, è la prestazione meno convincente dell'album: "Ride Into Obsession". Anche questo brano richiama al passato, ma dopo numerosi ascolti, non riesce ancora a convincere pienamente; complice una sezione ritmica troppo serrata e marcata (anche nei ritornelli), una batteria troppo meccanica, ed in generale una sensazione di ripetitività e di "già sentito", che priva la canzone del giusto impatto che dovrebbe riservarci. Anche i migliori ogni tanto possono sbagliare. Per fortuna ci pensa la successiva "Curse My Name" a rincuorare gli animi dei numerosissimi fans della band, sparsi per il mondo. Trattasi del consueto brano acustico-medievaleggiante presente in ogni album della band, a partire da Tales From The Twilight World. Ricco di strumenti atipici per una metal band, prosegue sicuro e leggiadro su melodie di degna fattura. Forse, non aggiunge nulla di nuovo alla discografia dei bardi, ma si lascia ascoltare con immenso piacere. La seconda parte del disco parte in modo altalenante con "Valkyries", un brano in cui si alternano momenti cupi a momenti più ariosi. Con questa canzone, i Blind si riavvicinano alla sperimentazione, che abbiamo avuto modo di sentire nel precedente disco, perciò il ritmo rallenta a favore di maggior ricercatezza nell'arrangiamento. Tuttavia, questo brano non riesce a decollare come dovrebbe, rappresentando un altro (purtroppo) punto debole dell'album. Da qui in poi, la strada è tutta in discesa. Infatti, il proseguimento è affidato ad uno dei migliori brani del disco, la seguente "Control The Divine", cavalcata mid-tempo molto potente, con alcune soluzioni melodiche e corali davvero azzeccate, accompagnate da un'atmosfera abbastanza oscura e carica di emozione. In contraddizione a questa oscurità,, che pervade gran parte del disco, arriva "War Of The Thrones", ballad pianistico-acustica molto particolare e decisamente riuscita. Presenta, tuttavia, dei riff ed un refrain particolarmente "felici" ed ariosi nelle melodie, che, ribadiamo, si distaccano un po' dall'atmosfera generale del disco. Nonostante questo, presa singolarmente, è una canzone molto gradevole ed interessante. La successiva "A Voice In The Dark", scelta anche come singolo apripista dell'album, è letteralmente una mazzata nei denti! Nonchè un altro deciso ritorno al passato (questa volta pienamente riuscito): attacca con uno dei riff più aggressivi e pungenti della storia dei Blind Guardian, e prosegue su binari Power-Thrash fino al bellissimo ritornello che esplode e si pianta dritto nella vostra testa, senza uscirne più. Tra doppia cassa onnipresente, precisi solos di chitarra, voce roca e graffiante, assistiamo quindi ad un altro punto alto dell'opera. La chiusura è affidata ad un'altra suite orchestrale sui 9 minuti di durata: la sbalorditiva "Wheel Of Time". Molte parti vengono affidate a melodie orientaleggianti, che si alternano a momenti più epici e maestosi (come il pomposo refrain), ed altri più semplicemente orchestrali. Anche se, a mio parere, leggermente inferiore all'iniziale "Sacred Worlds", è comunque una suite riuscitissima, appagante come poche e perfetta per chiudere in bellezza questo buon ritorno di Hansi e soci. Due parole sul secondo disco nell'edizione limitata: contiene alcune tracce dell'album in versione demo, una cover ed una versione strumentale-orchestrale di "Wheel Of Time". Insomma si rivela abbastanza inutile e poco interessante.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Da un punto di vista prettamente tecnico-sonoro, i suoni, rispetto al precedente album, sono decisamente migliori. Vengono impostati su un'equalizzazione più alta e risultano più graffianti ed adrenalinici. La tecnica dei musicisti è ottima, come sempre e come ci si aspetta da un ottimo gruppo metal degno di tale etichetta. Menzione d'onore per Hansi, che, con la sua voce a volte rauca e sporca, altre volte dolce e pulita, è un innegabile marchio di fabbrica per questa band: offre ancora un'ottima prestazione sia d'estensione vocale che interpretativa. Peccato che ciò risulti solo su disco, mentre dal vivo le sue prestazioni sono, purtroppo, inferiori. Infine, i solos di chitarra, come già ribadito, non godono di velocità elevatissime o di tecniche particolarmente complesse, ma sono comunque, come sempre, ricercati e molto interessanti. Detto questo, vediamo cosa considerare infine su At The Edge Of Time. Complessivamente è un lavoro buono ed ispirato, non si può dire il contrario. Tuttavia alcuni episodi deboli sparsi qua e là, qualche soluzione troppo ripetitiva o mal sviluppata, fa si che l'attenzione generale, da parte dell'ascoltatore, non riesca ad essere mantenuta lungo tutto il corso dell'opera. E' un peccato, perchè, d'altro canto, quest'album contiene alcuni degli episodi più riusciti della carriera dei bardi. Da fan sfegatato dei Blind Guardian, è un dolore per me scrivere queste righe, ma, purtroppo, è una sensazione che ritrovo ancora adesso, riascoltanto (per l'ennesima volta) quest'album. Ad ogni modo nulla di irreparabile, perchè il disco, come già ribadito, è comunque buono e meritevole d'ascolto, con composizioni che altri gruppi power metal solo lontanamente riuscirebbero a scrivere. Quindi, ben tornati Blind, e chissà che tra i consueti 4 anni di silenzio discografico, non abbiate modo di sfornare un nuovo vero capolavoro, così come lo sono stati Imaginations e Nightfall. Tutto è possibile, quando si parla dei migliori.


Tracklist:

1. Sacred Worlds
2. Tanelorn (Into the Void)
3. Road of No Release
4. Ride into Obsession
5. Curse My Name
6. Valkyries
7. Control the Divine
8. War of the Thrones
9. A Voice in the Dark
10. Wheel of Time


Voto: 7,5/10

domenica 7 novembre 2010

RHAPSODY OF FIRE - The Cold Embrace Of Fear (A Dark Romantic Symphony)

...Continua la saga dell'Oscuro Segreto, più gelido che mai...

Nome Album: The Cold Embrace Of Fear (A Dark Romantic Symphony)
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 19 ottobre 2010
Genere: Symphonic Power Metal/Film Score Metal

Introduzione:

Un'altra ottima uscita del 2010 che mi sento di segnalare e di recensire è questo EP, targato Rhapsody Of Fire. Forti dell'ottimo successo, anche commerciale (è arrivato intorno al 30esimo posto nella classifica italiana, e per una band metal non è da poco), del recentissimo ritorno sulle scene "The Frozen Tears Of Angels", la band italiana, sprizzante di idee, forse in questo periodo floreo più che mai, sfoggia una rara perla di classe e maestria, dando esempio del loro cinematografico e bombastico Film Score Metal. Perchè The Cold Embrace Of Fear è questo: un'unica suite di ben 35 minuti, suddivisa in 7 parti che accompagnano il proseguimento della "The Dark Secret Saga", costituendone, a tutti gli effetti, il 4° capitolo. Le chitarre elettriche e la velocità tipica del loro power-speed vengono messe in secondo piano. C'è una cosa da dire: chi ama perdutamente la band, amerà incondizionatamente questo nuovo EP. Chi la odia o, semplicemente, la taccia di essere particolarmente pacchiana e ridicola, indubbiamente troverà da ridire su questo lavoro. Il motivo è presto detto: se il precedente e recente disco era, comunque ed indubbiamente, un disco di ottimo Power Metal sinfonico composto e suonato con i controcazzi (come, attualmente, in giro se ne sentono pochi), questo nuovo parto discografico ha tutte le intenzioni di voler essere un vero e proprio film tradotto in musica. Ecco che troviamo molte narrazioni e stacchi sinfonici e poco metal propriamente detto. Insomma, è un prodotto, probabilmente, destinato ai soli fans più accaniti, che di certo godranno e si entusiasmeranno (me compreso, e non ne faccio mistero) di fronte a questa particolare opera. Un'ultima cosa da dire prima del track-by-track: l'aggettivo "romantic" del sottotitolo, nell'accezione ottocentesca del termine, a mio parere si sposa alla perfezione con l'oscurità e l'atmosfera gelida che pervade in tutta l'intera suite.


Track By Track:

Manco a dirlo, la suite si apre con narrazioni e musica prettamente cinematografica, con il primo dei sette atti: "The Pass Of Nair-Kaan", in cui una bufera di neve è lo scenario che ci viene presentato, con gli attori-narratori che affrontano una valanga di neve. La musica sinfonica innalza la tensione e ci trasporta nel bel mezzo della situazione. Il brevissimo atto secondo, "Dark Mystic Vision", della durata di nemmeno 2 minuti, viaggia sulla falsariga del primo (perchè quindi, mi chiedo, non farne un unico atto?). Viene qui introdotta una bellissima sinfonia, dal carattere oscuro ed epico, e l'atmosfera inizia seriamente a scaldarsi. Arriviamo al pezzo forte dell'EP, ovvero un brano di 15 minuti dal titolo "The Ancient Fires Of Har-Kuun", il fulcro di tutta la suite. Trattasi di un brano che alterna varie faccie della musica del combo italiano: (ennesima, ma azzeccata) introduzione sinfonica, riffs aggressivi e graffianti, accenni progressive, strofa acustica cantata in italiano, bridge e chorus con incremento della componente operistico-sinfonica, intermezzi solistici, come sempre, abbastanza ripetitivi, ma inevitabilmente coinvolgenti (da notare, a tal proposito, la sezione di assoli di tastiera e chitarra sul finale). Insomma, c'è tutto quello che dai Rhapsody Of Fire ci si può (e ci si deve) aspettare. Si calmano le acque e suoni oscuri e particolarmente atmosferici introducono il quarto atto, "The Betrayal". Trattasi di un intermezzo di 4 minuti, in cui, attraverso narrazioni e sinfonie, assistiamo al tradimento in prima persona di Tarish (preferisco non entrare più di così nel merito della storia, rischierei di rendere la recensione troppo prolissa e noiosa). Insomma, una di quelle tracce di cui un non-fan farebbe volentieri a meno, e che non possono essere ascoltate al di fuori di un contesto prettamente narrativo. Gli strumenti tradizionali riprendono in un altro degli highlights del disco: il quinto atto "Neve Rosso Sangue". Come si evince dal titolo, prosegue la tradizione tutta (va detto) fieramante rhapsodiana di inserire in ogni disco un pezzo cantato in italiano, che altro non fa che elevare al cubo l'atmosfera magica, poetica ed epica della proposta musicale del gruppo. Ci troviamo di fronte ad un brano completamente acustico, con tanto di flauti e melodie dolci di chitarra. Tali melodie, che spesso riscontriamo nella discografia della band, vanno elogiate: sono sempre di ottima fattura, mai banali e davvero coinvolgenti. In questo, i ROF sono, senza dubbio, dei maestri, e ciò va riconosciuto. Tornando al brano, questo ha l'unico difetto, a parer mio, non riuscire ad "esplodere" nei ritornelli finali. Insomma, il refrain si assesta sempre su un livello adrenalinico discreto, e, dove ci si aspetterebbe un refrain finale con super-arrangiamenti orchestrali pompati a mille e sovra su sovra su sovraincisioni, il gruppo preferisce mantenere in sordina l'atmosfera della canzone. Poco male, perchè il brano risulta comunque molto interessante e dolce come pochi. Si prosegue con il "manowarismo", combattivo e battagliero, della seguente "Erian's Lost Secrets", e qui si ritorna ad un puro epic metal sinfonico, con un grandissimo Fabio Lione al microfono. La traccia è un mid-tempo abbastanza scontato nella struttura, ma poco importa, perchè il livello di emozioni è altissimo, soprattutto nel bombastico refrain! Sul finale riprende velocità con il tema portante dell'atto terzo. La chiusura è affidata ad un'altra traccia narrata, "The Angels' Dark Revelation". Il compito delle battute finali spetta, immancabilmente, a Christopher Lee, guest star da tempo ormai collaboratore con il gruppo, che con la sua possente voce profetica, ci avvia ai cori finali, su un riff sempre più epico e maestoso.


Considerazioni Tecniche e Conclusive:

Prima di tutto, vorrei caldamente consigliarvi un paio di cose: 1- ascoltate l'opera in casa vostra, ad alto volume, seduti su un divano. Coglierete benissimo ogni variazione atmosferica ed umorale. Non avrebbe senso ascoltare un disco di tal spessore mentre fate pulizie o mentre sbrigate faccende. 2- ascoltatelo tutto, dall'inizio alla fine, non skippate le varie tracce, poichè si tratta di un'opera in cui ogni elemento è impreziosito dagli altri, in cui ogni narrazione, ogni sinfonia, è strettamente relazionata agli altri elementi ed è un tassello importante per apprezzare davvero questo film musicale di 35 minuti. Sarebbe, per esempio, come guardare un film partendo dalla sua metà. Detto questo, che dire per chiudere la recensione? Invece di sprecar parole sulle sempre eccellenti qualità tecniche, produzione, eccetera, che ormai escono dalle orecchie a tutti, vorrei ribadire che la struttura cinematografico-sinfonica dell'opera, risente dell'assenza di un'orchestra vera (come avevamo avuto modo, invece, di apprezzare in due dischi precedenti, nel 2004 e nel 2006). Tuttavia Alex Staropoli riesce ad arrangiare il tutto in modo superlativo, anche in mancanza di questo elemento, e l'impatto sonoro ed emozionale è assicurato ugualmente. Un'altra minima nota di demerito è rappresentata dalle narrazioni: ok, in quest'opera, seppur abbondanti, calzano a pennello. Ma va specificato che, in alcuni frangenti, queste sembrano poco curate. Non sembrano, insomma, essere parte integrante di un film. E lasciatemi dire che, in un disco come questo, ben vengano le narrazioni, purchè siano anch'esse curate al 100 % e non lasciate in secondo piano. Sono tutte opinioni strettamente personali, ognuno potrà avere idee diverse al riguardo. Ciò non toglie che, ad ogni modo, queste narrazioni riescano, fin dai primi ascolti, a far comprendere all'ascoltatore lo sviluppo dei vari eventi di questo capitolo della saga. Infine la copertina, una delle più belle degli ultimi tempi: ad opera ancora una volta di Felipe Machado (come ne disco precedente), rende perfettamente l'idea della musica che i ROF vogliono proporre. E bravi ragazzi, un altro centro a vostro favore. A favore di una band che rappresenta un fiero orgoglio tutto tricolore.


Tracklist:

01. Act I - The Pass Of Nair-Kaan
02. Act II - Dark Mystic Vision
03. Act III - The Ancient Fires Of Har-Kuun
04. Act IV - The Betrayal
05. Act V - Neve Rosso Sangue
06. Act VI - Erian's Lost Secrets
07. Act VII - The Angels' Dark Revelation


Voto: 8/10

giovedì 4 novembre 2010

RHAPSODY OF FIRE - The Frozen Tears Of Angels

"...A volte ritornano..."

Titolo album: The Frozen Tears Of Angels
Etichetta: Nuclear Blast
Data di uscita: 30 Aprile 2010
Genere: Symphonic Power Metal

Introduzione:

Inauguro il blog dedicato alle mie recensioni, con un album che ha molto da dire, che ha unito la critica musicale, e che, a suo modo, sa sorprendere. 
Un album tanto atteso ed acclamato, che sancisce il ritorno dei Rhapsody Of Fire sulle scene, dopo ben 4 anni di inattività dovuti a cause legali con la precendente etichetta discografica. Ma bando alle chiacchere, la band in questione non ha certo bisogno di presentazioni: basti solo ribadire che negli anni ha saputo costruirsi un'identità impareggiabile. Ha saputo, per farla breve, inventare un nuovo genere, o meglio, rimescolare le carte in tavola e ridettare le regole di un genere come il symphonic metal. 
Tutt'ora, a mio parere, quest'album rimane una delle migliori uscite discografiche del 2010. E' sorprendente come i nostri siano riusciti, nonostante una loro caratteristica ostentazione nella ripetizione di certi stilemi musicali ormai noti a tutti, a sfornare un lavoro di indubbia qualità. Un vero capolavoro, fresco, con delle ottime nuove idee, pur contenendo tutti i classici elementi musicali e stilistici della band. Elementi che i veri fans conoscono benissimo, fin dall'ormai lontano 1997. 
Liricamente, ci troviamo di fronte al prosequio della saga iniziata nel 2004 (The Dark Secret Saga). The Frozen Tears Of Angels ne rappresenta il 3° capitolo, e l'atmosfera della storia sposa alla perfezione l'aggettivo che meglio si addice al sound di quest'opera: glaciale. Diamo ora inizio ad un esauriente track-by-track!


Track By Track:

Ebbene si, i ROF sono tornati alla grande, come si può intuire dal consueto intro "Dark Frozen World", introdotto dal loro narratore ufficiale, mr. Christopher Lee. Possente come forse mai prima d'ora, l'impatto sonoro è letteralmente da pelle d'oca, attraverso cori, composizioni operistiche e classici elementi alla Rhapsody. L'intro è solo l'antipasto per uno dei brani più significativi di quello che sono i ROF nel 2010: "Sea Of Fate", un brano originale, bellissimo e melodico, che lascia trasparire elementi di novità nel songwriting generale. Ottimo il break centrale solistico-strumentale. Conferma subito il tutto la seguente "Crystal Moonlight", con il suo susseguirsi di atmosfere alla Goblin e richiami neo-progressive metal. Arriviamo alla quarta traccia, quella "Reign Of Terror" che ha fatto letteralmente impazzire i fans di tutto il mondo: I ROF mostrano un'altra faccia della loro musica, che diventa rabbiosa, al limite del black metal, attraverso anche un poderoso scream (!) di Fabio Lione. Nel bridge, il folk-power velocissimo abbinato alle scream vocals, ci riporta alla mente band viking come Ensiferum, Wintersun o Equilibrium, e nel chorus ritornano ad esplodere gli elementi classici del combo. Cori a dismisura, passaggi chitarristici ultra-tecnici, blast-beats, scream vocals, uno stacco acustico sublime: questa è "Reign Of Terror", indubbiamente la migliore del lotto, e uno dei loro migliori brani in assoluto, destinato a diventare un nuovo classico. Ascoltare per credere!!! E' l'ora del consueto intermezzo folkloristico-medievaleggiante cantato in italiano, ed inizia "Danza di Fuoco e Ghiaccio", che, tra cantato alla Branduardi, melodie ariose azzeccatissime, flauti e strumenti acustici, ha il tempo di stupirci con una bella fughetta chitarristica in clean e 3/4 del buon Luca Turilli. Il viaggio prosegue con "Raging Starfire", e qui la mente ci riporta ai vecchi lavori della band (Dawn Of Victory, Power Of The DragonFlame). Nonostante la sua classicità, la canzone sa sorpendere grazie a dei refrain sempre azzeccati e maledettamente epici. L'unico mezzo passo falso è rappresentato, purtroppo, dalla seguente ballad "Lost In Cold Dreams": troppo fredda e poco impreziosita nell'arrangiamento. Stupenda la strofa, la canzone perde un po' del suo fascino nel ritornello. Del resto la band, in ambito ballads, in passato, ci ha abituati a capolavori quali "The Magic Of The Wizard's Dream" o "Wings Of Destiny", ed è lecito non essere totalmente soddisfatti da questa nuovo lento. Prima del gran finale, incontriamo una "On The Way To Ainor", che è ancora un richiamo al passato, soprattutto nell'epico e combattivo ritornello. Un po' anonima, è una canzone che, a mio avviso, necessita di più ascolti per farzi apprezzare. Pur non riuscendo quindi a sorprendere, rimane comunque una buonissima song. Ed eccoci alla fine: qualche minuto di Film Score Metal (con narrazioni ed orchestrazioni egragiamente arrangiate), ci introduce alla title-track "The Frozen Tears Of Angels". La canzone si spiana per 11 minuti di durata, rappresentanto l'episodio più lungo dell'album, con parti di chitarra acustica e melodie "fredde" ed oscure al punto giusto, fino all'esplosione nel superbo refrain, che come un ultimo grido di battaglia, ci conduce alla conclusione di questo bellissimo viaggio nella esuberante fantasia dei Rhapsody Of Fire. Ultima nota, l'edizione limitata che possiedo presenta due bonus tracks: "Labyrinth Of Madness" (uno strumentale di pochi minuti su cui si dipana un unico assolo chitarristico) e la versione orchestrale di "Sea Of Fate" (è rallentata rispetto all'originale, e ne viene accentuata la componente sinfonica).


Considerazioni Tecniche e Conclusive: 
La band, come al solito, mostra una prestazione tecnica invidiabile, individuabile in ognuno dei componenti del combo italiano. Menzione d'onore ad un rinato Luca Turilli, che ha avuto il tempo di approfondire meglio il suo strumento, e quindi inserisce nell'album qualche nuova soluzione tecnica e scale, in alcuni frangenti, differenti rispetto al suo consueto stile puramente neoclassico. Ma, soprattutto, lode va a Fabio Lione: il tempo non scalfisce le sue corde vocali, e offre una prestazione davvero brillante come mai in passato. Inutile sprecare parole sul songwriting, Luca e Alex sono ottimi compositori, è risaputo, e nonostante si siano in passato assestati su dei canoni (coerentemente) ripetuti, hanno saputo sorprendere con non pochi elementi di innovazione; e questo, diciamolo, è raro in un mercato musicale affollato come quello odierno. La produzione è eccellente: rispetto ai recenti capolvori sinfonici (Symphony Of Enchanted Lands 2, e Triumph Or Agony), viene dato maggior credito alla chitarra, e viene diminuita la componente sinfonica. Strabiliante e colma di sfumature anche la copertina, il booklet e l'artwork in generale, a cura dell'emergente Felipe Machado (all'opera, recentemente, anche con i Blind Guardian). Quindi complimenti ai resucitati Rhapsody Of Fire, sentivamo davvero la vostra mancanza!


Tracklist:

01. Dark Frozen World
02. Sea Of Fate
03. Crystal Moonlight
04. Reign Of Terror
05. Danza Di Fuoco E Ghiaccio
06. Raging Starfire
07. Lost In Cold Dreams
08. On The Way To Ainor
09. The Frozen Tears Of Angels
10. Labyrinth Of Madness (Bonus Track)
11. Sea Of Fate - Orchestral Version (Bonus Track)

Voto: 8,5/10

mercoledì 3 novembre 2010

Post introduttivo: il perchè sono qui.

Ciao a tutti! A lettori appassionati e non, a lettori inesistenti, a futuri lettori! 
Bene, eccomi qui.. inizia la mia avventura con i blog. Voglio scrivere questo primo post per introdurre questo mio progettino. Niente di chè, in realtà: si tratta semplicemente di una raccolta di recensioni di dischi di musica Heavy Metal e annessi (innumerevoli?) sottogeneri. 
Ogni volta che mi accingo ad ascoltare un disco, sono sempre attratto dalle recensioni che si trovano sulle varie web-zine sparse per la rete. Tuttavia, di tanto in tanto, mi trovo in disaccordo con i recensori e, mentalmente, inizio a stilare una mia personale recensione dell'album. Al che, sorge spontanea una domanda: perchè non scrivere recensioni? Alla quale segue un' ulteriore domanda: perchè non scrivere recensioni su un blog, cosicchè io possa condividerle con altre persone? Ed ecco, enormemente sintetizzato, il motivo per il quale mi trovo su queste pagine.. Dare vita ad una mia personale web-zine, diciamo.
Non cercherò di seguire uno schema o di scrivere periodicamente, sarà tutto guidato dall'ispirazione del momento. E, tanto per ribadire il concetto di non-staticità, le mie recensioni credo verteranno indistintamente sia su nuove uscite fresche fresche, sia su vecchi capolavori del passato, e sia, perchè no, su demo di gruppi emergenti. 
Insomma, nulla di schematico quindi, solo passione, un po' di tempo da perdere, e voglia di confrontarsi. Grazie per l'attenzione, alla prossima. :)